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Sofocle - Aiace (445 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Prefazione
Aiace (Sofocle - Romagnoli) Personaggi



Non conosciamo la data dell’Aiace; ma esistono varii indizi per cui possiamo credere che sia il piú antico dei drammi di Sofocle giunti sino a noi.

I. - Al principio, dopo le scene fra Atena ed Ulisse e Atena ed Aiace, che ha l’ufficio di prologo (si pensi alla scolta dell’Agamennone), abbiamo la gran párodos in anapesti, che si trova nelle Supplici, nei Persiani e nell’Agamennone di Eschilo, che fu il principio tipico della vecchia tragedia, e che a mano a mano si andò trasformando.

II. - È vero che nell’Aiace c’è già il terzo attore, che dunque sarebbe stato introdotto da Sofocle; ma è altresí vero che il drammaturgo dimostra di non saper bene ancora adoperarlo. Nel finale, mentre Teucro discute con Agamennone, sopraggiunge Ulisse. Eccoli dunque in tre. Ma d’ora innanzi Teucro tace, mentre potrebbe seguitare a perorare la propria causa; e la sua condotta nei due contrasti precedenti dimostra che saprebbe farlo egregiamente. Viceversa, il drammaturgo, parrebbe, non ha imparato ancora a svolgere un terzetto. (Il silenzio di Ulisse al principio dell’azione non conta, perché in presenza d’Aiace egli non ardisce aprir bocca).

III. - Molte parole e frasi dell’Aiace sono di pretto conio eschileo; ed è naturale che l’influsso del Titano d Eleusi fosse maggiore nei primi drammi del piú giovine emulo.

IV. - Alcuni critici hanno presunto che i gruppi di versi 892-914 e 938-960 fossero rispettivamente divisi fra dodici coreuti, i quali ne recitassero circa uno per ciascuno. Saremmo dunque ancora nel periodo in cui i coreuti erano 12, come in Eschilo (Sofocle li portò a quindici).

L’ultimo argomento non ha nessun valore. È fondato su un computo arbitrario; e poi, dilacera miseramente brani che non tollerano veruna disintegrazione: appartiene a quel gramo genere di critica che io ho stigmatizzata piú volte, che prendeva a calci — villana che s’illudeva d’essere ripulita — il senso artistico e il senso comune, che imperversò per molto tempo in Germania, e che anche da noi fu introdotta ed esaltata da qualche innocente. Il tempo ne va facendo giustizia.

Le altre hanno invece maggior valore. E specialmente la prima. Perché, non solamente per la forma, bensì anche pel contenuto, la pàrodos dell’Aiace arieggia la maniera eschilèa, sino a minuti particolari. Il confronto che i coreuti istituiscono fra il loro signore Aiace e un avvoltoio (v. 182), ricorda quello della pàrodos dell’Agamennone, dove gli Atridi sono paragonati ad

avvoltoi,

che, perso il travaglio dei figli,
dai nidi vegliati, nel cruccio
immane, sovressi i giacigli
s’aggirano, a guisa di turbine,

librati sui remi dell’ale.

E i gruppi di versi che rispettivamente contengono la immagine nelle due tragedie, e che ne sono dominati, lasciano una impressione simile.

Ma il carattere arcaizzante non si limita a questa prima uscita anapèstica; anzi risulta dalla speciale disposizione di tutto il principio della tragedia, e proprio da certi atteggiamenti in cui Sofocle si distacca da Eschilo.

Infatti, mentre nell’Agamennone, dopo l’entrata anapèstica, séguita il canto intorno all'ara, e poi incomincia la parte propriamente drammatica, caratterizzata dai metri giambici, nell’Aiace, dopo il primo sistema intonato intorno all’ara, entra Tecmessa, e con lei s'apre la vera azione drammatica. Se non che, Tecmessa non parla in giambi, bensí in anapèsti. E in anapèsti risponde il coro. E dopo un dialogo, ecco una nuova strofa del coro, alla quale segue un brano anapèstico di Tecmessa. E poi l’antistrofe, che completa la simmetria del canto corale; e, infine, una nuova lunga battuta anapèstica di Tecmessa. E solamente dopo questa, entra infine la parte giambica.

