< Alessandro Manzoni - studio biografico
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Capitolo IX Capitolo XI

X.


Carme autobiografico.


Quantunque già pubblicato a Lugano in fronte alle Vite degli illustri Italiani di Francesco Lomonaco, fino a pochi anni innanzi era pochissimo noto il Sonetto giovanile di Alessandro Manzoni, ove si muove lamento, perchè l’Italia trascuri i suoi migliori ingegni, fin che son vivi, per piangerli morti:

   Tal premii, Italia, i tuoi migliori; e poi,
       Che pro se piangi e ’l cener freddo adori,
       E al nome vôto onor divini fai?
   Sì, da’ barbari oppressa, opprimi i tuoi,
       E ognor tuoi danni e tue colpe deplori
       Pentita sempre, e non cangiata mai.


Nel principio del Sonetto, diretto a Francesco Lomonaco, si compiange la sorte di questo giovine e già illustre esule napoletano, obbligato a condur vita misera e raminga come Dante, l’antico esule glorioso fiorentino, del quale il Lomonaco aveva narrata la vita. Due anni innanzi, in una nota al terzo canto del Trionfo, ove si descrivono le stragi di Napoli, il Manzoni raccomandava già «l’energico e veramente vesuviano rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriotta napoletano.» Vogliono che il Manzoni vecchio dicesse avere in gioventù concepite del Lomonaco grandi speranze, che non furono poi mantenute; ma chi riferì quelle parole del Manzoni dovette frantendere; il Lomonaco non ebbe tempo d’acquistar maggior gloria, poichè nell’anno 1810 che era, a pena, il trentesimoprimo della sua vita, egli miseramente s’uccise. L’ingratitudine è cosa mostruosa in tutti, ma più nei grandi ingegni. Ora io non posso credere che il Manzoni fosse ingrato a quel Lomonaco, il quale fu uno degli scrittori che lo fecero maggiormente pensare, e quello che importa, pensar giusto. Io ho voluto rileggere la Vita di Dante scritta dal Lomonaco. Ora, udite quali parole si leggono in fine di quella Vita: «I benemeriti della repubblica letteraria non sono i pedanti, o i servili imitatori, bensì quei che informati di una qualche potenza vivificativa sanno altamente e profondamente pensare. Un filosofo interrogò una volta l’Oracolo: quai mezzi praticar dovesse per divenir immortale, e l’Oracolo gli rispose: Segui il tuo genio.» Ci sono simpatici quegli scrittori che esprimono meglio i nostri proprii sentimenti; il Manzoni deve aver detto leggendo tali parole: esse furono scritte per me; ed averle presenti quando, due o tre anni dopo, scriveva in Parigi il suo programma civile e poetico, ossia il Carme per l’Imbonati.1

È vera fortuna per l’Italia che, nella primavera dell’anno 1805, Alessandro Manzoni abbia dovuto recarsi in Francia. È possibile, invero, che proseguendo a rimanere in Milano, a respirar l’aria delle scuole letterarie d’Italia, a vivere tra le maldicenze puerili e pettegole de’ nostri letterati, egli, a malgrado di tutta l’originalità del proprio ingegno, non avrebbe trovato così presto quella forma chiara, schietta, popolare di linguaggio, pel quale veramente col Carme dell’Imbonati per la nostra poesia incipit vita nova. A Parigi egli si trovò libero d’ogni impaccio scolastico, ed il suo genio, per la prima volta, potè spaziare per vie proprie e non ancora battute. Sentir e meditar: ecco la sua gran formola poetica; in Francia egli trovò pure il modo di esprimere naturalmente questi sentimenti meditati, per l’esempio che gli offrivano gli scrittori francesi.

Il Carme per l’Imbonati è una prova eloquente che il Manzoni ha sentito, meditato e imparato a scrivere con semplicità e naturalezza.

Esaminiamo ora dunque quali forti sentimenti dovessero agitarlo e commuoverlo, quali pensieri governarlo, quando egli scrisse a vent’anni, in Parigi, il bellissimo Carme.

