< Alcuni opuscoli filosofici
Questo testo è stato riletto e controllato.
Seconda lettera a Galilei
Prima lettera a Galilei


Molt’Illustre, ed Eccellentiss. Sig.


e Padron Colendissimo.


V
engo calunniato di aver trattato con poco termine quel Filosofo, del quale scrissi a V. S. Molt’Illust. ed Eccellentiss. a’ giorni passati, ed in particolare quando l’introduco a rendere la ragione della conclusione vera, cioè, che la parte nera del mattone si sentiva più calda, che la parte bianca, perche nella parte nera si ritrovava più caldo, che nella bianca. Qui basterebbe per difesa mia, che io dicessi che il fatto mi fù rappresentato in quel modo, e che tale era stata la sua risposta: con tutto ciò spero che V. S. ed il Filosofo stesso, e qualsivoglia altro, che vedrà quanto hò scritto in questa materia, conoscerà chiaramente, che non solo non ho detto cosa di vilipendio, e disprezzo suo, ma l’ho lodato nel miglior modo che hò saputo, e potuto: anzi dico risolutamente, che non credo che si potesse cominciare a filosofare intorno a quel quesito con più sodezza, e chiarezza. Ed io confesso, che dovendo ora rappresentare a V. S. quanto mi è sovvenuto intorno a questa materia, non posso fare meglio, che camminare per le pedate medesime di quel Filosofo. Or veda V. S. quanto sono lontano dal biasimarlo, e vilipenderlo, mentre lo reputo degno d’essere imitato. È vero, che io per certo mio costume non mi quieto in quella brevità rigorosa filosofica, la quale è solita risolvere i quesiti, ancorche difficilissimi con due, o tre parole, ma in sostanza intendo di caminare, e battere la medesima strada a capello additatami dà quel Filosofo, narrando a V. S. quello che m’occorse pochi giorni sono con un figliuolino del Sig. Marchese Martinenghi di tenera età sì, ma di spirito, ed ingegno lucidissimo, e vivacissimo. Essendo venuto questo fanciulletto alle mie stanze in S. Calisto per goder di una festa, e processione, che si faceva avanti alla mia abitazione, e vedendo egli il mattone tinto mezzo nero, e mezzo bianco, il quale s’abbattè ad essere sopra quella stessa finestra di dove si doveva vedere lo spettacolo della processione, con gran curiosità interrogò il suo Aio, e Maestro, che si trovava presente, che cosa era quella, e che cosa significava. Il suo Maestro si rivoltò a me, ed io narrai al Marchese il fatto, cioè, che se avessimo lasciato al Sole quel mattone per qualche spazio di tempo si sarebbe riscaldata notabilmente più una parte, che l’altra, e soggiunsi. Indovinate, Sig. Marchese, quale si riscalda più la nera, overo la bianca? Egli dopo essere stato un poco sopra di se accennò colla mano alla parte nera, e disse: Questa. Io restai maravigliato perche m’era abbattuto a fare simile interrogazione a molti, e molti, e per la maggior parte persone dotte, e di buon giudizio, e in ogni modo quasi tutte erano state di parere, che la parte bianca si sarebbe riscaldata più, che la nera. In tanto quel fanciullo ora voltando gli occhi verso me, ed ora verso il suo Maestro, mostrava curiosità grande di sapere la ragione, della qual curiosità io presi grandissimo gusto; e così posto al Sole lo lasciammo stare per poco più d’un quarto d’ora, e poi glielo feci toccare colle palme delle mani1, e sentendo egli, che la cosa tornava bene, e conforme al suo pensiero, se ne compiacque assai: mà non per questo si quietava, anzi interrogando il suo Maestro, ne ricercò con istanza la ragione: e quello rivolto a me disse, che dovessi dargli qualche sodisfazione. Io ridendo risposi. Eh il Signor Marchese la sà benissimo, e che sia il vero, ce la dirà esquisitamente, se l’andaremo interrogando: e cominciai. Ditemi un poco, Signor Marchese, dove sentite voi più caldo stando al lume del Sole, overo stando all’ombra? Ed egli ridendo disse. Stando al Sole. Ed io; pare a me che il nero si rassomigli più all’ombra, che alla luce: che ne dite? rispose, Ed a me ancora. Adunque, soggiunsi io, doverebbe il bianco esser più caldo che il nero contro quello che il fatto dimostra, e dichiara l’esperienza. Quì restò tutto sospeso, e non rispose altro; ma quasi chiedendo aiuto, voltava gli occhi verso il suo Maestro. Ed io seguitai interrogandolo. Da qual parte viene più lume a gli occhi di V. S. dalla parte nera, overo dalla parte bianca? Ed egli: dalla bianca. Ed io desidero sapere un’altra cosa, però mi risponda: Se noi sparassimo venticinque colpi di pistola con palle infocate nella parte nera, e venticinque nella parte bianca, senza esporre il mattone al lume del Sole, e di quelle sparate nella nera ritornassero indietro venti, ma di quelle che