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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. X


ALCESTE REDIVIVA

POEMETTO

DI

BUONAMICO BUONAMICI

PISANO


     La tenera Pietà, soave in volto,
Me di dolente istoria or vuol cantore:
Prendo la cetra e la sua voce ascolto,
Che dolcemente mi susurra al core.
Bello è il suol di Tessaglia, è in esso accolto
Quanto l’aere e la terra ha di migliore:
Il virtuoso Admeto a questa in seno
Del Popolo Ferèo reggeva il freno.

     Padre assai più che Re, facea felici
Le genti sue con moderato impero,
Che paghe all’ombra di sì giusti auspici
Davan d’obbedienza omaggio vero,
Nè esatto men degli ospitali uffici
Osservator, giammai da se straniero
Senza doni ed onor partir non vide:
Tal era il Re, quando a lui giunse Alcide.


     Alcide il fiero che stupir la terra
Facea col grido delle prime imprese,
Che giva i mostri ad affrontare in guerra,
Trionfator d’orribili contese:
Passato il muro avea, che intorno serra
La Cittade regal d’alte difese
E per le vie frequenti, a passi tardi
Giva, traendo a se di tutti i guardi.

     Smisurate ha le membra. Al tergo porta
Ruvida pelle di leon feroce,
Che affibbiata coll’unghia acuta e torta
Frena sul fianco l’agitar veloce:
Chioma ha ricciuta, e barba ispida e corta,
Accigliata la fronte, il guardo atroce,
Nerborute le braccia, e al guardo esposte
Sul largo petto l’eminenti coste.

     Tremendo procedea con minacciosa
Andatura, e col capo alto e sicuro:
Nudo ha l’omero manco, e al destro posa
Un pesante troncon nocchiuto e duro.
Tra l’attonita gente e timorosa
Passa in tal guisa e per il volgo oscuro,
Che la persona di ammirar non cessa,
E piace altrui la sua ferocia istessa.


     Ma colà giunto, ove gran turba ondeggia,
Diversa di maniere e di sembianti,
Tra le concave volte della Reggia,
Alte e di eco moltiplice sonanti;
Fiso alcun rimirando, avvien che veggia
Nei volti un resto degli estremi pianti,
Dei pianti estremi che in umil tributo
Pagansi degli estinti al cener muto.

     E il Rege istesso, che al primiero avviso
Corse a incontrarlo e oppresse il duol tiranno,
E sincero negli atti e in dolce viso
Allontanò l’idea del proprio danno,
Pur, disadorno il manto, il crin reciso,
Tradia col volto il mal celato affanno;
Onde, pria d’accettar gli amici amplessi,
Così lo interrogò de’ suoi successi.

     Deh! che t’affligge? E qual idea di morte
Le tue fedi insestar tanto ha potuto?
Forse i tuoi figli, o la fedel consorte
Spirar vedeesti, o il genitor canuto?
Per legge fu dell’immutabil sorte
Che li rapì l’inesorabil Pluto!
Gli tolse a te necessitade umana?
Fu frode altrui, fu nemicizia insana?


     Dimmi qual esser dee dell’ira mia
L’oggetto primo e della tua vendetta,
Ch’io tal memoria ne darò che sia
D’esempio ognor la maestà negletta.
Ma se da te con cerimonia pia
L’Ombra smarrita il suo riposo aspetta,
Lungi ne andrò, che col restarti accanto
T’impedirei la libertà del pianto.

     Tolgan, riprese il Re, tolgan li Dei
Che fugga tu la mia mensa ospitale,
E in altri tetti che ne’ tetti miei
Gusti ’l pane innocente e l’aspro sale:
Ben fu a me cara ed io fui caro a lei
Che per sempre assopì morte fatale,
Ma qui non gioverìa ripeter come
Chiudesse i lumi, o rammentarne il nome.

     Deh! poichè fu il ferale onor compito,
Copra il silenzio ogni memoria trista
E la tranquillità, del mesto rito
Omai succeda alla dolente vista:
Lega con serti il crine ove al fiorito
Minto sia l’edra avviluppata e mista,
E dal nero licor, che le ore brevi
Rende al pensier, nuovo vigor ricevi.


