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IX.
Il libro del signor Romussi ci ha recata in quest’anno una grata sorpresa, ponendoci sott’occhio alcune lettere o frammenti di lettere giovanili del Manzoni, dalle quali ricaviamo il nome de’ suoi tre primi amici. Il più intimo tra questi fu Giambattista Pagani di Brescia, col quale il Manzoni avea studiato a Pavia; le lettere del Manzoni ce lo mostrano affettuoso, devoto, pronto a render servigii, alcuna volta anche troppo, come quando volle dedicar di suo capo, in nome del Manzoni, a Vincenzo Monti il Carme In morte dell’Imbonati, che si ristampava in Milano dal De Stefanis.1 Veniva secondo Ignazio Calderari, che il Manzoni stesso chiamava aureo, amabile e rispettabile; e pure doveva essere un giovine ardente e pieno di entusiasmo, a giudicarne dalla lettera, in cui egli descrive il proprio viaggio a Brusuglio, la nuova villa manzoniana, per conoscere la madre dell’amico e per vedere se l’amico era sempre il medesimo. Pare che il Manzoni fin d’allora scrivesse lettere mal volentieri, e preferisse, stando a Milano, incaricare l’amico Calderari di mandare i suoi saluti al Pagani, anzi che scrivere egli stesso. «Aggiungi (egli scriveva al Pagani) che nel mio soggiorno a Milano la facilità di aver tue nuove per mezzo del nostro Calderari favoriva e scusava la mia pigrizia, la quale, a dir vero, non era scossa da alcuna tua sollecitudine a scrivermi.»
Il terzo amico, Luigi Arese, morì tisico nel 1806, intorno a’ suoi vent’anni; gli amici lo chiamavano: «caro e adorabile.»2 Non è raro il caso che le amicizie fatte nella scuola si raffreddino e si dileguino nella lontananza, per tornare a ravvivarsi nella vecchiaia. Il Calderari non accompagnò altrimenti la vita del Manzoni; la loro corrispondenza parve cessare quasi intieramente nell’anno 1808, quando il Manzoni, sposata Enrichetta Blondel, si ritrasse a vivere per alcuni anni isolato in Brusuglio; ed anche l’amicizia col Pagani cessò, dopo quell’anno, dall’essere attiva.
Così non sappiamo altro dell’amicizia che il Manzoni parve avere con Antonio Buttura, letterato amico di sua madre,3 e con Francesco Lomonaco.
- ↑ Mi giova qui intorno al Pagani riferire per intiero la nota che trovasi nell'importante volume del Romussi; "Giambattista Pagani fu condiscepolo di Manzoni nel Collegio dei Nobili (Longone) di Milano, e gli conservò sempre un’amicizia che molti anni di lontananza non riescirono nè a spegnere, nè ad indebolire. Fino ai loro ultimi giorni si scambiarono con schietta cordialità proteste di affetto; e la ritrosia di Manzoni in questi ultimi anni a scriver lettere non lo fece mai tardo nel rispondere all’antico amico. Il Pagani era nato nel 1784 in Lonato: era quindi maggiore di un anno di Manzoni. Terminati gli studii del Collegio, il Pagani passò a Pavia a studiar giurisprudenza, e colà conobbe Vincenzo Monti, che teneva cattedra d’eloquenza, e che lo accolse fra i suoi famigliari. In quel tempo Manzoni erasi recato a Venezia, e di là mandava all’amico i versi che man mano scriveva, fra cui un Sermone allo stesso Pagani indirizzato, e nel quale parla dapprima della vocazione ch’ebbe fin dall’infanzia di essere poeta e giustifica il genere satirico di poesia, cui intendeva consacrarsi. Questo Sermone rimase ignoto fino al 1874, in cui fu pubblicato dall’abate Antonio Stoppani nel suo bel libro: I primi anni di Alessandro Manzoni. Il Pagani aveva ingegno da comprendere l’amico, egli pure scrisse reputati lavori: opere giuridiche, perchè avea per la severa scienza del diritto una vera passione, e opere letterarie, cui si applicava per diletto, ma con molta intelligenza. Fra queste ultime si ricorda un Discorso intorno all’Adelchi letto all’Ateneo di Brescia, in difesa dell’opera dell’amico che era allora da molti, con indegna guerra, combattuto. Fra le giuridiche sono lodati il Repertorio legale pei diritti reali ed un Trattato sulle Rendite giuridiche. Durante il primo Regno d’Italia era stato eletto Conservatore delle Ipoteche in Brescia. Nei dolorosi anni della dominazione straniera conservò, con dignitosa fermezza, la fede e l’affetto per la patria, che ebbe la gioia di vedere risorta. Morì nel 19 febbraio 1874, e fu pianto da tutti i buoni, che perdevano un vivente esempio d’integrità e di modestia.»
- ↑ Le due lettere del Manzoni al Calderari e la lettera intermedia al Pagani, pubblicate dal Romussi, volgono intorno alla malattia ed alla morte dell’Arese; le riproduco, perchè rivelano bene l’animo ed i pensieri del giovine Manzoni, il preteso ateo che dovea fare il miracolo di convertirsi:
»Parigi, 7 settembre 1806.