Cosí, dunque, gli anapèsti che nelle tragedie eschilee (Supplici, Persiani, Agamennone) sono limitati al primo canto d’ingresso, qui straripano ad invadere, non solo il canto intorno all’ara, bensí anche il primo episodio drammatico. Il che, pure essendo, almeno per quanto possiamo dire nello stato attuale delle cognizioni, una novità, radica però la tragedia alla sua forma piú arcaica.

E la singolarità della forma influisce anche sui contenuto.

In tutta la parte che segue immediatamente al prologo, sino all’entrata decisamente giambica di Tecmessa (v. 276) sono esposti gli antefatti. Ed esposti concordemente alla natura dei ritmi, in forma lirica, e, dunque, sintetica: il coro parlando per via di vaghi cenni (perché non sa), Tecmessa quasi parlando a sé stessa e rievocando a sbalzi, come se la piena della passione non le consenta un racconto ordinato e preciso. E questa è proprio la maniera eschilea.

Parallela alla presentazione di Tecmessa è quella di Aiace.

Con essa non entriamo ancora decisamente nella parte drammatica. Tutta la parte di Aiace è gittata in tre gruppi di strofe ed antistrofe, che nella loro forma precisa convogliano anche le brevi repliche del coro e di Tecmessa. E questa entrata strettamente lirica, mentre eleva súbito l’eroe ad una altezza piú che umana — quella degli eroi d’Eschilo — ci riporta alle origini, quando la tragedia era essenzialmente lirica.

E carattere di solennità e di arcaismo aggiungono gli esametri onde si concludono rispettivamente la strofe e l’antistrofe seconda, e che rievocano anche la originaria parentela della tragedia con la poesia epica.

Ed anche qui, la forma lirica importa un contenuto sintetico. Nelle effusioni di Aiace, traluce, da espressioni piú o meno enigmatiche, il tragico futuro. E lo vediamo disegnarsi, come un cielo nubiloso, sopra il buio baratro degli antefatti.

Ed anche questo potente effetto, è un riflesso della sublime drammaturgia d’Eschilo.

Da molti, quasi direi da tutti i critici è stato osservato che l’interesse della tragedia muore con la morte d’Aiace, e che tutta la seconda parte sa d’appiccicatura.

Ma l’appunto è ispirato ad un concetto moderno, e, tutto sommato, abbastanza ristretto, secondo il quale l’unità d’azione d’un dramma va cercata nell’aggrupparsi della materia intorno ad un solo personaggio, ad un solo evento.

Ma qui è il luogo di ricordare l’originario carattere dell’antica drammaturgia greca, quale io l’ho desunto dall’analisi delle tragedie d’Eschilo1. Si vede chiaro come il drammaturgo, postasi innanzi una vasta materia mitica, non trascelga questo o quell’episodio per intrecciarvene poi altri in linea subordinata: bensí ne faccia sfilare molti dinanzi ai nostri occhi. Il poeta espone liberamente il mito nella successione cronologica dei suoi episodi. La drammaturgia d’Eschilo è una drammatizzata esposizione di miti. Con lui abbiamo il dramma al servigio del mito.

Sofocle si distaccherà da questa concezione per giungere ad un’altra assai diversa, e molto piú affine alla moderna. Ma nell’Aiace vi rimane ancora, almeno in parte, aderente. Inutile parlare delle fantasticherie di qualche critico, che ha addirittura creduta non sofoclea ed appicciccata la seconda parte.

Evidenti tracce d’arcaismo si osservano anche nella concezione della figura d’Aiace. Massime nella sua rigidità. Le circostanze della vita mutano d’intomo a lui. Egli rimane immobile, senza che una sola linea della sua figura si sposti, sia pure d’una quantità infinitesima. Né convenienze umane, né preghiere d’amici, né tenerezza di padre, né pietà di sposo valgono a raddolcirlo un solo istante. Involontariamente, ci torna al pensiero il famoso paragone onde Omero ha voluto caratterizzarlo (Il., XI, 558).

Come talvolta un ciuco testardo, nei pressi d’un campo, ruba la mano ai ragazzi: per quanto gli rompan bastoni sopra la schiena, v’entra, distrugge la mèsse profonda: giú coi bastoni i ragazzi gli dànno; ma poca è la forza.