     Così dicendo, il virtuoso Greco
Con dolce forza a’ suoi ricetti il guida:
Mischian le destre sociali e seco
Nell’albergo ospital fa che si affida.
Ercole disse: or se tu vuoi che teco
Della dimora mia l’ore divida,
Giura, pria che al mio labbro il cibo accosti
Svelare a me come tradito fosti.

     Nè rabbia altrui, nè tradimento infame
Di una vita diletta (il Re rispose)
Troncar potèro il prezioso stame,
Ma il fato avverso delle umane cose!
Or con qual pro, per appagar tue brame,
T’aprirò del mio duol le fonti ascose?
Ma pur, se così vuoi, pria ti ristora,
Poi, tel giuro, saprai ciò che mi accuora.

     Mentre favella, al grande Alcide innante
Tutta si affretta la ministra gente;
Chi l’onda versa tiepida e fumante
In argenteo catin vasto e lucente,
Chi dell’Eroe le polverose piante
Esatto lava e asterge diligente;
Altri dell’arme orrenda il braccio sgrava,
E trasportano in duo l’immensa clava.


     Ma poichè a mensa alfin, che di vivande
Copiosamente s’orna e si provvede,
Gustato ebber di cibi e di bevande
Quanto il bisogno natural richiede;
Admeto sospirò, poi disse: o grande
Figlio di Giove e di sua gloria erede,
A che mi sforzi a rammentarti adesso
La pena mia per funestar te stesso?

     Se de’ sofferti un dì casi infelici
È ver che un’alma disacerbi il grave
Quando dalla pietà de’ cari amici
Narrando ottien compassion soave,
Tu che ai fieri contrasti e all’ire ultrici
Uso il tuo petto hai sol, che nulla pave,
Deh! alla pietà prepara il cor severo:
Molta io ne merto e molta ancor ne spero.

     In sul fiorir della più dolce vita
Che lusingi il desio di noi viventi
Già fui felice, e quell’età gradita
E quel primo gioir sempre ho presenti.
Giovin, dal terzo lustro appena uscita,
Negli occhi vivi e nelle guance ardenti
Tutte di gioventude Alceste mia
All’altrui sguardo le primizie offria.


     L’amai, mi amò. Da lei cuna regale
Fu il men ch’io chiesi, o dote altra simile.
Ampia fortuna e nobiltà che vale
Ove virtù non regna e l’alma è vile?
Piacquemi nella scelta maritale
Il candor del costume e un cor gentile.
Noi fidi amanti e fortunati sposi
Fummo, e pace protesse i miei riposi.

     Due cari vaghi ed innocenti figli
Errarmi intorno indi a non molto vidi,
E assicurar ne’ primi lor perigli
Ai miei ginocchi i passi ancor mal fidi.
Piacer non v’ha che tal piacer somigli,
Le tigri Ircane ed i leon Numidi
Senton la forza ond’è ad amar condotto
L’essere che produsse, il suo prodotto.

     Così men vissi in dolce stato e caro,
Lieto lunga stagion di mia catena.
Ma come nube al sole il raggio chiaro
Talvolta offende colla nera schiena,
Arida febbre, cui non val riparo,
E che irata mi serve in ogni vena,
Tenendo me con crudo assalto oppresso,
Nostra quiete intorbidava spesso.


     Ahi! quante volte smaniosa torse
Verso di me la morte il guardo truce!
E quante volte, di mia vita in forse,
Più mirar non sperai la cara luce!
Pur fu pietoso il cielo e me soccorse;
Che altrove il morbo il suo furor riduce,
Nuovo vigor ricolorisce l’egra
Mia faccia spenta e i cari miei rallegra.

     Ma poichè ancor con iterata guerra
Rinnovava sovente i miei languori,
Timor, che con man fredda il cor mi afferra,
Mai non permette appien ch’io mi ristori;
Nè perch’io ricercassi in altra terra,
Per le Tessale sponde, aure migliori,
Giammai mi lascia nè giammai vien mene
L’irrequieto duol che covo in seno.

     Scorro i bei lidi e giungo alfin, non anco
Sgombro nell’alma dal sospetto reo,
Ove, a Larissa inumidito il fianco,
Presso al Termaico Mar cade il Penèo:
Con un cupo muggir; spumoso e bianco
Bolle non lungi il minaccioso Egèo,
E l’Ossa porta colle fredde spalle
Ombra di Tempe alla romita valle.