fossero sparate nella bianca ne ritornassero indietro solamente cinque, in qual parte sarebbero restate piu palle infuocate, nella nera, overo nella bianca? pensateci bene. Ed egli senza molto pensarci, francamente rispose: nella bianca. Mi piacque fuor di modo quella prontezza, e vivacità di spirito, e soggiunsi, Ma la verità è, Sig. Marchese, che V. S. m’hà detto poco fà, che spargendosi egualmente il lume del Sole sopra il nero, e sopra il bianco, ritorna indietro a gli occhi nostri più lume dal bianco, che dal nero: non è così? Padre sì, rispose: e di più V. S. hà confessato che il lume del Sole, è caldo, non è egli vero? È verissimo disse. Adunque, soggiunsi io, non è da far maraviglia nessuna, che essendo vero, che nella parte nera sono restate molto maggiori moltitudini di palline calde, che nella parte bianca, quando noi ci applichiamo le mani si senta maggior caldo nella parte nera, che nella parte bianca; ed ecco che il Sig. Marchese hà saputo rispondere esquisitamente. Allora quel fanciullo mostrò un’allegrezza grande di aver saputo rispondere così bene. Ed io sospirai dal profondo del cuore, considerando che da una casa tanto illustre, anzi illustrissima come è Casa Martinenga, che si può dire Madre d’Eroi continuavano a uscire spiriti, ed ingegni egregi, e lucidissimi, ed in ogni modo con esser poco applicati alle virtù, a’ studij nobili, ed alle operazioni onorate ne seguivano tanti disordini; e deplorai la miseria della patria mia, vedendo nelle stalle de’ Grandi educare i Pulledri, e Cavalli con grossissime spese, ed accuratissime diligenze, ed all’incontro nelle case nobilissime con grandissima trascuraggine allevarsi i figliuoli. Dal che poi ne segue, che si vedono continuamente scemare quelle ricche miniere di ferro nelle viscere delle nostre montagne, per adoprarlo a spargere il sangue de’ proprij Cittadini. E a me tocca di piangere amaramente le morti violente di tre miei fratelli carnali. Questo non dico già nell’educazione del sopradetto fanciullo, poichè è stato dato in educazione, e governo ad un Sacerdote onoratissimo, e conosciuto da me di lunga mano per persona di bontà insigne; e spero in Dio, che si anderà continuando a mantenergli appresso uomini di garbo, e valore, acciò possa riuscire pari a’ suoi Antenati, ed Avi, lumi splendentissimi non solo di Brescia, mà di tutta l’Italia. Da tutto questo progresso desidero che V. S. faccia la conseguenza, che io non hò scritto nell’altra mia con derisione la soluzione di quel Filosofo, anzi vengo a sottoscrivermi alla sua sentenza, e parere, e così pretendo di averlo honorato, come farò sempre. Nè pretendo per questo di guadagnarmi appresso di lui grazia nessuna, perche sò che tale è l’obbligo mio, al quale se non sodisfacessi, sarei degno di biasimo, mà sodisfacendo non ne merito lode nessuna, come a punto accaderebbe, se io per disgrazia mi ritrovassi privo del naso; sarei ben mostrato a dito, e biasimato da tutti, mà per avere il naso non hò mai trovato pur uno, che m’habbia lodato di tal prerogativa: e tanto basti di aver detto in mia difesa. Ma ritornando al proposito nostro considero. Che quando ci si rappresenta all’intelletto nostro qualche insolita conclusione nella natura, subito si eccita in noi la maraviglia, ed indi nasce la curiosità di saperne la ragione, nè mai la mente nostra si quieta, sino che co ’l discorso che ella và facendo per altre, & altre conclusioni antecedenti, e note, e che come note non hanno del maraviglioso si conduce finalmente a cascare con necessarie conseguenze in quella, che prima ci era stata rappresentata con maraviglia, ed allora non solo cessa affatto la maraviglia nostra, che la cosa stia in quel modo, ma ci sarebbe molto più maraviglioso, se la camminasse d’altra maniera diversa da quella, che ci hà scoperto il nostro discorso. Di questo, che io dico abbiamo tanti esempli chiarissimi, quante sono le peregrine conclusioni dimostrate in Geometria particolarmente; e ne addurrò uno, ò due non già per V. S. che sò che intende benissimo questo mio pensiero, ma per altri, in mano de’ quali potesse pervenire questa mia scrittura. Gran maraviglia sente un principiante ne gli studi di Geometria sentendo pronunziare la conclusione, che i triangoli posti sopra la medesima base, e frà le stesse paralelle sono sempre frà loro eguali: overo quando sente, che nel triangolo rettangolo il quadrato del lato opposto all’angolo retto è eguale a i quadrati de i lati, che contengono l’angolo retto. Ma quando poi mediante il progresso dimostrativo, si conclude ciò esser verissimo, non solo cessa affatto la maraviglia