Ma questa durezza diviene crudeltà verso Tecmessa. E odiosa crudeltà. Quando egli respinge con tanta asprezza le preghiere della misera, che, divenuta, anche a forza, sua sposa, non vede piú in lui l’uccisore dei suoi parenti, ma solo il padre del suo bambino, il nostro cuore si allontana da lui. Il continuato sarcasmo del discorso in cui dichiara di essersi ravveduto2, accresce la sua inflessibilità. Insomma, non ha nulla ancora della duttilità, e, in conclusione, della maggiore umanità che caratterizza i personaggi sofoclei. Ha la perfetta immobilità psicologica dei personaggi d’Eschilo3.

E accanto agli arcaismi, appaiono frequenti nell’Aiace anche le novità, le caratteristiche della nuova drammaturgia sofoclea.

Nei caratteri, innanzi tutto.

Ulisse, che, dopo la morte d’Aiace, depone ogni ira contro il suo feroce nemico, e, pure in contrasto con Agamènnone, ne assume la difesa, e Teucro, che, a sua volta, non s’irrigidisce nell’odio, e riconosce di buon animo la generosità di Ulisse, sono due esempi della maggior duttilità psicologica caratteristica dei futuri personaggi di Sofocle. Ma sofoclea è soprattutto Tecmessa, che per la sua dolcezza e la inalterabile pazienza, tanto si avvicina a Giocasta e a Deianira, quanto si allontana dalle viragini di Eschilo.

Poi, nella disposizione della materia drammatica. Dopo l’esposizione degli antefatti seguita nelle prime scene, lo spettatore vede Aiace disperato, e lo ode esprimere funesti propositi. Ma ecco, dopo una breve assenza, ricompare, e dichiara di essersi ravveduto, di voler placare i Numi e far atto di soggezione ad Agamennone, e, in genere, ai più potenti. E si allontana, per offrire un sacrificio ai Numi, non senza lasciare nel nostro animo un lievito di dubbio e di timore.

Ma il coro non partecipa i nostri dubbi. Crede senz’altro alle dichiarazioni d’Aiace, e manifesta la sua soddisfazione in un iporchèma, una vivace e giocosa aria di ballo. Onde l’animo nostro è indotto anch’esso e quasi trascinato a sicurezza.

Ma poi sopraggiunge l’araldo, e le sue parole pongono di nuovo tutto quanto in forse, e ci immergono ancòra in gran trepidazione. E, quasi ad accrescere questo senso di angosciosa incertezza, il coro, con effetto, non propriamente nuovo, perché s’era visto già nelle Coèfore, ma certo estremamente raro nella drammaturgia antica, si allontana, e orchestra e scena rimangono vuote, e ci lasciano soli con la nostra perplessità angosciosa. La tensione d’animo degli spettatori, a questo punto dové essere massima. Tutti attendono, o l’urlo mortale dell’eroe, oppure l’araldo che giunga ad annunziarne la morte.

E invece, ecco l’eroe stesso, ancora in vita. Tutti traggono il respiro. Ma il sollievo momentaneo è ben presto distrutto dalle sue tristi parole, che, a poco a poco, ci fanno ripiombare nella piú fiera tragedia.

Abbiamo qui dunque, e adoperato con mano maestra, quel mezzo infallibile di avvincere l’interesse degli spettatori, che consiste nel lasciarli sospesi intorno all’esito degli eventi che si svolgono su la scena. Mezzo alienissimo dalla drammaturgia di Eschilo, nella quale gli episodi si allineano come la tradizione li suggerisce, e non contano che sul loro intrinseco pregio poetico.

Anche il contrasto, l’altro gran principio della drammaturgia sofoclèa, appare qui, non solo in perfetta funzione, ma, quasi direi, usato con l’eccesso del neofita. Nell’ultima parte, ne troviamo tre, uno dopo l’altro (Teucro-Menelao, Teucro-Agamennone, Agamennone-Ulisse).

Ed è interessante vedere, come, in concordia con lo spirito musicale che anima e crea le forme del dramma greco4, anche questa forma essenzialmente nuova, si sia già composta in sagome precise.