     Deliziosa è la vallatta e varia
D’acque e di piante, e taciturna e sola,
E la tranquilla amenità dell’aria
Solo interrompe alcun augel che vola:
Qui la passera mesta e solitaria
Colla querula voce si consola:
Mormora il fiume e d’alti spruzzi aspe
Rotto sasso inegual che in lui s’immerge.

     M’interno nella selva, ove remota
Perde il sentiero è più le fronde intrica;
Orma non serba, ma deserta e vuota
Par che inviti a obbliar l’aspra fatica,
Aura non v’è che l’alte cime scuota,
Eco non v’ha che i detti altrui ridica;
Pago scorrendo vo quella diletta
Rozza soavità, che pur mi alletta.

     E giungo errando ove una rupe vecchia,
Su cui stride talor corvo prefago,
Pende ed in atto di cader si specchia,
Consunta al piè, nel sottoposto lago.
Qui un dolce suon, che mi ferì l’orecchia,
Mi fè d’intender curioso e vago.
Certo col guardo e un giovane Pastore
Più basso veggio esser del suono autore.


     Presso la casa affumicata e nera
Sedea sull’erba in breve fascio unita:
Sciolto ha l’intatto crin, che bionda cera
Somiglia, allor dall’alveare uscita.
Canna forata imbocca e con leggiera
Mano vi alterna le veloci dita:
Chi mai ridir chi creder mai può quanto
Era in quell’armonia d’arte e d’incanto?

     Talora imita il flebile usignolo,
Che dolce si lamenta in quella foce,
O chiama il cigno, che dolente e solo
Sfoga co’ canti suoi la pena atroce.
Dietro a quel suon, del querulo figliolo
Spesso la bianca vacca obblia la voce:
Il tenero giovenco, allor ch’ei suona,
La mammella vital spesso abbandona.

     Un cornuto capretto erra e saltella
Intorno a lui, di lunghi velli ornato,
E rosicando va tacita agnella
L’erbe minute onde si veste il prato.
Bello è il suo volto, ed altrettanto bella
È la sua voce ed il suo canto è grato,
Che dopo il suon così dal labbro fuore
Manda, in note distinte alte e canore.


     O vita pastoral dolce e sicura,
Ove del cor le doti intatte stanno,
Lungi delle superbe e ricche mura
Dal troppo folle e strepitoso inganno!
Qui non costretta i doni suoi natura
Porge migliori al variar dell’anno,
Nè il rozzo cibo è umil che l’uom ricrea
Render amaro puote invidia rea.

     Contenti amate, o Tessali Pasturi,
Lo stato in cui, dal ciel posti, vivete
E la soave ognor de’ vostri cuori
Cara semplicità deh! difendete!
Più del latte, o dell’onda ai primi albori
Bella è innocenza e l’ore sue son liete,
Più d’acuto ginepro o d’irto pruno
Lunge il sospetto macero e digiuno.

     O quanto ben tra l’utile lavoro
E i sacri carmi l’ore escon divise!
Apollo ama i pastori e l’opre loro
E queste valli, ove a seguir si mise
Dafne ritrosa che divenne alloro:
Povera Ninfa! il suo timor l’uccise:
Farla scorno ed oltraggio ei non volea,
Temè un consorte ed or sarebbe Dea.


     Come il coniglio pauroso e muto,
Che udito ha il rauco fremito del corno,
A zampare i cavalli, o il can labbruto.
Empier la selva d’ululati intorno,
Dafne senza consiglio e senz’ajuto
Fuggia dal Nume apportator del giorno,
E tentava nel gorgo alto e vorace
Quasi lanciarsi a ricercar la pace.

     Ma ruvida corteccia in sulla sponda
Le tronca il corso e le sue gambe abbraccia;
Entra il piè nel terreno e si profonda,
Fatto radice, in tortuosa traccia;
Sona il crin che divien minuta fronda
E sente in alto intirizzir le braccia:
Ancor si spinse per fuggir, ma invano
Tentava il piè di separar dal piano.

     Qual incauto augellin che presso al suolo
Sulla viscosa verga andò a posarse,
Ritenta dopo inutilmente il volo
Alzar più volte colle piume sparse;
Tal fu la Ninfa. Interno amaro duolo
Sentinne Apollo e sulla faccia n’arse,
Ma nelle scorze già tenaci e crude
Tutto il bel corpo si ravvolge e chiude.


