< Alcune prose giovanili
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Elogio di Perfetto Venuti
Elogio di Vincenzino Romano Elogio di Tommaso Brunini

ELOGIO

DI

PERFETTO VENUTI.



Perfetto Venuti fu da considerare per la vita patriarcale menata, e per avere anteposto la tranquillità del villaggio e la pace dei focolari alle conturbazioni e alle vanità del mondo. Passò la maggior parte della vita in Cortale, bellissimo paesetto delle Calabrie. In proposito della sua indole, dell’intelligenza, dei costumi ed in generale di tutti quanti gli atti della sua vita può dirsi che componevano un’armonia; la quale nasceva e risonava dentro l’anima medesima, più soave di quella che può esser formata di fuori mediante le corde della cetra o di qualunque altro istrumento.

Il suo ingegno era fatto a meravigliosa eccellenza, e inchinato ad universaleggiare; conciossiachè avea coltivato la scienza dello spazio e degli astri e di tutta quanta la natura, e ancora quella del corpo umano, ch’è la parte della natura più considerabile. E, contemplando le naturali bellezze, venne in desiderio di crearne altre simili mediante le arti; e nel dipingere, e nello scolpire statue, e nel sonare fu esperto. La qual cosa non deve maravigliare chi sa in cotesti luoghi quanto sono sovrabbondanti gl’ingegni, e quanta naturale disposizione è per le arti; e principalmente non deve maravigliare chi considera che di tutte le parti mondane si compone una unità perfetta, come dal guizzo e dal tremolio di più corde e dal fiato di più istromenti si forma una concordanza unica, e che Dio crea certe volte alcuni ingegni chiamati straordinarii, nei quali con minore confusione si sente la risonanza di questa musica universale.

Giovane soggiornò in Napoli, e con lo studio, dimorando quivi o in qualche altra parte, poteva procurare celebrità stabile e rendersi reputato in tutta l’Italia: massimamente perchè allora vi accampavano i Francesi e, mentre per ogni banda erano tumulti e suoni di arme, gl’ingegni stimabili erano cercati e rimunerati a bell’arte. Nientedimeno egli, sdegnando i rumori degli uomini, si ricondusse nel suo luogo nativo; e fece bene, secondo il mio sentimento, imperciocchè altrove avrebbe procurato più fama, ma minore felicità e pace.

Menò tutta la sua vita insegnando e beneficando gli abitatori del villaggio. All’alba facea scuola ai giovinetti, fra i quali parecchi figliuoli di contadini: e, quando insegnava, molti artigiani tralasciavano il lavoro e andavano ad ascoltarlo, tanto piacere prendevano dal suo parlare. Faceva la scuola in una maniera piacevole: e quando la stagione era calda con tutta la schieretta de’ fanciulli se ne andava ad una amena campagna, e allato di una fontana si riposava sopra l’erba e insegnava, dove più facevano ombra fresca i rami degli alberi. Dipoi per ammaestrare quei giovinetti all’armonia della vita, li esercitava nelle arti belle, nella musica, nella scoltura, e nel canto.

Passava una buona parte del giorno intrattenendosi nelle botteghe degli artigiani (cose che mi rammemorano i beati tempi di Socrate e della Grecia); e conversando con loro non ostentava vano sapere, ma solamente ragionava di cose riguardanti il mistero di ciascheduno di essi; e per maniera di esempio ad un legnajuolo insegnò il disegno, ad un mugnajo un modo più spedito di macinare, la maniera di gettar le campane ad un fabbro.

La sera poi si sedeva davanti la casa sotto un pergolato, e molti zappatori e artigiani dopo terminato il lavoro gli si ponevano attorno. Ed egli, massimamente le buone sere di estate, ragionava del modo di fare la seminagione, la potagione e gli innesti e il ricolto; e altresì mostrava le cose magnifiche da Dio create nel mondo, e le stelle, chiamandole per il loro nome. Ed era notabile come quei villani stavano attenti, e, verbigrazia, quando gli sentivano dire che la terra si volta continuamente, si guardavano, maravigliandosi forte come non cadere le loro case e le ficaje dei loro orti non capovolgersi. E una cometa essendo apparsa una notte, tutte le donne, i contadini, i fanciulli temendo dovessero ardere le loro case andarono a picchiare al suo uscio; ed egli, facendosi alla finestra, confortolli benignamente e li rimandò in pace.

Era vecchio in età d’anni sessanta, fronte spaziosa, pochi capelli e bianchissimi, venerando all’aspetto; i cattivi avevano timore di lui, ed i fanciulli lo reputavano il padre del villaggio.

Il termine assegnato inevitabilmente a tutte le cose umane venne ancora per lui. Sentendosi un novità dentro ed un cotale accidente d’infermità, lasciandosi prendere per mano da un giovinetto, uscì fuori. Era la primavere, e andava riguardando la campagna rinverdeggiante, e le vie, e le botteghe del suo luogo, quasi avanti di partire del mondo volesse accomiatarsene. Dipoi essendosi posto a giacere, e chiamati tutti i nipoti che aveva nutricato ed amato come propri figliuoli, li ammonì a vivere in concordia e a portarsi con benignità verso gli agricoltori ed i poveri: e tanto affettuosamente parlava che tutti provocò a piangere, avvegnachè si credevano che non dovesse ancora morire. Intanto una lampada, che, allorquando moriva taluno di quella casa, dicono lo prenunziasse, quel giorno movevasi come dolorando, fumigava, scoccava un chiarore incerto e tremante. Ed un nuovo caso intervenne: la sorelle, forse perchè contristata nell’immaginazione, andata a letto, non aveva velato ancora gli occhi e le parve vedere una cotale ombra che la svegliasse e pianamente dicesse: Tu dormi, e tuo fratello è per passare. Immantinente si leva e lo domanda; quello risponde che aveva avuto un sogno: che gli pareva essere in una campagna, e avere veduto di lontano certe cavalle e, sopra, persone bianche; appresso le riconobbe ch’erano il padre, i fratelli e altri amici morti, i quali gli dissero: Via, oramai vientene con noi. Nella tarda notte si aggrava, e, presentendo il suo termine, con mirabile tranquillità domanda i cristiani misteri, e vuole essere unto dell’olio del Signore, e domanda l’Ostia ch’è la compagna del viatore per i campi dell’eternità. Intanto la sua casa si era affollata di contadini e di amici: ed egli vedendo ad un angolo un vecchio zappatore che piangeva, lo chiama per nome, e gli dice: Addio. Dipoi ponendo la mano sopra il capo di un giovanetto nipote, e coll’altra stringendo la mano della sorella, ripeteva alcuni luoghi della scrittura: I dolori della morte mi circondano, le pene dell’inferno mi fecero paura, ma io, o Signore, in te ho posto la mia fidanza: e queste parole ripetendo, spirò l’anima, e la faccia gli rimase allegra e serena.

All’alba il suo corpo venne portato per le vie del villaggio: frotte di donne, di zappatori, di artigiani, di fanciulli lo seguitavano dimostrando grande dolore. Dalla bara egli, vecchio sessagenario, bianco, con tranquillità pareva guardare e risalutare per un’altra volta le campagne, i monti, le vie, le botteghe del suo caro luogo. Quel medesimo giorno molte donne albanesi, vestite a neri panni, e con i veli sul volto, entrano in chiesa, spandono i fluttuanti capelli, girano una tarda danza intorno al disanimato corpo, e sciolgono quel tenero ed armonioso lamento che tanto è caro fra i monti calabresi.

Così visse quest’uomo, così morì in pace, così lo piansero e l’onorarono: premio d’innocente vita e d’innocenti costumi.








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