nostra, mà ci sarebbe molto più maraviglioso, se la verità fosse in contrario, cioè che i triangoli posti sopra la stessa base, e fra le medesime paralelle fossero disuguali; e così sarebbe a noi dopo la dimostrazione maraviglia grandissima, se il quadrato del lato opposto all’angolo retto nel triangolo rettangolo, fosse maggiore, o minore de’ quadrati de i lati, che contengono l’angolo retto, & in tal modo allora pare, che l’intelletto nostro si quieti, quando giugne per dir così ad evacuare affatto quella maraviglia, che prima ci aveva ingombrata la fantasia,e tutto questo ci succede felicemente nel progresso del nostro discorso, cominciando da una cosa, che non ci è maravigliosa, anzi l’abbiamo per notissima, e chiarissima, trapassiamo ad un’altra, che parimente, essendo vera, e conosciuta per vera, non ha del maraviglioso, e da questa ad un’altra, ed un’altra, pure ammesse senza maraviglia, e senza difficoltà, e con queste, e con altre bisognando, finalmente caschiamo nella nostra conclusione, la quale conosciuta, cessa affatto in noi la maraviglia. Ora applicato tutto questo al proposito nostro; dico che ci doveremmo contentare di quanto si è detto di sopra per bocca di quel fanciullo. Imperocche ordinando tutto il discorso prima col metodo risolutivo, e poi col compositivo, diremo che tinta, che sarà la metà d’una faccia di un mattone di nero, e l’altra metà di bianco, & esposta al lume del Sole per un’ora in circa, la metà tinta di nero si sentirà più calda, che quella tinta di bianco, perche nella parte nera saranno piu calidi, che nella bianca. Mà perche sono più calidi nella parte nera, che nella bianca? Perche il lume del Sole è caldo, e più lume di Sole resta nella parte nera, che nella bianca. Perche resta più lume nella parte nera, che nella bianca? Perchè è manifesto, e noto, che dal bianco si riflette più lume, che dal nero, e così avendo risoluta la nostra conclusione ignota, in questa manifesta, ordineremo il metodo compositivo, cominciando da questo principio noto in simil forma: Essendo dunque verissimo, e chiarissimo, che il lume del Sole si sparge egualmente sopra la faccia tinta del mattone; tanto nella parte nera,che nella parte bianca, & essendo vero, che il lume del Sole è caldo, e di più essendoche maggior copia di lume, e splendore si reflette dal bianco, che dal nero; adunque necessariamente resta, per dire così, sepolta maggior quantità di lume nella parte nera, che nella bianca; e perche i lumi sono calidi, adunque nella parte nera sono restati piu calidi, che nella bianca, e però si sente piu calda la parte nera, che la bianca; E però tinta che sarà la metà d’una faccia d’un mattone di nero, e l’altra metà di bianco, & esposto al Sole per un’ora in circa si sentirà più calda la parte nera, che la bianca, che era quello, che si doveva dimostrare, e che prima ci moveva la maraviglia; la quale resta totalmente evacuata; e però non abbiamo occasione di cercare d’avantaggio intorno a questo particolare, essendo stata dedotta la conclusione da principij veri, e noti. Ma se altri desiderasse tuttavia di sapere ancora la ragione di questi altri quesiti, cioè perche il lume sia caldo, e perche il bianco ribatta, e refletta più il lume, che il nero; Qui prima direi che queste due proposizioni sono state passate comunemente senza difficultà per vere, ne mai da nessuno è stata ricercata la cagione di tali effetti, anzi tutti concordemente le hanno ricevute per vere, e note. Imperocche interrogato chi si sia, se il lume del Sole riscalda, subito, e senza difficultà risponderà affirmativamente; parimente interrogato da qual parte viene piu lume a gli occhi nostri dal nero, o vero dal bianco, risponderà risolutamente, che viene piu lume dal bianco, che dal nero. E per tanto possiamo dire, che la dimostrazione nostra è stata dedotta da conclusioni vere, e note, e così in quella ci dobbiamo quietare. E quando pure curiosamente fusse ricercata ancora piu addentro la ragione di questo, cioè perche il bianco abbia questa proprietà di reflettere piu lume, che il nero, e perche il lume habbia questa condizione di riscaldare, risponderei d’aver grandissimo dubbio di entrare in una impresa difficilissima, e che forse ci potrebbe riuscire impossibile uscirne felicemente. E voglio dichiarare, in che cosa consista principalmente la mia difficultà con esempli geometrici. Io reputo assolutamente impossibile dimostrare una proprietà, o passione d’un suggetto del quale prima non sia stabilita, e supposta la sua definizione. E chi vorrà, o potrà mai dimostrare una proprietà, o passione