     Così cantava. Udir parve i suoi canti
Il maggior lauro ed incurvò le cime.
Quel metro lusinghier par che disarmi
Il pesante dolor che il sen mi opprime,
E dolcemente sento ricercarmi
Del cor le sedi più riposte ed ime,
Talchè fu forza che per gli occhi fuora
Lagrime di piacer versassi allora.

     Mi appresso, a lui mi scopro, e del suo stato
Gli chiedo e perch’è quivi e qual si nome.
Signor (diss’egli) in altra terra nato
Son, mia fortuna è umil, Tersite il nome,
Pastor non nacqui, ma mi rese il fato
Povero, senza fasto e senza nome;
Pur più di gloria e d’or mi tien contento
La scarsezza del campo e dell’armento.

     La docil mente ed il parlar sincero
Piacquemi, ond’io nol vuò da me diviso,
Ed a venir l’astringo ove il sentiero
Bagna di Fera il poco steso Anfriso.
Quivi in corte sdegnò titolo altero
Goder tra’ i primi, in alto seggio assiso;
Ma sol volle, vicino alla mia reggia,
Poca terra, un tugurio ed una greggia.


     Frequentemente a quell’umil capanna
Io mi condussi e pace ivi trovai,
Che tra la folla rea dei cuor tiranna
Si perde e si riacquista o tardi, o mai.
Egli col canto l’atre cure inganna.
Se parla, ogni saper vince d’assai.
Caro io lo tengo e da ogni esterna offesa
Sua debil povertà tengo difesa.

     Sovente in me con i consigli suoi
La non facil del regno arte diresse,
E con succo vital più volte poi
Anche m’invigorì le fibre oppresse.
Scorse un anno così che furo in noi
Rette da un sol desio le voglie istesse,
Quando un dì che all’ovile i passi muovo
Quanto da quel di pria diverso il trovo!

     Lungi, disse, men vo. Non più Tersite
Io son, la forma e il nome oggi ne scuoto,
Prence, Apollo son io che con mentite
Sembianze vissi in questa terra ignoto.
Giove il mio genitor, che l’aer mite
Crolla col guardo e di sua fronte al moto,
Odiando Esculapio a me diletto,
Accesa punta fulminogli al petto.


     Nel veder senza voce e senza Vita
Steso il mio figlio sulla polve lorda,
Arsi di sdegno ver la razza ardita
Che in fabbricar saette i morti assorda.
Alla fucina lor calda e annerita
Corro, e un acuto stral metto alla corda,
E getto in un balen trafitti al piano
Gli abbronziti ministri di Vulcano.

     Sdegnato il Re de’ Numi, ad uomo eguale
Quà sulla Terra e in servitù mi rende,
E della vita fragile e mortale
Soggetto alle sventure e alle vicende.
Esule un anno fui: questo è il fatale
Dì che mia gloria il suo splendor riprende.
Or tu, che la miseria a me scemasti,
Ai beneficj avrai premio che basti.

     Esser non può che la funesta sorce
S’estingua in te del rio malor nocente;
Ma se lo stame che per te si force
Fia che la Parca un di recider rente
Evitarne potrai 1a ferrea sorce
Se altri in tua vece di morir consente.
Qui sfavillò di luce: arsero i lidi:
Vinto chinai lo sguardo è più nol vidi.


     Poichè stupor diè loco, una verace
Gioja mi riconforta e m’assicura,
Nè temo più che possa a me la pace
O la vita rapir la febbre impura.
Oh! mente nostra in presagir fallace!
Va sempre col piacer qualche sventura.
Donde la mia felicità credei
Cominciarono ohimè gli affanni miei.

     Torno alla sposa, ed il favor de’ Numi
(Che tal mi parve) e il mio gioir le svelo.
Ella di qualche stilla i cari lumi
Bagna per gioja e benedice il cielo.
Qual è tesor, che i placidi costumi
E un concorde volere e un puro zelo
E docil mente con soavi sensi,
Ahimè! qual è tesor che ciò compensi?

