< Alcune prose giovanili
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Elogio di Angelo Chimicata
Elogio di Pasquale Furgiuele Elogio di Tommaso Chimicata

ELOGIO


DI


ANGELO CHIMICATA.



Angelo Chimicata, morto in età giovane, ebbe disposizione per le scienze sperimentali, e massime per la medicina. La quale coltivò con perseveranza incredibile, non essendo egli occupato dalle passioni che distolgono dai nobili proponimenti l’universale de’ giovani. In fatti, egli era alieno dal vestire muliebre, dagli amori, dalle feste, dai frivoli dilettamenti ne’ quali i più consumano con vergogna il tempo migliore. E sin da giovinetto fe’ aperto l’ingegno suo non volgare, imperciocchè nello studio della lingua latina, nella quale a quel tempo era uso occupare la prima età, egli sorpassò i suoi compagni, acquistando in breve tempo dimestichezza cogli scrittori più difficili. E fra tutti è a notare ch’egli segnatamente pose amore in Cornelio Tacito, il quale non tralasciò mai di leggere anco fra le cure più gravi, avendoselo fatto com’a dire un compagno della sua vita. Non studiò le lettere italiane, allora universalmente neglette, e massime nella parte estrema d’Italia; e neanco attese alla filosofia, perciocchè allora, essendo in grido nelle scuole i sistemi francesi, gretti, superficiali, vacui, malagevolmente poteva essa allettare le tempere generose e magnanime. Ond’egli, entrato innanzi nella giovanezza, raccolse nella medicina tutte le forze dell’ingegno suo non disperse prima nè logorate in molteplici studii; e potette ricavarne frutti così copiosi, che in breve tempo vi acquisto perizia non comune.

E la riputazione sua si fu subitamente sparsa per tutti quei villaggetti che giacciono disseminati giù per le falde de’ silvosi gioghi delle Sile, rimpetto alle quali era il suo luogo nativo. E soventi volte, di notte, con le tede accese, mentrechè navigava, di lontano si partivano frotte di mandriani e agricoltori, e venivano per menare lui alle loro case a cagione della sua arte. La quale egli sapeva rendere più desiderata e benefica, imperciocchè aveva un’attitudine a dare conforto agl’infermi, per quella giovanile baldanza che mostrava nelle maniere. E di questo è a prendere meraviglia, che, non essendo troppo curante di sè medesimo, avea verso il prossimo una carità generosa, disinvolta, non appannata da ombra di affettazione; la quale cosa invogliava e incorava la minuta gente a chiamare lui, imperocchè essa non giudica la sapienza dalla pompa e dall’apparato esteriore, ma dai beneficii e dalla misericordia. Ed egli aveva cura speciale di quella, conciossiachè, laddove tutti i medici per ordinario traggono avidissimamente dentro i palagi de’ ricchi e potenti del mondo, egli per cosiffatta generazione sentiva un abborrimento connaturale, ed era di opinione che il ministerio dell’arte si rendesse più nobile coll’adoperarlo a beneficio dei poveri.

Le sue fattezze e il parlare erano singolari: lungo e svelto del corpo, i capelli davano nell’arancio, gli occhi piccioli e mobili dalla faccia magra e bianchissima lampeggiavano; un’abbondanza ed un cotale lepore nel favellare, e la voce sonante. Più singolare l’animo: indole e tempera nervose e forti nello universale deviramento, intollerante dell’arroganza e della presunzione, tantochè, quando nelle consultazioni s’imbatteva in medici i quali non per altro che per vecchiaja vergognavano di disputare con lui, egli dava in impeti e s’adirava: e questo avea di notevole nell’ira, che s’appuntavano gli occhi, e la voce si facea concitata senza trascolorare in volto. E, per questa indole sdegnosa più che per considerazioni di mente, esercitando la sua arte si contenne sempre con nobiltà e gentilezza: siffattamente che quei poveri villani, che non hanno altra possessione al mondo se si eccettua l’onestà dei costumi, commettevano la cura delle loro figliuole piuttosto a lui, giovane di ventidue anni, che a qualunque altro più attempato.

Aveva in disdegno le molli usanze della città, e passò il più del tempo in Marinesi, povero, piccolo e affumigato villaggetto che giace su un’altura rimpetto alle Sile, il quale piacevagli massimamente per le sue vedute: di là si vedono gli Appennini che si dislagano nell’aere vivo biancheggianti di neve, e la luna tonda e rossa che si solleva su i pini, e le foreste che ondeggiano quetamente. Ed egli era uso andare fuori nella campagna, e leggere nei libri, ponendosi a riposare sotto qualche albero. Imperciocchè aveva un desiderio vivissimo di gloria, che non manifestava tanto in parole, quanto nei pertinaci studii; e certo avrebbe ottenuto lode, se la sua vita non era troncata nel fiore della giovinezza e nel meglio delle sue aspettazioni.

Alla sua fine fecero miserabile preludio le morti di molti suoi cari, tutti nella prima età, per una malattia lenta, la quale quasi aspettava che quelle persone giungessero a giovinezza per levarle dal mondo. Vide morire molti fratelli e sorelle, ma senza mai piangere; solo quella naturale vispezza gli si mutò in un tale abbattimento di animo, come se presentisse in cuor suo che di là a non molto l’aspettava la medesima sorte. Nè s’ingannò: era nei venticinque anni e gli sopravvenne la tisi. Allora la Calabria invaghita di libertà s’era levata in arme; i giovani a drappelli, con le bandiere de’ nativi villaggi, cantando, traevano su i monti, volenterosi di combattere: ed egli frattanto apparecchiavasi a entrare nella quiete del sepolcro. Egli, medico, con fortissimo animo si vide consumare a poco a poco. E su l’ultimo non pareva più un giovane, ma l’ombra di quel giovane morto da molto tempo; solamente gli occhi rimanevano testimoni della naturale vivezza. E quando poi conobbe il morbo suo essere irreparabile, rifiutò ogni rimedio, gli venne una disperazione profonda, e quasi un odio della natura e degli uomini. Quello non era pochezza di animo; erano speranze troncate; fortissimi studii delusi; un vita che si spegneva nel fiore. Allorchè s’aggravò, era per avventura il tempo che si commemorano i trapassati e la vanità del mondo; ed ecco, come si costuma nelle villate della Sila, in sul filo di mezza notte destarlo un lamentio di campane, ripetuto miserabilmente dalle valli all'intorno: si ricordò egli per l’ultima volta della sua giovinezza passata come ombra e sogno, e de’ suoi libri, e dei cari suoi che lasciava, e del sepolcro; e sentì uno sgomento. Pure poco tempo innanzi alla sua fine quello sgomento e quella malinconia gli disparve, divenne sereno in volto, si rassegnò; e, chiamati il padre e la madre che piangevano dirottamente in un’altra stanza, confortolli, e passò dimentico di gloria, di giovanezza e di tutte le vanità.













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