dell’Isoscele, dell’Ortogonio, Ambligonio, o dell’Oxigonio, se prima non averà fermato in che consista l’essere Isoscele, Ortogonio, &c. E così dico, che volendo al presente dimostrare la proprietà del caldo, e del lume, del nero, e del bianco, sarà necessario stabilire prima le loro definizioni, e sapere in che cosa consista la natura del caldo, del lume, del nero, e del bianco, cose tutte difficilissime da investigare, e reputate alla mia debolezza assolutamente inscrutabili, e qui liberamente confesso essere di queste cose ignorantissimo, e piu volentieri pagherei il Maestro, che essere riconosciuto dal discepolo. Di piu osservo, che quando mi fusse proposto un problema geometrico, il quale fusse stato da qualche perito Geometra risoluto, come per esemplo, se uno mi proponesse essere stato fatto un quadrato eguale a una parabola, e fussi interrogato, e ricercato del modo, che quello avesse tenuto per risolvere il problema, io non potrei rispondere altro, che Non lo sò. Questo sò bene, che se avesse osservato quello, che c’insegna Archimede in qualsivoglia de’ duo modi, che egli adopera, allora si sarebbe ottenuto l’intento, o veramente se avesse tenuta la strada inventata dal Signor Galileo Galilei, averebbe parimente risoluto il problema ingegnosamente, o vero, se havesse imitato il nostro mirabile Frà Bonaventura Cavalieri, averebbe ancora ridotto a perfezione quella operazione; e tutto potrei stabilire geometricamente, e dimostrativamente. Ma per essere i modi di risolvere quello, e gli altri quesiti moltissimi, e quasi infiniti, io verrei a restare perplesso e dubbioso, quale di quelli fusse stato eletto per la risoluzione; e così avendo noi il nostro quesito per le mani, come il lume riscalda, e come nel nero sia sepoltura, e prigione, per così dire, di maggior moltitudine di calidi, e di lumi, che nel bianco, mi pare che non possiamo rispondere altro (se vogliamo risponder bene) che un sincerissimo: Nescio; Forse potremo arrivare a qualche cognizione con supporre prima qualche notizia delle nature, e condizioni necessarie delle nominate cose, caldo, lume, nero, e bianco; e poi andarci avanzando a poco a poco al ricercato quesito; Ma prima di far questo, stimo bene, che noi ci ritiriamo all’osservazione, e contemplazione, che io dissi aver fatto in altro discorso. Dissi adunque, che avendo io esposto la faccia tinta del mattone al fuoco nostro ordinario di legna, dopo averlo lasciato stare poco piu d’un quarto d’ora, ritrovai che il caldo si era impresso quasi egualmente nella parte nera, come nella bianca, cioe con pochissimo vantaggio di calore nella parte nera, talmente che la differenza era quasi insensibile. E di piu dissi di avere osservato, che esponendo al lume del Sole il rovescio della faccia tinta del mattone, dopo avere il caldo penetrata la crassizie del mattone, si era riscaldata tanto la parte nera del mattone quanto la bianca. E finalmente ho osservato, che riscaldando al calore del fuoco senza il lume la medesima faccia tinta, si veniva a riscaldare egualmente la parte nera, che la bianca; I quali effetti mi paiono degni d’essere considerati molto bene, vedendosi una segnalatissima differenza tra il calore del fuoco senza lume, ed il calore del lume senza il fuoco, & il calore che procede parte dal fuoco, e parte dal lume. Imperocche noi vediamo, che il calore, che procede dal lume solo riscalda notabilmente piu il nero, che il bianco cæteris paribus, e per lo contrario, il calore del fuoco solo senza il lume riscalda egualmente il bianco, ed il nero. Ma il calore del fuoco congiunto col lume del fuoco riscalda con qualche poco di vantaggio piu il nero, che il bianco. Dalla diligente osservazione di queste cose, e per molti altri riscontri nella natura, abbiamo una gran differenza nell’operare di questi calidi, a’ quali per dar qualche nome, chiamaremo calidi luminosi semplicemente quelli, che vengono prodotti dal lume solamente, a differenza di quelli, i quali vengono prodotti dal fuoco solamente senza il lume, i quali chiamaremo calidi fuocosi; e calidi misti chiamaremo quelli, che dependono parte dal lume, e parte dal fuoco. In oltre metto in considerazione un’altra grandissima differenza tra la luce, ed il calore, la quale è che la velocità della luce è d’infinito intervallo superiore alla velocità del fuoco, come che quella arriva al sommo grado di velocità, e forse si fà in instanti, e questa si fà in tempo; quella risiede nell’ultima divisione, e partizione, e questa risiede assolutamente ne’ corpi di quantità ancora divisibili in minor mole. La luce, se ci ridurremo a contemplare la sua