- »Mio Calderari,
»L’amara novella che mi hai data mi ha riempito di dolore e di melanconìa. Io era per iscrivere a te, a Pagani, al povero Arese per annunciarvi il mio ritorno a Parigi, e per chiedere di voi tutti. Non puoi credere quanto m’abbia colpito l’annuncio della grave malattia del nostro Arese. La speranza che tu conservi, rianima la mia; ma le circostanze che tocchi, la indeboliscono pur troppo (In questo passo si vede già l’amore speciale del Manzoni per le antitesi, amore che si può pure avvertire nella lettera del 1803 al Monti già citata.) L’apparato della morte è quello che la accelera, che la rende orribile. Chi ha avuto il cuore di dargli la sentenza finale? Di farlo soffrire nei forse ultimi suoi momenti? Oh piaccia a Dio che io possa avere da te nuova del suo rivivere! Quando un malato ha presso di sè dei veri amici che gli nascondono il suo stato, egli muore senza avvedersene; la morte non è terribile che per quelli che rimangono a piangere. Ma quando gli amici sono allontanati, quando vi sentite intronare all’orecchio: Tu devi morire! allora la morte appare nel suo aspetto più deforme. Povero Arese! Ho sempre davanti gli occhi quella sua camera deserta degli amici, senza te, senza Pagani che potreste sollevarlo. Alcuni sono morti che sarebbero guariti, pel timore solo cagionato loro dalla sentenza che fu data al povero nostro Arese. Ti prego di scrivermi presto e senza interruzione; non ho bisogno di raccomandartelo. Mia madre divide la mia afflizione, e freme parlando della fredda crudeltà che è tanto comune nei nostri paesi. Scrivimi, ti prego, a lungo ogni minuzia che riguarda Arese. Povero Arese! nel fiore dell’età! Ti prego di scrivere a Pagani che io non ho ora testa nè tempo di scrivergli, ma che, al primo ordinario, lo farò sicuramente. Se mai il mio silenzio gli fosse dispiacente, digli che io sono sempre il suo Manzoni; al mio Pagani ciò deve bastare. Tu amami, Calderari, e sii certo che io ti amo e ti riverisco veramente, e scrivimi presto. Addio; dammi nuove di Arese.
- »Il tuo
- »MANZONI B.ª»
- «Mio Pagani,
»M’hai tu dimenticato davvero? Sono tre mesi che non ho tue nuove; e l’ultima mia lettera, nella quale ti annunciava la mia partita da Parigi, è rimasta senza risposta. Non posso dubitare della tua salute, giacchè il nostro aureo Calderari che mi scrive, me ne avrebbe senza dubbio fatto cenno. Io sperava che Zinammi, col quale ci siamo abboccati, avesse qualche tua lettera a consegnarmi; ma, non vedendone ed aspettandone di giorno in giorno, tardai a scriverti fino al mio ritorno. Scrivimi al più presto, dimmi se sei ancora il mio Pagani, com’io sarò sempre il tuo Manzoni; dammi nuove di te, e di tutto quello che ti è a cuore.
»Non puoi credere quanta pena mi abbia fatto la nuova della grave malattia del nostro povero Arese; e mia madre, che divide ogni mio affetto, ne fu pure assai triste ed in timore. Calderari mi annunciò qualche miglioramento che mi riempì di gioia e di speranza. Duolmi amaramente che gli amici non abbiano adito al suo letto, e che invece egli debba aver dinanzi agli occhi l’orribile figura di un prete. Nè puoi figurarti quanto dolore ed indignazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari che ad Arese era stata annunciata la fatale sentenza (spero, per Dio! che sarà vana). Crudeli, così se egli schiva la morte, avrà dovuto nullameno assaporare tutte le sue angosce! E quante volte l’annunzio della morte ha ridotto agli estremi dei malati che, ignorando il loro stato, sarebbero guariti? Basta: i mali del caro ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi allontanano sempre più da un paese, in cui non si può nè vivere nè morire come si vuole. (Qui vi sono accenti intieramente foscoliani.) Io preferisco l’indifferenza naturale dei Francesi, che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri, che s’impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare, come se chi ha una testa, un cuore, due gambe e una pancia, e cammina da sè, non potesse disporre di sè e di tutto quello che è in lui a suo piacimento.
»Mi accorgo di aver fatto un pasticcio di parole, pazienza! Il mio Pagani è buono. Due parole di me. Io continuo il ben cominciato modo di vivere, senza cangiamento, senza interruzione. Se tu rileggi le mie passate lettere, ti farà ben maraviglia l’udire da me che mia madre, quest’unica madre e donna, ha aumentato il suo amore e le sue premure per me. Eppure la cosa è così. Io sono più felice che mai, e non mi manca che d’esserlo vicino a te e ai pochi scelti nostri amici, che si riducono ad Arese che vorrei risanato, e a Calderari che vorrei felice come egli merita. Ho vergogna di dirti che, dopo i versi stampati, non ne ho fatto più uno: ora però voglio mettermi il capo tra le mani, e lavorare, massime che mia madre non ha mai lasciato di punzecchiarmi, perchè io cacci la mia pigrizia.