Che cosa sia veramente avvenuto nella famiglia Manzoni, nel principio dell’anno 1805, quando la signora Giulia Beccaria s’indusse a lasciare precipitosamente Milano in compagnia del figlio Alessandro, non si può fino ad ora bene affermare. Che il giovine Alessandro avesse avuto in Milano de’ grossi dispiaceri, si può argomentare dai versi stessi del Carme, ov’egli si sfoga contro i vili che armarono contro il suo nome l’operosa calunnia. Carlo Imbonati era morto il 15 marzo dell’anno 1805, in Parigi, assistito dalla signora Giulia Beccaria, madre del Manzoni. La Giulia accompagnò le spoglie dell’amico a Brusuglio: villa, di cui egli, sebbene avesse parecchie sorelle, l’aveva fatta erede. La madre ed il figlio, dopo quella morte, partirono per Parigi, lasciando solo Don Pietro in Milano; l’eredità lasciata alla Giulia Beccaria diede occasione a molte ciarle; ora le ciarle, nelle quali anche gli uomini eletti che vi si abbandonano, diventano volgo, le nove volte su dieci, come sono figlie dell’ozio, sono madri di maldicenza. La signora Giulia Beccaria non dovette essere risparmiata. Che fece allora il figlio? Prima di tutto, egli non l’abbandonò più, e poi si preparò a vendicarne, come potè, la fama oltraggiata. Del padre che morì settantenne in Milano, due anni dopo la morte dell’Imbonati, e a cui il figlio, avvertito troppo tardi in Parigi, non arrivò in tempo a chiudere gli occhi, non troviamo se non un rapido cenno, abbastanza freddo, per annunciarne la morte, in una lettera che il Manzoni diresse nel marzo del 1807 all’amico Pagani da Brusuglio, ov’egli s’era per pochi giorni condotto con la madre a mettervi in ordine i suoi affari più urgenti. Nella stessa lettera, invece, il Manzoni rappresenta all’amico la propria «felicità di avere per madre ed amica una donna, parlando della quale, egli dice, troverò sempre più ogni espressione debole e monca.»2 Ignazio Calderari, comune amico del Manzoni e del Pagani, avendo poi, allora per l’appunto passato, com’ei diceva: «due mezze giornate in paradiso,» o sia, nella villa dell’amico Manzoni a Brusuglio, scrivendo nel giorno stesso al Pagani, gli fa il ritratto della signora Beccaria: «Che dirotti di sua madre? Mi palpitava il cuore nel viaggio pel desiderio di conoscere una tal donna, che io già amava e venerava come quella che forma la felicità del nostro Manzoni, e da quanto vidi non posso ingannarmi che l’uno formi la contentezza dell’altro, perchè nulla è tra loro di segreto: l’uno a vicenda ambisce di prevenire i desiderii dell’altro, e si protestano l’un dell’altro indivisibili. Tu trovi in lei una donna, cui, non mancando alcuna delle vere grazie che adornano una donna, è dato un senno maschio ed una facile quanto soave ed affettuosa parola; è poi nel discorso tutta sentimento; ma quel che più attrae l’ammirazione, è il vedere queste prerogative d’ingegno e di cuore accompagnate da modestissimo contegno e spoglie affatto d’ogni donnesco, benchè minimo pettegolezzo; mi pare insomma che essa si assomigli perfettamente a quello che ce la rappresentavano le sue lettere a te e al sempre caro e adorabile Arese, quando le leggevamo insieme. Che bella coppia è mai quella! In verità, io credo non si possa pregare miglior cosa ad un uomo che di avere una tal madre o un simile padre!»

Ma è pure unica la fortuna di una donna, la quale abbia avuto per padre un Cesare Beccaria3 e per figlio un Alessandro Manzoni.4 La madre del Manzoni, quando si recò a Parigi, non si faceva chiamare altrimenti che la signora Giulia Beccaria; il nome del Beccaria servì di passaporto e di commendatizia anche al nostro giovine Alessandro presso la più eletta e la più colta società parigina, ov’egli ebbe pure occasione di conoscere, fra gli altri valentuomini, lo storico piemontese Carlo Botta, il quale, non potendo ancora presagire in lui il futuro caposcuola del romanticismo in Italia, gli divenne amico.5 Il Manzoni stesso, in quel tempo, un poco per farsi meglio conoscere, ma molto più forse per compiacere alla propria madre, firmava le proprie lettere col doppio nome di Manzoni-Beccaria; quando poi l’amico suo Pagani fece ristampare in Milano, per conto dell’Autore,6 il Carme In morte dell’Imbonati, egli lo pregò di aggiungere pure sul frontispizio il nome del Beccaria, specialmente dopochè il poeta Lebrun, allora molto in voga, inviandogli un suo nuovo componimento stampato, lo avea, senz’altro, salutato col nome di Beccaria, soggiungendo nella dedicatoria manoscritta queste parole: «C’est un nom trop honorable pour ne pas saisir l’occasion de le porter. Je veux que le nom de Lebrun choque avec celui de Beccaria.»7 Il Pagani o dimenticò o finse o volle dimenticare il singolare desiderio espressogli dall’amico, il quale dovette contentarsi di sentirsi chiamare semplicemente: Alessandro Manzoni.