finezza, ritroveremo, che non è possibile, che possa mai con un suo minimo urtare in corpi, ne in particelle corporee, che sieno minori di lei; ma bene il calore del fuoco può incontrare minuzie di corpi molto minori delle parti, che fanno il calore del fuoco. E per tanto da queste, e da altre condizioni, che si osserveranno in queste cose, inclino grandemente a pensare, che la luce sottilissima, velocissima, e penetrantissima operi, si sparga, e si diffonda per ispazi, e tratti immensi con esquisitissimi modi; e di piu direi, che non possa mai intravvenire, che una delle minuzie della luce urti in due, tre, o piu degli altri corpuscoli, ancorche minutissimi della natura; e parimente penso, che non sarà mai possibile ritrovare intervalli, per minimi che sieno, per i quali non entri la luce, come quella che è assai piu minuta di essi. Ora se noi supporremo per vere tutte queste cose (intorno alle quali veramente non nego, che siano grandissime, e forse inesplicabili difficoltà) mi pare che segua; Che data una di queste nostre superficie sensibili di questi nostri corpi sensibili, la quale fusse un aggregato, e composto di molte minutissime superficiette, e filamenti eretti per gran parte di loro alla volta della luce, sarebbe necessario prima, che la luce entrasse per quelli spazi, ancorche angustissimi, e ferendo ne’ piani, e bande di quelle superficiette, e filamenti eretti, e dovendo reflettere con le regole inviolabili della reflessione, cioe ad angoli eguali a quelli dell’incidenza, ne seguirebbe, che pochissimi, e forse nessuno potrebbe ritornare indietro verso quelle parti, dalle quali viene quella luce, & in tal modo la luce verrebbe a rimanere come sepolta, per cosi dire, in quella superficie sensibile, la quale poi ci si rappresenterebbe agli occhi nostri con pochissimo lume, e cosi verrebbe a renderci quell’apparenza, che noi chiamiamo negrezza. Di questo che io dico ne abbiamo un’esempio veramente assai rozzo, e grosso, il quale pero ci puo sollevare non poco all’apprensione delle sottigliezze cosi brevemente accennate; l’esempio è tale. Se sarà presa una quantità di seta tinta di nero, e di quella tessutane una pezza di raso, ò vero d’ermisino, & un’altra di velluto, non è dubbio che esposte al medesimo lume tanto il velluto, quanto l’ermisino ci apparirà assai più nero, ed oscuro il velluto, che l’ermisino; anzi se il raso, e l’ermisino medesimo sarà spessamente trinciato con tagli, come sogliono usare i sarti ne’ vestiti, e poi sfrangiati i medesimi tagli, e frappature, senza dubbio tali trinciature appariranno piu negre, ed assai piu oscure, che il campo rimanente del drappo, e questo non per altro, se non perche nel velluto, e nelle trinciature abbiamo quei filamenti della seta eretti alla volta del lume, il quale entrando tra filo, e filo, e percotendo nelle facce, e bande dei medesimi fili, e dovendo reflettere ad angoli eguali a quelli dell’incidenze, viene necessitato a reflettere verso le parti interne del drappo, e cosi poco ne risulta, e ribatte alla volta degli occhi nostri, e ci apparisce oscuro, e nero. Questo, che io ho detto, sia detto cosi alla grossa per apprendere le piu alte, e sottili maniere di lavorare della natura. E forse non sarebbe inutile a questa contemplazione, se noi per approssimarci piu al vero intendessimo, che quanto alla negrezza di questo inchiostro, col quale sono scritti questi caratteri, fusse fatta di filamenti tanto minimi in proporzione di quelli, de quali è composta la superficie del velluto, quanto i filamenti del velluto sono minori delle grossissime colonne del Panteone, e se tanto non bastasse, si potrebbero intendere minori in centuplicata, e millecuplicata proporzione, e piu, e meno se piu bisognasse. Io dubito che darò nel ridicolo con queste tanto sottili sottigliezze, ma forse non sarò ridicolo a quelli, che hanno fatto il gusto a molto maggiori minuzie, e sottigliezze, come sono quelle, che adopera la Natura a fare una linea incommensurabile di lunghezza ad un’altra; e piu quelle minuzie, quando la medesima Natura ce la rende incommensurabile ancora in potenza, e finalmente quell’altre, & altre incomprensibilmente minori di queste, le quali sono ben si maggiori del niente, ma restono minori di qualsivoglia cosa immaginabile da noi. Ma tornando al proposito nostro voglio per maggior chiarezza di questo mio pensiero esplicarmi ancora con un poco di disegno. Intendansi due piani ABCD, ne’ quali caschi dalle parti B, e D un raggio solo EF per minor confusione (che poi da questo solo s’intenderà il medesimo delle infinite moltitudini degli altri) e caschi