     Tanto mi tolse il cielo, il dolce ajuto
Che ogni pena al mio cor minor facea.
Tornò, poichè due volte ebbe compiuto
Febo il suo giro, a me la furia rea.
Era muta la terra e aer muto,
Stanco nel sonno ogni animal giacea,
Quando da accesa man con fier tormento
Premermi il petto e soffocarmi io sento.


     Mi scossi e irrigidii: chiedere aita
Volli, ma non potei formar gli accenti.
Peno e non fa contro la forza ardita
Temprar l’arte pietosa i miei tormenti,
Già la cara del ciel luce ho smarrita,
Già tolgon che sperar tutti i momenti,
Il sepolcro m’aspetta: erra per tutto
Sul volto ai fidi miei spavento e lutto,

     Resta in sì perigliose ore ferali
Sol del celeste don far uso allora;
Ma si ricerca invano un fra i mortali
Che accetti di morir perch’io non mora.
I vecchi infermi e quei che in tutti i mal
Gemono afflitti, aman la vita ancora. i
Niun v’ha nel regno e nella regia corte
Che non s’asconda al nome sol di morte.

     Quei che al brillar di più sereni rai
Espor volean per me tra’ rischi il petto,
Muti sparvero allor. Quante trovai
Larghe promesse oh Dio! vuote d’effetto!
Tutto cangia il timor. Diverso assai
È il promettere amor di vero affetto,
Abbandonato ohimè! mesto ed ansante
Palpitando attendea l’ultimo istante.


     Morte, al letto ferale intorno freme
E la vittima sua chiede crucciosa.
Sola senza conforto e senza speme
La sventura crudel piange la sposa.
Già mi annunzia il venir dell’ore estreme
Alta di singhiozzar forza affannosa;
Allor ch’ella a me gli occhi in volto affisse,
Poi s’alzò coraggiosa e così disse.

     Non morirai. Se un’altra vita, o Dei,
Vi basta, eccola: ci viva e mora Alceste
Ahimè! che tra ’l furor de’ mali miei
Ben la udii pronunziar le voci meste!
Volli dir che fermasse e non potei
Vietarle d’eseguir l’opre funeste.
Mossi in alto la man... Ma lungi volta,
Si stacca dal mio fianco e non m’ascolta.

     Sacro ai Numi infernali e taciturno
Sta remoto boschetto in fondo agli orti,
Ove compie talor stuolo notturno
Le cerimonie orribili de’ morti.
Scinge Alceste dal piè l’aureo coturno,
Scioglie i capilli inanellati e torti,
Lava la fronte, poi nell’onda pura
Ed esce sola dalle regie mura.


     E avvolta tutta dalla fronte al piede
Entro un oscuro vel, colà s’invia,
Ove sul tetro altar languide tede
Posa e il tiepido sasso abbraccia pria,
Quindi animosa ancor quanto concede
L’atto tremendo che animosa fia,
Con divelto d’allor grave cipresso
L’ara circonda e dice in tuon sommesso.

     Severo Nume che al torbo Cocito
Dai con il ferreo scettro aspro governo,
Salvami i giorni del fedel marito
E invece io scenderò nel bujo inferno.
Qui tacque e si smarrì, Lungo muggito
Diede il bosco al suo dir dal sen più interno
Crollò d’intorno il fuol: di nebbie dense
Fu il sol contaminato e il dì si spense.

     Ebbe le ardite voci appena espresse,
Ch’io mi sentii qual pria libero e sano.
Ma passò sulla sposa e sì l’oppresse
Il funèbre vapor del morbo insano,
Nè regger potè sì che non cadesse
Languidamente abbandonata al piano.
Ben ciò previdi e fiero oltre il costume
Mi spinsi fuor delle odiose piume.


     Simile è il duol ch’io provo a quei che prova
Entro ’l materno seno affanni amari,
Quando torna ove giacque e più non trova
La domestica cagna i parti cari,
Che ogni angol cerca e i gemiti rinnova
Mentr’apre indarno ad indagar le nari.
Tal io m’aggiro intorno: amor mi sprona,
Smanio e tutta la reggia Alceste suona.

     Al fin da un mio fedel, che inosservato,
Quand’ella al bosco sacro i passi torse,
Vide tutto il successo e dall’aguato
Pronto uscì quando cadde e la soccorse,
Seppi il loco i suoi detti ed il suo stato,
E come aìta per pietà le porse.
Colà m’affretto e sul terren distesa
La trovo (ahi vista rea!) dal morbo offesa.