I versi per l’Imbonati non furono dunque scritti, come sembrami siasi creduto fin qui, immediatamente dopo la morte di colui, che, discepolo del Parini, dovea, se avesse vissuto, divenire la guida spirituale del Manzoni; ma parecchi mesi dopo, nel febbraio dell’anno 1806, quando s’appressava l’anniversario della sua morte, ed assai probabilmente per dare, in quel giorno funebre, una consolazione alla nobile amica derelitta dell’Imbonati. Noi sappiamo ora intanto dal signor Romussi che, per quell’anniversario funebre, il Manzoni faceva ristampare i suoi versi in Milano, per mezzo del suo amico Pagani, al quale soggiungeva il seguente poscritto:

«Il 15 corrente è il fatale giorno anniversario della morte del virtuoso Imbonati. Mia madre dice che un tuo sospiro per lui sarà a lui un omaggio, una consolazione a lei, e che in quel momento le nostre anime saranno unite.»8 Nel Carme commemorativo, ove si esalta la virtù dell’Imbonati, ove si confessa pubblicamente l’amicizia che lo legava a Giulia Beccaria, ove si promette dal poeta all’ombra dell’Imbonati ch’egli avrebbe seguito i sapienti consigli dell’amico di sua madre, si esalta insieme e si consola la virtù e il dolore della madre. Sotto questo aspetto speciale, parmi che il Carme, sebbene già notissimo, In morte dell’Imbonati, possa ora venir riletto dagli ammiratori del Manzoni, con più viva, se pure non nuova, curiosità, poichè insieme col genio nascente del poeta ci mostra il coraggioso ed eloquente affetto del figlio vendicatore dell’onore materno.9

Incomincia il Poeta accortamente col rivolgersi alla madre, rammentando com’egli fosse solito a scusarsi presso di lei, per avere fino a quel dì coltivata solamente la poesia satirica, poichè non gli era apparso sopra la terra un solo raggio di virtù, al quale potesse consacrare l’ingegno poetico. Ma, dopo avere inteso come la madre rimpiangesse la rara virtù dell’amico che le era stato tolto, gli parve almeno che il ricordo di quelle virtù potesse destare in alcuno il proposito di farle rivivere in sè. Il giovine Poeta vede veramente o immagina d’avere veduto in sogno il conte Carlo Imbonati, ma in figura di malato già consunto dal proprio male. Egli serba tuttavia sempre molta calma nell’aperto volto e nell’aspetto, i quali inspirano pronta fiducia anche agl’ignoti. Pensosa è la fronte di lui, mite e sereno lo sguardo, il labbro sorridente. Il Poeta ventenne fa prontamente atto di volerlo abbracciare e di favellargli:

                           ma irrigidita
Da timor, da stupor, da reverenza
Stette la lingua.


Allora l’Imbonati stesso prende a parlare, e dice come un affetto imperioso lo muova a ritornar presso di lui, che, nel fine di sua vita, era stato oggetto dei suoi più vivi desiderii:

                              E sai se, quando
Il mio cor nelle membra ancor battea,

Di te fu pieno, e quanta parte avesti
Degli estremi suoi moti. — Or, poi che dato
Non m’è, com’io bramava, a passo a passo,
Per man guidarti su la via scoscesa,
Che, anelando, ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza.


L’Imbonati, non credendo forse ancora imminente l’ultimo suo giorno, avea diretta al giovine Manzoni che, in quel tempo, dovea condurre fra la gioventù milanese una vita alquanto dissipata, una prima ed ultima lettera eloquente, dove gli dava alcuni suoi consigli amorosi, fiducioso certamente di deporre il buon seme in ottimo terreno. Il Manzoni, alla sua volta, rispose con una lettera caldissima; ma la risposta arrivò all’Imbonati, quand’egli avea già chiusi gli occhi alla luce.

Mi si domanderà: Come sapete voi questo? In quale biografia l’avete voi letto? Avreste, per avventura, vedute quelle preziose lettere? No: lo non le ho vedute; ma ho semplicemente letto, con intento biografico, i versi stessi del Manzoni. Gli abbiamo letti anche noi, e sono chiari abbastanza da non abbisognare di commenti. Io ne convengo perfettamente, e vi prego dunque soltanto di rileggerli ancora una volta:

. . . . Allor ch’io l’amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime fôro, e la dolcezza
Dell’esser teco presentìa, chi detto
M’avrìa che tolto m’eri! E quando in caldo

Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
Che non sarìa dagli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.