Esaminiamo il contrasto fra Teucro e Menelao. Prima un paio di battute per ciascuno, quasi una presa di ferro. Quindi, un lungo discorso di Menelao, e, dopo un paio di versi del coro, un altro lungo discorso di Teucro, che, nella economia ritmica, quasi gli fa da contrappeso. Tre altri versi del coro, poi una lunga sticomitía (verso contro verso) dei due antagonisti: un fitto tintinnare di lame nello scontro accanito. Poi, otto versi di Menelao, ed otto di Teucro, altri due minori blocchi, che ancora oppongono le loro moli, e restituiscono il senso della simmetria. Due versi di Menelao e due di Teucro la precisano. Due del Coro, formano come il sigillo.

Questa elaborazione cosí complessa e precisa, che, a renderla in un grafico, offre una perfetta geometria, dimostra, mi sembra, che qui il drammaturgo non era ai suoi primi tentativi.

Il contrasto, che súbito segue, fra Teucro ed Agamènnone, è costituito solamente di due discorsi lunghi. Ma poi sopraggiunge Ulisse, che, in certo modo, si sostituisce a Teucro, e sviluppa il contrasto, prima in una serie di dicomitíe (due versi contro due), poi di sticomitíe, portandolo cosí alla sua piena integrazione formale.

Quanto alla forma, il contrasto è dunque giunto al suo completo sviluppo. Ma quanto alla intima dinamica, non abbiamo qui davvero la potenza che vediamo raggiunta in altre tragedie (classico quello, nell’Edipo re, fra Edipo e Tiresia). Viceversa, vi appare già la tendenza, che andrà poi prevalendo nei drammi di Sofocle, e che giungerà al colmo in quelli d’Euripide, di convertire l’urto passionale in dibattito forense. Cosí nel contrasto fra Teucro e Menelao.

E c’è, qua e là, qualche particolare artifizioso, come, per esempio, nel confronto che Teucro istituisce e sviluppa fra il bàlteo d’Aiace e la spada di Ettore.

Nell’Aiace non c’è alcun personaggio comicizzante, come la guardia dell’Antigone o il pastore dell’Edipo re. Ma quella singolar vena umoristica di Sofocle, che cosí mirabilmente vediamo riflessa in quelle due figure, anche qui traspare in certe battute della prima scena, nelle quali si manifesta una certa paura di Ulisse di fronte ad Aiace. Nessun dubbio che l’intenzione comica ci sia. Ne troviamo l’equivalente nella notissima figurazione d’un vaso attico, dove è rappresentata la contesa fra Aiace ed Ulisse. Tre vigorosi giovani hanno afferrato il furente Aiace; ma i loro muscoli, tesi e gonfiati nell’ardua bisogna, appena riescono a trattenerlo. Invece, i gesti di quelli che tengono Ulisse sono infinitamente meno energici; e, con un tratto squisitamente ironico, uno di loro ha afferrata la guaina della sua spada. C’è proprio il medesimo spirito che è nell’Aiace di Sofocle.

Si potrà forse dimandare perché poi Sofocle, allontanandosi da una tradizione che sembra quasi canonica nei drammaturgi attici, abbia, nel finale della tragedia, dipinto Ulisse con colori simpatici. Forse ciò deriva dal fatto che in questa tragedia lo vediamo sotto la diretta protezione d’Atena; e non era opportuno che un beniamino dalla Signora d’Atene fosse rappresentato come perfetto briccone, quale appare, per esempio, nel Filottete: dove però la protezione di Atena sarà sottintesa, ma non è espressa.

Si potrebbe forse obiettare che nessuno costringeva Sofocle a sottolineare tanto questo rapporto fra Atena ed Ulisse. Ma, primo, sarebbe indiscreta obiezione; e poi mi sembra che la protezione di Atena in questo episodio mitico fosse suggerita dalla tradizione. Infatti anche nel vaso attico ricordato, troviamo Atena che presiede alla votazione, e annuncia trionfalmente la frodolenta vittoria d’Aiace.

Una certa comicità è anche nelle battute onde Atena flagella il povero Aiace delirante. Ma è tanto sarcastica, che si risolve in assoluta amaritudine.