     L’ira di morte non le aveva tolta
Tutta dal volto la beltade ancora.
Rosa parea che sul mattin fu colta,
E a sera poi s’infievolisce e sfiora.
Apre i languidi lumi e a me li volta,
Quanto languisce più, più m’innamora.
Non dimostra viltà, ma pur di pianto
Gli occhi pietosi avea tumidi alquanto.


     Che facesti (diss’io)? Le mie ferite
Di ricevere in te chi a te commise?
Come soffrillo il ciel! forse due vite
Nel tuo solo morir non sian recise?
Ella, raccolte allor le sue smarrite
Forze, guardommi e a sospirar si mise;
Quindi (ahimè pur l’intesi e non morii!)
Mesta così mi diè gli estremi addii.

     Vivi, mio Prence, il vuò. Lascia a me sola
Senza gloria morir, donna negletta
Vivi beato e il popol tuo consola,
Che il padre suo di rivedere aspetta.
Già fui felice assai: poco m’invola
Oggi la morte, anzi ’l morir, mi alletta,
Se affrettandomi, incontro all’ultim’ora
Salvo i soavi dì di chi mi adora.

     E sperar voglio ancor, se pur di tanto
Può lusingarsi un cor che per te geme,
Che, dopo la mia morte, in te quel santo
Nodo vivrà che ci congiunse insieme;
Che al tuo pensier sarò presente e accanto
Ancor mi avrai tra le memorie estreme;
Nè un’altra donna, mia rival, giammai
Obbliar ti farà quanto t’amai.


     Ma, poichè chiuse avrò le luci e quando
Fredda sotterra io sarò gita poi,
Pel nostro fido amor, ti raccomando
I miei figli innocenti, i figli tuoi.
Che se mesti talvolta é lagrimando
Chieggon la madre ed appagar li vuoi,
Narrando all’alme afflitte il caso atroce...
Finir volea, ma le mancò la voce.

     Quasi per trattener l’alma che uscio
Mi mossi, ed abbracciai le morte foglie,
E gran tempo inondai del pianto mio
Il freddo corpo della cara moglie.
Tratto dipoi dal flebil mormorio
Stuol pietoso di servi indi mi toglie.
Oggi ebbe tomba e or or tra ’l pianto amaro,
Gettai gli ultimi doni al cener caro.

     Questa è la miserabile e funesta
Storia, che più di rammentar ti vieto.
Or vedi tu se altra cagion mi resta
Onde in vita io giammai possa esser lieto.
Riscosso Ercole allor, qual chi si desta
Da lungo sonno, alzossi e disse: Admeto,
Sento il tuo duol, nè forse a te sia vano
Ch’io quà giungessi e sappia il caso strano.


     Già alla mensa a’ tuoi casi ed al riposo
Assai di tempo e alla pietà si diede.
Lungamente tranquillo ed ozioso
A me l’alma di star già non concede.
Soffri ch’io parta e ciò che il faticoso
Aspro tenor del viver mio richiede
Compia. Non molto andrà che a queste mura
Mi vedrai di ritorno: Alcide il giura.

     Quivi si rinnovar gli abbracciamenti
E l’un dall’altro Re commiato prende.
Lascia Alcide l’Anfriso e le ridenti
Terre che intorno la Tessaglia stende,
E meditando va qual de’ dolenti
Spirargli cerchi onde a Pluton si scende,
Che aspira penetrar giù nelle meste
Sedi dell’Ombre a ricercare Alceste.

     Più d’un ve n’era. Ma tra quante osaro
Di calar tra gli estinti anime ardite,
Niun mai conobbe del crudel Tenaro
Strada più orrenda che conduca a Dite.
Or, poichè sono al cor di tema ignaro
Le più scabrose vie; le più gradite,
Questa si elegge, e pien del suo pensiero
Parte e volge al meriggio il guardo fiero.


     Rapidamente il suo cammin divora
E traversa da pria con piè non lento
La Beozia marittima e canora,
Che il Permesso aspergea col puro argento.
Lascia a sinistra poi l’Eubea sonora
Per gli urti dell’Euripo turbolento
E Tebe, or rea per la fraterna gara,
Poi vede lungi Atene, indi Megara.