Il Manzoni non pare dunque aver conosciuto l’Imbonati, ma essersene solamente innamorato per la fama delle sue molte virtù e per l’affetto sincero e profondo che egli aveva inspirato alla signora Beccaria; il che è intieramente regolare, poichè sappiamo dal Fauriel che la Beccaria s’era recata a Parigi con l’Imbonati fin dai primi anni del Consolato. Si spiega quindi pure come, per un certo periodo della vita giovanile di Alessandro Manzoni, appaia educatrice di lui non già la madre, ma una zia uscita da uno de’ conventi soppressi, nel tempo in cui i Manzoni abitavano nella Via di Santa Prassede.10 Essa aveva l’incarico di accompagnare in chiesa il giovinetto, e di fargli dare lezioni di musica e di danza, forse pure di scherma. Come spiegarsi altrimenti che l’Imbonati fosse così poco noto al figlio di colei, per la quale egli era tutto, e che, invece di parlare al Manzoni, egli si risolvesse a scrivergli?

Un giorno qualche altra lettera inedita ci darà forse la chiave di questo enigma biografico; intanto proseguiamo la nostra lettura:

Io sentìa le tue lodi; e qual tu fosti
     Di retto, acuto senno, d’incolpato
     Costume e d’alte voglie, ugual, sincero,
     Non vantator di probità, ma probo,
     Com’oggi, al mondo, al par di te nessuno
     Gusti il sapor del beneficio, e senta
     Dolor dell’altrui danno. Egli ascoltava
     Con volto nè superbo, nè modesto.
     Io, rincorato, proseguìa: se cura,
     Se pensier di qua giù vince l’avello,
     Certo so ben che il duol t’aggiugne e il pianto


Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto.


L’Imbonati sorride mestamente, e risponde:

                                  Se non fosse
Ch’io l’amo tanto, io pregherei che ratto
Quell’anima gentil fuor delle membra
Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo
Di Quei ch’eterna ciò che a Lui somiglia.
Che, fin ch’io non la veggo, e ch’io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo;
Ma, per gli occhi d’entrambi, il cor parlava.


Dopo questo omaggio che il giovine Poeta, preteso ateo, rende per le parole dell’Imbonati alla credenza in Dio e nella immortalità dell’anima umana, egli domanda all’ombra dell’Imbonati quale impressione essa abbia provato nel punto della morte.11 Essa risponde evasivamente che non provò alcun dolore, che le parve liberarsi da un breve sonno; ma poi, ridesta alla vita eterna, le increbbe non ritrovarsi più vicina la cara donna che vegliava, con amorosa pietà, al fianco di lui infermo. Altro l’Imbonati non può rimpiangere di questa vita mortale, nè il tristo mondo ch’egli abbandonò. Anima virtuosamente stoica e scettica ad un tempo, comunica il proprio scetticismo all’amica diletta ed al carissimo alunno:

Che dolermi dovea? forse il partirmi
Da questa terra, ov’è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier dalla parola è sempre
Altro, è virtù per ogni labbro ad alta
Voce lodata, ma ne’ cor derisa;
Dov’è spento il pudor, dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e frutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi e i buoni in fondo.
Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura e, pur troppo, disugual la guerra
Contro i perversi affratellati e molti.
Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E all’onor vano e al lucro, e delle sale
Al gracchiar vôto, e del censito volgo
Al petulante cinguettìo, d’amici
Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai.


Qui, dove torna pure ad affacciarsi in parte il poeta de’ Sermoni che si mostra alieno dai pubblici ufficii, appaiono chiare le ragioni, per le quali il Manzoni, disgustato della società milanese, si recò in Francia con la madre. Segue il già citato ricordo dell’educazione ricevuta in collegio, quindi l’allusione allo innominato maestro ch’egli disprezza; viene infine l’alunno sdegnoso alle calunnie dei vili che assalirono il nome del giovine poeta in Italia, alle quali egli non diede risposta, unico modo savio per farle cadere; e caddero infatti così bene, che non si potrebbe oggi più argomentare con qualche fondamento di qual natura veramente esse fossero e onde partissero. È possibile tuttavia, se è vero che il Manzoni abbia, in qualche modo, nella gioventù di Lodovico, voluto raffigurar la propria ch’egli, non ignaro, per averle particolarmente studiate, delle leggi cavalleresche, invece di sfidare il suo avversario calunniatore l’abbia disprezzato, per mostrare poi in età più matura, con tutta la forza stringente della sua logica poderosa, e per l’esempio del duello di Lodovico, come un tal partito, tragico insieme e ridicolo, non risolva mai alcuna questione d’onore. I versi giovanili del Manzoni ci dicono, in somma, in modo indiretto, che egli nè entrò in polemica letteraria, nè chiese a’ suoi calunniatori alcuna riparazione di sangue:

Nè l’orecchio tuo santo io vo’ del nome
Macchiar de’ vili che, ozïosi sempre,
Fuor che in mal far, contra il mio nome armâro
L’operosa calunnia. Alle lor grida
Silenzio opposi, e all’odio lor disprezzo;
Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;
Ond’io lieve men vado a mia salita
Non li curando:


non curanza che, ricordando il disdegnoso verso dantesco,

Non ti curar di lor, ma guarda e passa,


conferma pure il verso del Manzoni giovinetto:

Spregio, non odio mai.