nel piano AB in F, il quale dovendo reflettere con angolo eguale a quello dell’incidenza, rifletterà v. g. in G nell’altro piano CD, & indi risalterà in H, poi in I, e di li in L, &c. di modo che potremo dire, che non ritrova strada d’uscire, anzi li converrà restare fra i detti due piani, come sepolto. Ora se noi a questo pensiero pronunziato da me forse troppo temerariamente, e rozzamente, aggiugneremo quello, che il Signor Galileo in esquisitissima, sottilissima, ed altissima maniera discorse della Natura del caldo nel suo Saggiatore, mi pare che averemo assai probabil ragione di dire, che i lumi, come velocissimi in altissimo grado possono ancora in assai veloci movimenti, e spezzamenti concitare quelle particelle, che compongono i suddetti piani, e per conseguenza produrre il calore, il qual calore assolutamente non intendo (come ben dice il Signor Galileo) che si faccia con altro immediatamente, che col transito de’ corpi, sicche non intendo, che il lume per se stesso produca il calore in altro modo. Dico dunque, che con qualche congruenza, e probabilità possiamo assegnare la definizione di quella qualità da noi comunemente chiamata negrezza, e dire, che non sia altro, che una superficie a guisa di un artificiosissimo sepolcro di lume, talmente disposta, che i lumi, che la feriscono abbiano sempre i loro tratti, corsi, e movimenti verso le parti interne dopo essa superficie, ed ivi restino, nel modo dichiarato, sepolti. E per lo contrario diremo il bianco essere una superficie talmente ordinata, che i lumi, che la feriscono abbiano da risaltare la maggior parte, se non tutti, verso le parti esterne, che sarebbe, cred’io, quando fusse granellosa, o in altro modo disposta, & accomodata, che avesse da ripercuotere, e ribattere, come si è detto, i lumi verso le parti esterne. E che questo sia probabilmente detto, pare che se n’abbia assai buon riscontro dal veder noi, che macinate, che sieno in polvere finissima molte pietre colorate, subito si vestono di bianco, & i coralli rossi macinati subito si fanno bianchi perdendo quasi affatto il loro primiero colore. Ora, venendo piu d’appresso alla soluzione del nostro quesito, direi, stanti le sudette cose, che la parte nera del mattone si riscalda piu della bianca al lume del Sole, imperocche agitandosi, e ribattendosi i lumi dentro al nero muovono in gran copia di quei corpuscoli che compongono quella parte, e cosi eccitano il calore, cosa, che non possono facilmente fare i medesimi lumi nel bianco, dal quale vengono ripercossi verso le parti esterne, per le ragioni già spiegate. E qui notisi che con lasciare per lungo spazio di tempo ancora il bianco al lume del Sole, finalmente ancora esso bianco concepisce il calore, dovendosi muovere finalmente ancora le sue parti. Di piu direi, per risolvere il dubbio per qual cagione esposto al fuoco il bianco, & il nero, allora il riscaldamento si fà quasi eguale e nel nero, e nel bianco, con quel poco, e quasi insensibile vantaggio di calore nel nero, della qual cosa penso, che la ragione sia, imperocche quanto alla parte del calore, che proviene dal fuoco, quel caldo fuocoso viene ad essere eguale nel nero, e nel bianco, non essendo tanto sottile il caldo fuocoso, quanto il luminoso, & in conseguenza non potendo fare quegli scherzi, e giuochi cosi finiti, e regolati, come fà il caldo luminoso; ma quanto al caldo, che dipende dal lume, ci resta il vantaggio nel nero, nel quale quel poco di lume, che si sparge dal fuoco opera quello di piu nel nero, che nel bianco, e cosi ne nasce quel caldo misto, il quale poi è un poco maggiore nella parte nera, che nella bianca. Terzo possiamo rendere la ragione, perche quando si espone il rovescio della faccia tinta del mattone al lume del Sole, in tal caso la parte nera, e la bianca si riscaldino egualmente, il quale effetto diremo, che segue, perche quella parte esposta al Sole essendo tutta d’una medesima tinta conviene, che in quella sua prima pelle tocca da’ raggi solari si riscaldi egualmente, e quella riscaldata riscalda la seguente, non gia piu col caldo luminoso, essendo essa totalmente immersa nelle tenebre tra la prima pelle del mattone, & il rimanente del medesimo; ma viene a riscaldarla con quel calore, che essa ha di gia concepito, e cosi questa seconda riscaldata riscalda la terza, e questa la seguente, e cosi di mano in mano, fintanto che, essendo riscaldata tutta la crassizie del mattone, si arriva a quella ultima superficie tinta mezza nera, e mezza bianca la quale necessariamente poi si dee riscaldare egualmente per essere riscaldata senza il caldo luminoso.