Notevole in questa tragedia, come in genere in tutto il teatro attico, è il campanilismo, o, meglio, la lusinga al campanilismo degli spettatori. Gli effetti non ne sono mai troppo favorevoli alle ragioni dell’arte. E spesso nocivi; come, per esempio, quando i compagni d’Aiace, di tra il lutto che opprime la loro anima, esprimono l’augurio:


Deh, fossi ove del Sunio
sul pian, selvoso un promontorio avanza,
e il flutto ai pie’ gli danza,
sí che un saluto volgere
di lí potessi alla divina Atene!


Un simile voto, in bocca a Salaminii dell’età omerica, suona quasi grottesco.

Conviene poi notare il taglio originale della seconda parte. Già nelle Coefore d’Eschilo avevamo visto il coro abbandonare per qualche tempo la scena. Ma qui troviamo, non soltanto la mobilità, bensí anche il simmetrico frazionamento; e quella e questo utilizzati ai fini dell’arte. Il ritorno dei due semicori, con le loro repliche ben distinte, e con l’intervento di Tecmessa, riesce quanto mai pittoresco e musicale. E costituisce come una nuova párodos, il principio d’una nuova azione. E il senso di novità è accresciuto dall’arrivo di Teucro, personaggio finora non comparso. Insomma, questa seconda parte è un vero e proprio secondo atto, nel senso moderno, compreso il cambiamento di scena. E nei riguardi della drammaturgia antica costituisce una novità, che almeno per quanto possiamo giudicare dal materiale di studio che possediamo, va attribuita a Sofocle.

E, in complesso, nell’Aiace, vediamo Sofocle ancora sotto l’influsso di antiche formule d’arte, e dominato dalla formidabile personalità d’Eschilo. Ma in ogni parte sentiamo fermentare il nuovo spirito del suo genio, che poi urge le antiche forme, per renderle meglio adatte alle necessità implicite nella nuova concezione drammatica, e che si vanno via via sviluppando e determinando con lo sviluppo dell’opera sofoclèa. Cosí, per esempio, le parti liriche cominciano ad uscire dal loro isolamento, per entrare in funzione drammatica.

È una fase che possiamo ravvisare nello sviluppo di molti grandi artisti, d’ogni arte. Fase breve, fase critica, nella quale sbocciano sovente i piú affascinanti capolavori: quelli che contengono come una essenziale fermentazione di frutti già colti e leggermente appassiti, e una ebbra trepidazione di germi futuri. Ultimi omaggi al passato, fervidi saluti all’avvenire. Appartengono, per esempio, ad una di queste fasi, la prima e la seconda sinfonia, la sonata per violino in do minore, il quartetto in do minore di Beethoven. Vi appartiene l’Aiace di Sofocle.

S’intende che molto differente è poi il rapporto che intercede fra Beethoven e Haydn, fra Sofocle ed Eschilo. Ma si sa che in fenomeni d’arte non esiste mai, l’identità, e non bisogna, dunque, cercarla, né — tanto meno —, quando non c’è, fabbricarla. Ma anche le analogie possono molto illuminare.

E in questa singolare posizione dell’Aiace, in questo suo carattere misto d’arcaismo e di novità, va cercata, credo, la ragione del fascino profondo che lo distingue fra tutti i drammi superstiti di Sofocle, anche superiori, e di molto, per magistero di psicologia, per dinamica drammatica, per profondità di sentimento e per incanto pittoresco.

  1. Vedi il mio libro Il teatro greco, pag. 55 sg.
  2. Ai nostri giorni, da un filosofo, fu creduta espressa sul serio, e fu lodata come savia, la massima che bisogna trattare gli amici come se un giorno potessero diventare nemici. Ma è ben chiaro che secondo Aiace è massima ribalda. Come, d’altronde, è certo che, quando scrisse questa tragedia, Sofocle doveva essere penetrato della sua amara verità. Perché anche Ulisse, nel suo dibattito con Agamennone dice: «Molti ora cari, diverranno amari».
  3. Vedi il mio Teatro greco, pag. 66 sg.
  4. Vedi, in questa collezione, l’Eschilo, vol. I, pag. XV.


Note

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