Per quale intima associazione d’idee non si potrebbe ora ben dire, il giovine Manzoni domanda quindi all’Imbonati, se sia vero quello che di lui si va dicendo, ch’egli abbia, cioè, disprezzato i poeti e le Muse. Ma l’Imbonati è pronto a soggiungere che gli furono venerandi e cari Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini, ma ch’egli disprezza, invece, i poeti triviali, arroganti, viziosi, di perduta fama, i quali fanno un vergognoso mercato di lodi e di strapazzi, e dai quali si attende una vecchiaia oscura e ignominiosa; e qui forse il Manzoni mirava ancora al cavaliere storiografo Vincenzo Monti od all’improvvisatore Francesco Gianni che viveva a Parigi, e metteva in verso i bollettini delle vittorie napoleoniche. La vecchiaia dell’Autore della Bassvilliana e della Mascheroniana fu, pur troppo, quale il Manzoni la pronosticava ai venali poeti, dai quali egli abborriva; al Gianni fu invece, dopo la caduta di Napoleone, conservata la sua lauta pensione. Udite, pertanto, le generose parole dell’Imbonati, il Manzoni prorompe egli stesso e conchiude stupendamente il Canto:

Gioia il suo dir mi prese, e non ignota12
Bile destommi; e replicai: deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
Io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta,
Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.

Sentir, riprese, e meditar; di poco
Esser contento; dalla mèta mai
Non torcer gli occhi; conservar la mano
Pura e la mente; delle umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle; non ti far mai servo;
Non far tregua coi vili; il santo vero
Mai non tradir; nè proferir mai verbo,
Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento, a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
L’ingegno e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava; al mio
Pianto ei compianse, E, non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
Se’ per natura e, per eletta, amico,
Ama ed ascolta, e di figlial dolcezza
L’intensa amaritudine le molci;
Dille ch’io so ch’ella sol cerca il piede
Metter su l’orme mie; dille che i fiori
Che sul mio cener spande, io li raccolgo,
E li rendo immortali; e tal ne tesso
Serto che sol non temerà nè bruma,
Ch’io stesso in fronte riporrolle, ancora
Delle sue belle lagrime irrorato.
Dolce tristezza, amor, d’affetti mille
Turba m’assalse; e, da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
Alla cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno, io mi rimasi;
E con l’acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.


Qui tutto è vero e caldo come fiamma viva; qui spira l’alito di una poesia originale e potente. L’ombra dell’Imbonati, in conformità delle idee svolte nell’Ode pariniana Sull’Educazione e di quelle del Fauriel (il prediletto tra i pochi ed intemerati amici del Manzoni in Parigi), il quale, intorno a quel tempo, stava, per l’appunto, meditando una storia dello Stoicismo, traccia al discepolo e, per mezzo di esso, a noi, un intiero bellissimo programma di Filosofia stoica. Con un tale espediente, non saprei dire se più ingegnoso o affettuoso, avendo l’Imbonati parlato per mezzo del figlio all’amico, la signora Giulia Beccaria dovette persuadersi come, per la virtù dell’amor figliale, divenuta poesia sovrana, la madre non solamente potea consolarsi, ma avesse ogni ragione di inorgoglirsi, nella lieta certezza di aver fatto all’Italia il dono celeste di un nuovo grande poeta.13