E se noi ricercheremo quello che seguisse, quando essendo prima stato riscaldato un pavimento (o sia stato riscaldato dal lume del Sole, o del fuoco) gli applicassimo il mattone in modo, che la faccia tinta combaciasse col pavimento, direi che dalle sopradette cose si deduce che il riscaldamento si farebbe eguale nella parte nera, e nella bianca. Non debbo lasciar di notare (e sarà in luogo del quinto problema) che non solamente il nero, & il bianco mostrano questa diversità nel riscaldarsi al lume, del Sole, ma segue il medesimo, se bene non con tanta differenza, in tutti gli altri colori, e tutto pure dipende dalla medesima ragione, dovendosi riscaldare meno quella parte, che sarà colorata di colore, che rifletterà maggior copia di lume, e più quella, che rifletterà minore vividezza di splendore. Facilissimamente dalle cose dette si rende la ragione di quello effetto, che si osserva negli specchi ustorij, il quale è, che molto difficilmente si accende il fuoco nella carta bianca, dove all’incontro la carta, che sia tinta di qualche colore s’infiamma facilmente, e più facilmente se sarà tinta di nero, il che segue, perche non è possibile infiammarsi, se prima non si riscalda, ma prima si riscalda il nero, e poi il bianco, quindi più facilmente s’infiamma il nero, che il bianco. Di più colle medesime ragioni non sarà difficile rendere la ragione d’altri quesiti, che occorrono in questa materia del caldo, come sarebbe; per che cagione sotto lo stesso clima si ritrova tal volta un paese, che sarà più caldo ordinariamente, che un altro, potendosi dire che ciò può nascere non solo dalle diversità delle materie vedendo noi, che diverse materie si riscaldano molto diversamente; ma ancora possiamo con le ragioni di sopra spiegate dire, che ciò depende dalla varietà delle tinte delle medesime materie, già che si vede, che di mano in mano, che i colori sono più oscuri riflettono meno il lume, e però maggior copia in loro ne resta, e però si eccita maggior calore in loro. Questa ancora si potrà stimare potente cagione, o almeno condizione di rendere abitabile, e temperata in molte sue parti la Zona torrida stimata dagli antichi nostri inabitabile, la quale si ritrova in fatti da moderni assai comodamente abitata. Primieramente non deve essere maraviglioso, che la medesima sorte d’erbe, e piante, e frutti nascano di diversi sapori, e virtù traportati, e nudriti in diverse parti della superficie terrena, la qual cosa si osserva molto evidentemente delle viti, de’ vini, e de’ frutti. Moltissime altre soluzioni di altri dubbi dipendono dalla medesima ragione, come sarebbe d’onde nasce la negrezza del carbone, e della fuliggine; del farsi prima nere tutte le cose combustibili, avanti che il fuoco in quelle si accenda, & altre molte, le quali si possono dedurre dalla medesima considerazione, la quale intendo d’aver proposta dubitativamente, e non affirmativamente, e risolutamente, prontissimo di mutarmi d’opinione a piu efficaci ragioni. Ora, per fine, e sigillo di tutta questa mia qualsisia considerazione, voglio raccontare un pensiero, che io feci a’ giorni passati mentre mi ritrovava involto in qualche travaglio per le cose mie, & interessi particolari, & anche publici della mia Religione, il qual pesiero mi fu di grandissimo sollevamento, e conforto. Per sollevarmi dunque da quelle noiose fatiche, esposi un giorno, come era solito di fare spesso, il mattone tinto al Sole, per prendermi ancora gusto di quella esperienza, & applicare in tanto la mente mia a quello strano effetto della Natura. E cosi di una cosa trapassando in un altra, considerai che avendo esposto al Sole quel mattone, a fine ch’ei me lo riscaldasse conforme al solito, subito la virtù solare senza dimora si era applicata a farmi il favore con tutta la sua forza