»A proposito di versi, devo parlarti di un affare che mi è a cuore assai assai, e che in conseguenza premerà anche a te. Io non ho avuto dal libraio un soldo per l’edizione, e mi sono messo in puntiglio di non rilasciargli niente niente, perchè non voglio essere lo zimbello di nessuno e massime d’un libraio. La sua renitenza o noncuranza è veramente stomachevole. Nè ha alcun appiglio per eludere le mie richieste e per evitare di rendermi il mio. Perchè o le copie sono vendute e mi dia il danaro, o sono invendute e me le renda. Arese si era impegnato di parlargli. Rispose che egli aveva ottocento copie non vendute: io scrissi a Zinammi quello che doveva fargli dire da Arese, ma il povero Arese cadde malato. Ecco la mia risposta: rendere al signor Zinammi, procuratore di mia madre, il prezzo delle 200 vendute e le 800 copie invendute. E veramente mi fa maraviglia che il numero di quelle che sono in bottega sia così grande, non già perchè io credessi che dovessero avere grande spaccio (giacchè v’è un ostacolo a ciò, non so se per colpa dell’opera o dei lettori), ma perchè tu mi avevi annunziato che si vendevano a furia. Come tu facesti il negozio col libraio, così spero che vorrai ora ridurlo a fine, e te ne prego caldamente. Ho veduto su un giornale di Roma un giudizio di quei versi, con una lode tanto esagerata, che non ardisco riportarlo.
»Caro Pagani, scrivimi ed amami, anzi amaci, giacchè tu sai che mia madre non ha mediocre stima di te e desiderio della tua amicizia. Scrivi a lungo e vale.»
- »Il tuo
- ”MANZONI B.ª»
Parigi, 30 ottobre 1806.
- »Caro il mio Calderari,
»O Arese, giovine buono, amico vero della virtù e degli amici, giovine che in tempi migliori saresti stato perfetto, ma che nella nostra infame corruttela ti conservasti incontaminato, ricevi un vale da quelli che ti amarono caldamente in vita, e che ora amaramente ti desiderano. Povero Calderari, tu lo amasti, tu lo desideri e tu non hai potuto vederlo, consolarlo! Egli è morto nel fiore degli anni, nella stagione delle speranze, e l’ultimo oggetto che i suoi occhi hanno veduto non è stato un amico. Egli che era degno di amici! Povero Calderari! Mia madre ed io piangiamo sopra di Arese e sopra di te. Seppi da Buttura che tu eri assiduo alla sua porta, che le tue lagrime mostravano la forza del tuo affetto, ma invano. Noi rileggiamo le lettere di Arese, quel che ci resta di lui, quello che rimane in questo mondaccio di quell’anima fervida e pura. Odi quello che egli ci scrisse nell’ultima lettera, dove traspira quasi un presentimento della sua separazione. Egli parla con mia madre e con me, e par ch’egli non abbia voluto darmi l’ultimo addio, se non unendomi con Lei che tutto divide con me, e che abbia voluto così render più sacre per me le ultime sue parole. La lettera è del mese di giugno o di luglio al più tardi:
«Ho veduto con sommo dolore partire il mio Pagani. Mi rimane Calderari, che è un angelo. È veramente degno di miglior sorte e di.... Le sue disgrazie, che egli soffre con animo veramente forte, mi stringono a lui più fortemente, e mi servono di un grande esempio. Oh Giulia, Giulia! non è così rara in Italia la virtù come tu pensi!»
E finisce con queste parole che mai non rileggiamo senza un fremito di dolore e di speranza: «Giulia, Alessandro, ci rivedremo certamente. Un giorno, superiori all’umano orgoglio, beati e puri ragioneremo sorridendo delle passate nostre debolezze. Addio.»
Oh sì! ci rivedremo. Se questa speranza non raddolcisse il desiderio dei buoni e l’orrore della presenza dei perversi, che sarebbe la vita?
Calderari, noi siamo afflitti di non poter essere con te. Tu sei degno d’aver degli amici, e in noi troveresti del cuore, quello di cui tu hai bisogno.
Non posso scrivere a Pagani. Egli pure deve essere conturbato.
In verità la morte di un amico nel fior degli anni vi lascia, oltre il dolore, un certo risentimento; pare un’orribile ingiustizia. Addio, caro ed infelice Calderari, amami e scrivi. Addio.
- «Il tuo
- »manzoni B.ª»
- ↑ «Buttura Antonio (scrive il Romussi) buon critico e poeta, nato a Malcesine sul Lago di Garda nel 1771, partigiano della Repubblica francese a Venezia, epperciò favorito da Napoleone, si trasferì, dopo il Trattato di Campoformio, a Parigi, dove morì nel 1832. Fu professore al Pritaneo di San Ciro ed all’Ateneo, dove successe al Ginguené; la traduzione del Boileau, di cui parla il Manzoni (in una sua lettera del 1806), fu pubblicata nel 1816.»