  1. È giusto tuttavia l’avvertire che consigli simili il Manzoni dovea averli talora intesi dallo stesso Monti. Questi, in una sua lettera di risposte al Tedaldi-Fores, ringraziando il giovine Poeta romantico per un Inno all’Aurora, gli scriveva come lo potrebbe ora fare un manzoniano: «Perchè in avvenire trionfi ne’ vostri versi l’affetto, innamoratevi, fate che le vostre idee prima di andar sulla carta passino per mezzo il fuoco del cuore; in una parola, sentite
  2. In una lettera del marzo 1806 diretta da Parigi al Pagani, il Manzoni si esprime così. «Scrivimi presto, te ne prego per me e per mia madre, che legge le tue lettere coi miei occhi. Ella t’ama quanto io t’amo. Ella è continuamente occupata.... ad amarmi e a fare la mia felicità.»
  3. Quando, nel 1793, il Beccaria morì, il Manzoni si trovava in collegio, e contava appena otto anni. Non pare ch’egli abbia ricevute altre impressioni del nonno, fuori di quelle che gli furono comunicate dalla madre e dalla lettura delle opere, specialmente dei due libretti, Intorno ai Delitti e alle Pene, e Intorno alla Natura dello stile. In quest’ultima opera, quantunque scritta assai male, trovansi parecchi pensieri, che devono aver servito di base ai primi discorsi che il Manzoni tenne in Parigi col Fauriel intorno allo stile. Io ne accennerò alcuni che mi sembrano particolarmente essere divenuti manzoniani: «Un’eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare in sè stesso l’indolente ed indeterminata sensibilità, che facesse scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli produssero piacere o dolore. — Sono le osservazioni sopra le interne operazioni dello spirito, non sulle esterne manifestazioni di esso, che formano le vere istituzioni. — Io parlo solamente a quegli animi pronti e penetranti che sanno ripiegarsi in sè medesimi e sentir profondamente, ed a quegl’ingegni arditi e liberi che si formano una scienza de’ loro pensieri e non degli scritti altrui.» Il sensismo del Condillac adoperato nella statistica è il fondamento della dottrina del Beccaria, che il Manzoni tradusse in pratica. «Il principal artificio (conchiudeva il Beccaria) di chi vuole riuscire eccellente scrittore sarà quello di ridurre a tutte le idee sensibili, componenti, tutto il corredo delle parole, delle quali egli, conversando e studiando, carica la memoria, il che finalmente si riduce al principio medesimo esposto nella prima parte di queste ricerche; se l’eccellenza dello stile consiste nell’esprimere immediatamente il massimo numero di sensazioni unibili colle idee principali, per mettersi in istato appunto di esprimere questo massimo numero, il miglior mezzo sarà quello di averne ricca l’immaginazione. Ora come mai ciò potrà aversi se tre quarti dell’istituzione nostra si fa per mezzo delle parole, ed è necessario di farlo attesa la complicata coltura de’ nostri costumi? non certamente in altra maniera, infuori che in quella di studiosamente e ad ogni occasione portare l’unione delle generali ed indeterminate espressioni alle sensibili, precise e determinate.
  4. Così l’Imbonati che ebbe per discepolo il Manzoni, aveva avuto per maestro il Parini! Il Manzoni stesso dovea avere per maestro un Monti, per amici un Foscolo ed un Fauriel, un Rosmini ed un Grossi, per critico un Goethe, per genero un Azeglio, per discepolo ideale un Giusti! Le visite del Mazzini e del Garibaldi, di Vittorio Emanuele e del Principe Umberto, di Don Pedro d’Alcantara e del Granduca Alessandro di Weimar, erano dimostrazioni particolari di quel consenso universale d’ammirazione, pel quale la gloria letteraria del Manzoni fu insuperata ed insuperabile.
  5. Il Botta dava a leggere al giovine Manzoni il manoscritto della sua Storia della Indipendenza degli Stati Uniti, della quale il Manzoni scriveva con entusiasmo all’amico Pagani, dicendogli, tra l’altre cose: «Credi che, dopo i nostri storici vecchi, nulla d’eguale è mai comparso in Italia,» e gli raccomandava di trovargli un editore in Italia. L’editore non si potè trovare. Il Botta stampò il libro a sue spese; poi, avendo la moglie malata, e bisogno urgente di far danaro, vendette tutta l’edizione a peso di carta! — È noto come, dopo la pubblicazione de’ Promessi Sposi, il Botta classicheggiante si schierò tra gli avversarii della Scuola manzoniana.
  6. La prima edizione de’ soli cento esemplari, uscita nel febbraio del 1806, non fu messa in vendita; l’edizione di Milano fu di 1000 esemplari, ed uscì nel marzo di quello stesso anno.
  7. Fra i poeti che destarono maggior entusiasmo nel giovine Manzoni vuol essere ricordato, per l’appunto, questo Lebrun. n 1 Egli era nato nel 1729, e s’era acquistato fra i suoi contemporanei il nome di Pindare français. A quattordici anni aveva già fatta un’Ode che prometteva un poeta insigne. Nato nella casa del principe di Conti, che lo prese a proteggere e lo adoperò poi per molti anni come suo segretario, vogliono che egli potesse esserne figlio. Il figlio del grande tragico Racine, poeta egli stesso, innamorò il giovane Lebrun della poesia; naufragato il Racine presso Cadice, il Lebrun lo pianse con un’Ode tenerissima. Sopra il suo quinto lustro, il Lebrun noveravasi già fra i primi Lirici francesi. L’indole satirica del poeta gli fece molti nemici; ma vuolsi pure ricordare che la figlia del grande Corneille ebbe dote per un’Ode famosa, nella quale il Lebrun supplicava in favore di lei il Voltaire. E quando il Voltaire morì, il Lebrun lo onorò con questa strofe efficace:

    O Parnasse! frémis de douleur et d’effroi!
    Pleurez, Muses, brisez vos lyres immortelles!
    Toi dont il fatigua les cent voix et les ailes,
    Dis que Voltaire est mort, pleure et repose-toi.


    Ma gli epigrammi pungenti del Lebrun sono molto più numerosi. La morte del principe di Conti, la sua separazione dalla moglie, il fallimento del principe di Guémenée, presso il quale il Lebrun avea collocati i suoi risparmii, ne amareggiarono la vita. Per la intercessione del conte di Vaudreuil e del Calonne, impietosito il re Luigi XVI concesse al povero Lebrun una pensione annua di duemila franchi, il che non impedì, allo scoppiar della rivoluzione, che il Pindaro francese scrivesse le più ardenti odi rivoluzionarie. Ma il regno del Terrore lo spaventò; il Lebrun lamentò allora la libertà perduta e l’umanità oltraggiata. Passata la tempesta rivoluzionaria, creato l'Institut National, ei fu de’ primi ad esservi accolto. Sotto il Direttorio, gli fu dato quartiere nel Louvre, con una pensione annua di mille scudi; Napoleone, primo console, la portò nel 1804 a seimila franchi. Negli ultimi anni della sua vita, il poeta perdette la vista; ma la ricuperò, in parte, per le cure del dottor Forlenze, onde il Cournand componeva la graziosa strofa seguente:

    D’un nuage fatal tes yeux étaient voilés;
    Forlenze, par son art, te rendit la lumière.
    En des siècles plus reculés
    Ce qu’il fit pour Pindare, il l’eût fait pour Homère


    Ma del beneficio della luce il Lebrun godette per poco tempo, poichè morì nel mese di settembre dell’anno 1807. I critici contemporanei del Lebrun non lo stimavano inferiore al lirico Giambattista Rousseau, specialmente per le due Odi al Buffon, per l’Ode sopra il vascello Le Vengeur, e per le sue traduzioni e imitazioni delle Odi d’Orazio. Ebbi sotto gli occhi un ritratto del poeta Lebrun, una figura nervosa, un profilo sottile, che non doveva inspirar molta simpatia; il Manzoni era tuttavia in quell’età, in cui tutti gli scrittori celebri sembrano degni d’essere amati, quando incontrò il Lebrun; e però il 17 marzo dell’anno 1806 scriveva da Parigi al suo amico Pagani: «Ieri ebbi l’onore di pranzare con un grande uomo, con un poeta sommo, con un lirico trascendente, con Lebrun. Avendomi onorato di un suo componimento stampato, volle assolutamente scrivere sull’esemplare, che conserverò per sempre: Á. M. Beccaria. Ho avuto l’onore di imprimere due baci sulle sue smunte e scarnate guancie; e sono stati per me più saporiti che se gli avessi colti sulle labbra di Venere. È un grande uomo, per Dio! Spiacemi che le sue Odi sieno sparse e non riunite in un volume per potertele far conoscere; il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che noi Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non vi è poesia francese. Io credo e creder credo il vero, che noi non abbiamo (all’orec- (all’orecchio), che noi non abbiamo un lirico da contrapporre a Lebrun per quello che si chiama forza lirica. E perciò qui lo chiamano comunemente Pindare Lebrun, e non dicono forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi mi domina, e per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche verso qua e là delle sue Odi. In una imitata dall'Exegi monumentum di Orazio, egli dice che il suo monumento è più ardito della piramide e più durevole del bronzo. E poi (ascolta, per Dio!):

    Qu’atteste leur masse insensée?
    Rien qu’un néant ambitieux:
    Mais l’ouvrage de la pensée
    Est immortel comme les Dieux.


    Eh? e nella medesima Ode:

    Comme l’encens qui s’évapore
    Et des Dieux parfume l’autel,
    Le feu sacré qui me dévore
    Brûle ce que j’ai de mortel.


    E nella stessa ancora:

    J’échappe à ce globe de fange:
    Quel triomphe plus solennel!
    C’est la mort même qui me venge;
    Je commence un jour éternel.