mandando a ciaschedun punto del mattone i suoi raggi luminosi, e notai ch’il tutto operava, come se non avesse da fare nessuna altra cosa nel mondo, e credeva, & intendeva molto bene, che gli altri innumerabili immensi, e maravigliosi negozi del Sole, e della sua virtu non erano di nessuno impedimento all’illuminazione, e riscaldamento del mattone, a segno tale, che ne per essere occupato il Sole in riscaldare, & illuminare tanti altri corpi nell’universo, ne per vestire le campagne di erbe, e di piante, ne per coprire i monti di folti boschi, e selve, ne per far nascere tante sorte di animali ed in mare, ed in terra, ed in aria, non per questo veniva punto impedita quella veramente segnalata operazione, che il Sole faceva in grazia mia intorno a quel mattone; & andai tanto avanti in questa fantasia, che quasi precipitai non avvedendomi in volere scusare l’impietà di quegli antichi, che avevano adorata la grandezza della potenza, & il maestro modo di operare del Sole. Ma subito fermatomi saldamente, & accortomi del mio errore, e detestando cotale impietà, venni in ferma credenza, e deliberazione, che molto maggiore, e molto più stolta, & esecranda sceleraggine era stata quella di coloro, che si erano ridotti a tanta bassezza, viltà, ed ignoranza, che avevano adorato per Iddio un’altr’uomo semplice tanto debole, e tanto vile, che occupandosi ancora intorno a minime cose (quasi l’ho detto) veniva impedito dal farne non solo delle maggiori, ma ancora delle minori, e così conclusi che infinito, & immenso era l’obligo nostro d’adorare solamente l’Onnipotenza, la Sapienza, la Prudenza, la Giustizia, la Misericordia, e la Providenza di Dio, la quale egualmente si applica alle cose grandissime, ed alle picciolissime, ne mai intravviene, che una delle sue operazioni per minima, che ella sia, venga impedita dalle altre applicandosi a ciascheduna con tutta la sua efficienza, per condurla a quel grado di perfettione che è già ab eterno nel suo altissimo decreto, e questo opera in ciascheduna cosa, come se non avesse da fare altro; e mi venne in mente l’accuratissima providenza di Dio, applicata egualmente alle cose minime, ed alle massime, a segno tale, che si applica per sino a numerare i capelli del nostro capo. Omnes capilli capitis vestri numerati sunt, dice Iddio stesso. La quale numerazione, benchè sia intorno a una cosa minima, siamo forzati a confessare, che sia fatta tanto perfettamente, & tanto esattamente, come se Iddio non avesse da fare altro, e con la medesima esquisitezza, come fa quell’altra numerazione stupenda, e maravigliosa, quando numerat multitudinem stellarum, & omnibus eis nomina vocat; e così internandomi in questa contemplazione mi parve estrema pazzia la nostra, quando pensiamo, e ci affatichiamo affannosamente di condurre le nostre cose a migliori fini, e termini di quello che la Maestà Divina conduce con la sua somma sapienza, e providenza. Viviamo dunque felici, e consolati, e rendiamo di continuo sacrifizi di lode alla sua infinita misericordia, omnem sollicitudinem nostram proijcientes in eum, quia ipsi est cura de nobis, e fo riverenza a V.S. e bacio le mani al Padre Francesco di S. Gioseppe delle Scuole pie, e a tutti cotesti Signori cari.

Roma lí 15. d’Agosto 1638.


Di V.S. Molt’Illustre, ed Eccellentissima.




Devotiss. & Obligatiss. Serv. e Discepolo

D. Benedetto Castelli Abbate di Praglia.

  1. Il testo originale riporta "le palme delle palmi". Abbiamo modificato in "palme delle mani" anche sulla base del testo riportato nel Carteggio di Galileo (1637-1638), volume XVII delle Opere, Edizione Nazionale, alla lettera 3541. Confronta anche la lettera 3509 che riproduce, con lievi differenze, il testo precedente.[Nota di LiberLiber]

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.