     E passa l’Istmo, ove Scirone estinto
Sul Saronico Mar scoglio si feo,
È l’amica al piacer vasta Corinto,
E secondo di colpe il suolo Achèo,
Ed Argo, u’ d’ombra tetra il sole tinto
Fu pe’ delitti dell’infame Atreo,
Finchè la bella Arcadia a destra vede
E pon dipoi nella Laconia il piede.

     Mentre il cammin prosegue, alte e lontane
Scorge le cime della grotta cieca.
Ei le feroci allor piagge Spartane
Sollecito trapassa e là si reca.
Presso è al termin del corso e già rimane
Tutta dietro di lui la Terra Greca,
Ed entra già nell’orrido deserto
Ove l’adito reo mostrasi aperto.


     Tra l’ombre della nera solitudine
Solo si ascolta un indistinto gemito,
Qual tuon lontano di percossa incudine,
O di vento racchiuso interno fremito.
Ne raddoppia l’orrore e l’inquietudine
De’ tronchi arsi e sfrondati il tardo tremito.
Nebbie pesanti, che maligne attoscano
L’acre, s’alzan dal suolo e il giorno affoscano.

     S’apre nel basso la feral caverna,
Cui lo spesso calor l’orlo consuma,
Che molta parte della peste interna
Mugghiando esala e lentamente fiuma.
Scagno, che s’empie da sorgente inferma,
La bagna intorno di ferrigna spuma.
Ben ha di saldo acciar cerchiato il core
Chi può mirarla e non gelar d’orrore.

     Perde augel che si accosti incauto il vola,
E dal tetro vapor cade colpito.
Fuggon la steril terra e il tristo suolo
Timidi i greggi e il pastorel smarrito,
E all’attento stranier da lunge solo
Il pallido arator la mostra a dito.
Ma non frenò sì spaventosa immagine
Alcide e si lanciò nella voragine.


     Scende per la spelonca orrida ed orba
La via confusa disastrosa e torta,
E l’atro fumo che que’ luoghi ammorba
Supera e il piè ne’ mesti Regni porta.
Va lungo tratto, e la palude torba
Scerne ed il guado della gente morta.
Colà si affretta, e l’Ombre intimorite
Fuggiano al moto e alle sembianze ardite.

     Volano a stormi, e un fremer aspro e acuto
Forman quell’Ombre radunate in fretta,
Ove il torvo Nocchier scarno e barbuto
Nella barca letal parte ne accetta,
E pel fangoso umor di Stige muto
Degli estinti alle fedi altre traghetta;
Altre, cui di sepolcro il fato priva,
Erranti lascia sull’ignuda riva.

     Volle Alcide salir; ma lo respinse,
Come mortale, il rigido Caronte.
Egli retrocedendo, il volto tinse
Tutto di foco ed increspò la fronte;
Poi disse: Ercole io son che i mostri vinse,
Che se varcar mi nieghi oltre Acheronte,
Con il tuo legno nella più profonda
Parte sommergerò te di quest’onda.


     Così dicendo, replicata e spessa
Battea la clava, di furore acceso.
Temè colui la forza al volto espressa
E l’alto sangue che da Giove è sceso;
Onde accettollo. Uscì la mal connessa
Barca di segno e scricchiolava al peso:
Ma il pratico nocchiero, all’urto opposta,
Spinge l’asta col petto, e il legno scosta.

     Giunge il pigro battel di là dal fiume
E balza Alcide sulla secca arena.
Cerbero d’arrestarlo invan presume,
Ch’ei gli serra le fauci e lo incatena.
Mentre pe’ vuoti campi, orbi di lume,
Ode dell’Ombre lievi il moto appena,
Pargli voce ascoltar che ivi sospira,
Onde si volge e Regia Donna mira.

     Che pietosa gli dice: O tu, se mai
Tornar devi a mirar la luce pura
E se il piè peregrino unqua porrai
Ove ha i Tessali Regni Admeto in cura;
Digli che la sua sposa in mesti lai
Lo chiama ognor tra questa notte oscura,
Che la cara memoria ognor deplora
Tra le tenebre quete e l’ama ancora.


     Stupì d’Alcmena il figlio e disse: O tanto
Dal tuo sposo adorata e pianta invano,
Io per te sola alla region del pianto
Oggi discesi e all’Erèbo inumano.
Seguimi e in me t’affida; e dimmi intanto
Se altro varco men aspro, o men lontano
Condurci possa dall’inferna mole
Ambi su in terra a rivedere il sole.