    E, in un’Ode a Bonaparte, due anni fa:

    Le peuple souverain qu’un Héros sent défendre
    N’obéira qu’aux Lois;
    Et l’heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
    Jusqu’au trône des Rois.


    In un’Ode per la famosa notte del 10 agosto,— attento bene:

    O Nuit, dont le voile imposteur
    Servit un roi conspirateur,
    Je te dénonce à la mémoire!
    Sors de ta lâche obscurité,
    Parais dans ton affreuse gloire,
    Subis ton immortalité!


    Se questi non sono versi, quelli d’Orazio e di Pindaro sono cavoli!— E parlando di Dio in un poema:

    Au-delà du soleil, au-delà de l’espace,
    Il n’est rien qu’il ne voie, il n’est rien qu’il n’embrasse,
    Et la création respire dans son sein.»


  8. Una lettera del maggio 1806 diretta in poscritto dalla Giulia Beccaria al Pagani lo pregava di visitare in Milano la tomba dell’Imbonati: «Un vostro puro vale (scriveva essa), sarà aggradito da Lui, sarà accetto dal mio povero cuore.»
  9. L’Autore della Biografia del Manzoni che si legge ora nel Supplemento all’Enciclopedia popolare del Pomba, preferisce invece far credere che il Manzoni abbia scritto il Carme per l’Imbonati, per riconoscenza della pingue eredità ricevuta!
  10. «Il Manzoni (scrive lo Stoppani) si ricordava fin negli ultimi suoi anni della buona zia, la quale gli aveva lasciato delle impressioni vivissime, che egli ricordava agli amici, come fossero ancora quei giorni. Ritornata ai patrii lari, l’ex-monaca si era assunta lei una parte dell’educazione di Lisandrino, a cui aveva preso a volere un gran bene, e questa parte era di farne un giovinotto... se vi par troppo il dire galante, diremo brillante, chè non daremo così occasione di pensar male a nessuno. Non pare che per una coltivazione di questo genere il terreno fosse così facile, come avrebbe desiderato la coltivatrice. Anche il Manzoni dovette subire il supplizio inevitabile delle lezioni di musica e di danza.... Non vi cadesse mai in mente che l’ex-monaca fosse una donna meno che ammodo, anzi meno che pia; ella non mancava mai di condur seco Lisandrino alla benedizione nella chiesa detta alla Pace. Vuol dire che lungo la via c’era tempo di discorrere d’altre cose.— Vede lei,— diceva un giorno il Manzoni, in uno degli ultimi anni della sua vita, ad un amico, mentre passavano per la Via di Santa Prassede,— vede lei quella finestra? Un giorno ero là colla zia che m’insegnava il viver del mondo. D’un tratto eccocialle spalle lo zio monsignore; e la zia svelta a regalargli, come si dice, una buona cavatina, cambiando discorso con tale disinvoltura, da fare invidia al comico più provetto. — Dove mai aveva la zia appreso una tattica così sorprendente? Ma!... La cosa aveva fatto un gran senso al giovinetto, e gli avrà dato certamente da pensare. Talvolta certamente nella conversazione il discorso cadeva sulla soppressione, con tutti quei pro e contro che udiamo anche noi a’ nostri giorni. La zia a questo proposito non si lasciava mai cogliere nelle spire di un ragionamento qualsiasi. Con quel suo fare spigliato e disinvolto saltava a piè pari alla conclusione.— Io per me — diceva — sono del parere di Giuseppe II. Aria! Aria! — soggiungeva, trinciando nell’aria di gran cerchi colla mano destra, quasi avesse voluto farsi largo, e sgombrarsi dattorno quel non so che, da cui aveva impedito per tant’anni il respiro.»
  11. Questa pareva una preoccupazione forte nel Manzoni: noi abbiamo veduto nelle lettere che scrive intorno all’Arese moribondo com’egli si sdegni contro il sacerdote che viene a crescere il terrore della morte; è noto poi come l’estrema agonia del Manzoni sia stata dolorosa, pel terrore che lo invase nell’ultimo momento.
  12. Egli ricordava senza dubbio, in quel punto, il proprio già citato Sermone contro i cattivi poeti.
  13. L’indole intieramente soggettiva del Carme, le lodi date all’Imbonati amico di sua madre, quando il padre ancora viveva, e la possibilità che alcuno venisse un giorno, come venne pur troppo, a sospettare ch’egli cantasse l’Imbonati per riconoscenza venale, dopo che il Conte aveva diseredato i proprii parenti per lasciare le proprie sostanze alla bella ed intelligente amica, furono, senza dubbiò, i motivi gravissimi, per i quali il Manzoni ebbe più tardi a dolersi d’avere scritto quel Carme giovanile.


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Note


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