< Alcune prose giovanili
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Elogio di Gaetano Vaccaro
Elogio di Tommaso Brunini

ELOGIO

DI

GAETANO VACCARO.



Gaetano Vaccaro, morto in età di anni venticinque, era il mio compagno della fanciullezza, e fummo nelle medesime scuole, e sovente eravamo in grande emulazione in opera d’ingegno e di studio; come se lo studio e l’ingegno in questo mondo rilevassero a procurare la felicità della vita. Questo giovine fu molto piacevole e lepido, e di maniere franche, e d’intelletto svegliato massimamente nelle scienze che risguardano la natura. Ed ebbe fattezze non singolari: magro assai, di volto piccolo e bruno, occhi e voce pieni di vivezza. In tutte le scuole studiavasi di signoreggiare, a cagione della naturale generosità ed alterezza de’ suoi sentimenti; oltrechè, argomentavasi di procacciar la benevolenza dei compagni, prendendo piacere che non gl’invidiassero questo giovanile primato. Studiò medicina in Napoli. I genitori, che lo amavano affettuosissimamente ed in lui aveano poste molte speranze, con amaritudine ma pazienti sopportavano la sua lontananza, immaginando nella loro mente che tra breve tempo dovessero abbracciarlo, e guardarlo, e goderselo quanto bastasse.

Era divenuto medico, e tornato in patria mostrava nella sua arte siffatto senno, che dava chiaro ad intendere che, venendo nell’età perfetta, avrebbe acquistato reputazione ed eccellenza. Egli era il medico de’ giovani; imperciocchè questi desideravano e cercavano lui più di qualunque altro: ed egli, tra il desiderio di procurar fama e per una tale magnanimità di natura, assisteva tutti con liberale sollecitudine ed efficacia. E massime gli amici, ai quali, comunque non sapesse favellar con affetto, non essendo del suo temperamento disinvolto, nulladimeno era generoso e prodigo del suo oltre ogni credere. E non mi fa meraviglia, chè anco della vita medesima non avea cura, in maniera che, giovanissimo, allorquando si fu avveduto soprastargli quella malattia lenta che in appresso lo menò a morte, era usato con tranquillità a dire: Io non vivrò più di altri tre anni; nonpertanto il tempo che si prometteva era assai lungo!

In verità era intrepido: sentiva, a mio intendimento, l’amaritudine di morire in età sì fresca; dopo avere studiato in lontana parte, per sì lungo tempo, ed essersi privato di tutte le dolcezze più indesiderabili, poi, appena arrivato dentro la casa tra le braccia dei genitori, passare da queste al sepolcro; nondimeno, vedendo che il manifestare i propri infortuni non torna a giovamento, li dissimulava, conservando una certa serenità in volto, come chi è in una sventura indubitata e conosce che non ostante tutte le querelanze il fato è immutabile. E per tale intrepidezza dell’animo suo, quando alcuno leggermente infermo con soverchia sollecitudine lo domandava della propria salute, maravigliavasi, e massime de’ vecchi; per opposto, dei giovani soleva dire: Hanno diritto alla vita, perchè ancora stanno nelle speranze e nei sogni. Ma egli pure giovane non stava più nelle speranze e ne’ sogni; e come uno accommiatato dal mondo, senza dispetto, rivolta da esso la faccia, s’affrettava per la sua via.

E a non molto andare giunse al termine, imperciocchè la malattia che aspettava gli venne. I parenti, immaginando che in Napoli si risanasse, lo confortarono a ritornarvi; ma un presentimento sicuro accompagnava l’animo di quel giovane. Invero quivi, nella vece di migliorare, viene in peggioramento notabile. Rivede i luoghi dov’egli avea studiato e sperato un tempo, contempla un’altra volta le rosse nuvole che passano sul vesuvio, i colli aprichi, gli orti, i vigneti, il cielo sereno di Mergellina; ma il cuore era quasi morto; monta di nuovo in barca, e quando stava per entrare in mare, guarda la bellissima città un’altra volta, ma senza diventare lieto nè mesto.

I suoi, non sapendo niente di cosiffatto infortunio, vivevano di liete speranze. Una sera rivedono all’inaspettata il figliuolo, ma bianco di volto, mutato, non come se lo immaginavano. La madre a vedere sì miserabile scempio stava per mettere strida, ma la carità dell’infermo le rattenne l’abbondante affanno nel petto: le sorelle, chi in una parte, chi in altra, nascondevano il pianto. L’infelice giovine dolorò per qualche poco di tempo, ma senza mai lamentarsi; ed in ultimo volle tramutare stanza nella vicina riviera del fiume: a mio credere, sentendosi venire al termine, non voleva morire davanti gli occhi dei suoi, e rattristare infinitamente quelli che l’amavano e vivevano nella sua vita. Quivi dimorò pochi giorni, insinattanto che gli aliti ed il palpitare del petto, venendo meno il poco calore della vita, si quetarono. Quivi la morte gli si rappresentò più paurosa che non immaginava, e che per fermo avrebbe sconfortato chiunque; perchè, coteste riviere per quanto sono dilettabili e popolate nella stagione di primavera, per altrettanto sono solitarie e malinconiose l’inverno. Il povero giovine la sera non sentiva anima vivente che passasse di là, non suono di carro, non voce di contadino che lo allegrasse, soltanto il vento che fischiava dentro i canneti, lo scorrere della poca acqua del fiume, e qualche uccello notturno, i quali, dicono, quando alcuno è morente si pongono sopra una casa o un albero davanti, protendendo ululati. E quando poi lo prese il delirio della febbre, vedeva per le mura della stanza passeggiar larve. Pure intrepidamente sostenne l’appressare del fine. La notte ultima stavagli da una parte la madre, dall’altra un Crocifisso che teneva e guardava, quando, dopo avere alitato pochi momenti, spirò. Le sorelle quando rividero il morto corpo, sciolsero le loro chiome e piansero, ma inutilmente. Di questo sfortunato giovine ora non rimane altro a casa, che pochi libri e le vesti.

Oh! quando mi ricordo di tutti gli amici che io ebbi e che non sono più ora, uno sgomento mi prende, mi fugge la letizia dal volto, non ho animo di pensare più a generosi proponimenti, e mi raccomando al Signore, e sto come chi aspetta di momento in momento un messo, che gli dica: Via, parti ancor tu.



FINE.





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