     L’Ombra rispose allor: ben v’ha due porte
De’ Campi Stigi nella parte estrema,
Donde partono i Sogni, e con tai scorte
Salir si puote alla region suprema,
Ma come speri tu la dura Morte,
Al di cui solo aspetto ogni alma trema,
E che attenta di noi veglia custode,
Superar colla forza, o colla frode?

     Tu mi addita il sentiero, Ercol riprese,
Più pronto ed a me lascia ogni altra cura,
Che ci saranno invan le vie contese,
Se altro io non sono e non cambiai natura.
Così ambedue pel tacito paese
Givano tra ’l silenzio e la paura;
Ed all’eburnea porta eran già presso,
Onde i vani fantasmi hanno l’egresso.


     Ed affrettando i passi, ivan sull’orme
Della turba vagante e sonnolenta,
Ma d’improvviso, pallida e deforme
Morte a mezzo il cammin lor si presenta;
E, volto l’occhio fier che mai non dorme,
Grida: olà che si chiede? e che si tenta?
Chi tanto ardir, chi a te tal dritto diede
Di rapir ne’ miei Regni a me le prede?

     Formata era costei soltanto d’ossa
E la schiomata fronte allor che scuote,
Tremano i denti rari ad ogni scossa,
Sì aggiran gli occhi in due spelonche vuote:
Roso a metade ha il naso e doppia fossa
Invece sta delle perdute gote.
Nodoso è il gorgozzul: scarnito il petto
Doppia schiera di coste offre all’aspetto.

     Talchè alla vista orrenda, alla severa
Minaccia, al roco favellare audace,
Il forte Alcide avria temuto, s’era
D’Alcide il petto di temer capace.
Ma senza sbigottir l’alma guerriera
Disse: se il mio disegno a te non piace,
Usa tua possa pur: vigor che basti
Sento per sostenere i tuoi contrasti.


     In così dir col noderoso cerro
Morte dal varco allontanar procura;
Ma quella infuria ed il falcato ferro
Ferocemente al collo gli misura.
Piegossi Alcide, e a vuoto un lungo sterro
Segnò cadendo al suol la falce dura.
Quindi risorge; ma col ferro in alto
Morte rinnova il furioso assalto.

     Egli or l’evita, or colla grave mazza
Da se diverte i colpi e mai non cede.
Allor la Morte per l’immensa piazza
Lunge il ferro gittò che inutil vede;
E a mani aperte infellonita e pazza
A lui si avventa e soffocarlo crede.
Lascia Alcide la clava, e le si serra
Veloce incontro e a lei le braccia afferra.

     Gelò da capo a piedi allor che strinse
Ercole colla man quell’ossa ignude,
Ed un ghiaccio mortal tutto gli avvinse
Il core e quasi il respirar gli chiude.
Morte per rovesciarlo oltre si spinse,
Ma sì due scosse impetuose e crude
Ercole diè, che sbilanciolla e stanco
Batter le fece sul terreno il fianco.


     La preme allor colle ginocchia entrambe,
Nè cede un passo e presa ivi la tiene.
Come a pioppo talor che l’onda lambe
Sul fusto abbarbicata edra s’attiene,
Tal si vedean per le torose gambe
I tesi nervi e le forzate vene.
Scuotesi e sotto al valido legame
Sona all’impeto fier l’arido ossame.

     Cedi, o Morte, la Donna e il passo sgombra,
Disse allor minacciando il vincitore.
Vincesti (ella gridò, di tema ingombra)
Vincesti; e chi resiste al tuo valore?
Lasciolla Alcide e per la torbid’ombra
Fuggì quella a celare il suo rossore.
Per le porte dei Sogni Ercole e Alceste
Escon da quelle piagge atre e funeste.

     Ed ai Laghi d’Epiro, al cupo Aorno
Trovansi e alla Tessaglia deliziosa
L’alto Eroe si condusse al nuovo giorno,
Ove al vedovo Re rese la sposa.
Alme, cui sorridendo Imene intorno
Un laccio appresta di color di rosa;
Di un affetto sincer giunte alla meta,
Pari amor vi desio, sorte più lieta.

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