< Alessandro Manzoni - studio biografico
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Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821 - Il Cinque Maggio.
Capitolo XVI Capitolo XVIII

XVII.


Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821.
Il Cinque Maggio.


Ho promesso di discorrere finalmente de’ Promessi Sposi; ma, cosa che parrà alquanto singolare, questi non s’intendono bene se prima non rileggiamo insieme le strofe del Marzo 1821 ed il Cinque Maggio. Ho detto rileggiamo, ma io temo pur troppo che le prime non solo alla maggior parte de’ lettori stranieri, ma ad un gran numero di lettori italiani non siano note affatto; e le doveva ignorare il Settembrini, quando, con improvvida leggerezza, lanciava al Manzoni l’accusa di essere stato il poeta della reazione. Le conosceva invece benissimo e le faceva gustare vivamente al pubblico affollato di Zurigo nell’anno 1856 l’illustre critico Francesco De Sanctis, conchiudendone la lettura concitata con queste belle parole: «Non è una Marsigliese, neppure una poesia del Berchet, potentissimo de’ nostri poeti patriottici. Ne’ versi di costui sentite una certa profondità di odio che spaventa, la tristezza dell’esiglio, l’impazienza del riscatto, ed un tale impeto e caldo di azione che talora vi par di sentire l’odore della polvere ed il fragore degli scoppi; qui è il suo genio. La poesia del Manzoni non è solo un inno di guerra agl’Italiani, ma un richiamo a tutte le nazioni civili; la parola del poeta è indirizzata agl’Italiani ed ai Tedeschi insieme. In tanta concitazione di animi non gli esce una sola parola di odio, di vendetta, di bassa passione; lontano parimente da ogni iattanza, non vi è il fremito e la spuma della collera, ma la quieta temperanza di un’anima virile.» Ma questa bellissima tra le liriche manzoniane fu il meno fortunato de’ suoi componimenti; nato nel marzo del 1821, allo scoppiar della rivoluzione torinese, quando s’attendeva da un giorno all’altro che l’esercito liberatore piemontese varcasse il Ticino, compresso dalle armi del Bubna e del Latour ogni moto rivoluzionario in Piemonte, rimase nascosto fino al giugno dell’anno 1848, quando la rivoluzione lombarda non solo era già scoppiata, ma ferveva calda e vivissima la pugna fra gl’Italiani e gli Austriaci. Prostrata nuovamente ogni speranza italiana, tornò a nascondersi in Lombardia fino all’anno 1859, e solo fece capolino nella Rivista Contemporanea dell’anno 1856, dopo che il De Sanctis l’ebbe recitata a Zurigo.

Nel 1859 si ristampò, ma oramai come una poesia già vecchia, divenuta rara, non già come una lirica viva, eloquente, e piena di affetti vigorosamente italiani. Così essa tornò a dimenticarsi, e non si trova ancora, ch’io sappia, in alcuna nelle nostre antologie poetiche.1 E pure mancò poco che per essa il Manzoni non rischiasse il capo, quando si pensi che per assai meno si empirono di generosi patriotti italiani le carceri di Gradisca e dello Spielberg.

È noto come il Confalonieri, quando in attesa de’ Piemontesi si ponevano già dai congiurati lombardi del 1821 le prime basi di un Governo provvisorio, abbia pregato l’amico suo Manzoni di adoprare i suoi buoni amici presso il canonico Sozzi di Bergamo, affinchè questi si disponesse a prendervi parte; il Sozzi fu abbastanza avveduto per rispondere: «Vengano prima e allora ci troveranno tutti pronti.» Nel processo il Confalonieri ebbe il torto di parlar troppo e nominò pure, quasi a propria scusa, il Sozzi fra i membri designati al futuro Governo provvisorio; un commissario di Polizia si recò prontamente presso il canonico; ma questi, evitando a studio di nominare il Manzoni, si strinse soltanto nelle spalle, dichiarando semplicemente che al Confalonieri egli non avea parlato mai e che non era mai nè pure passata fra loro alcuna lettera; il che era vero; così il Manzoni per quella volta fu salvo, ma il pericolo corso fu assai grande e gli dovette porre nell’animo un vivo sgomento. Il Confalonieri, che aveva il difetto di parlar troppo, sapeva a memoria le tremende strofe manzoniane per la rivoluzione piemontese del marzo e, se avesse parlato, il Manzoni era perduto. Quindi il Manzoni si ritrasse, in que’ giorni pieni di sospetti e di denuncie, da Milano a Brusuglio, ove per tutto il tempo che durarono i processi politici, non cessò di temere. Non mai la poesia politica italiana aveva spiccato il suo volo così alto. Vi è una grande serenità e tranquillità in tutto l’Inno; ma quella pace sarebbe stata tanto più minacciosa ai tedeschi dominatori, se allora essi avessero potuto prenderne notizia. Col dedicarla poi nell’anno 1848 a Teodoro Koerner, il Manzoni che, come s’è detto, avea avuto la fortuna d’essere stato compreso e consacrato dal Goethe,2 volle fare intendere alla Germania che egli sapeva distinguere il popolo tedesco da’ suoi Governi tirannici; ben disse dunque il Carcano che quella dedicatoria era omaggio insieme e rimprovero alla nobile nazione che ci calpestava. Il ritrarsi del Manzoni a Brusuglio, se fu consiglio di prudenza domestica, non fu già una viltà civile. Egli non faceva all’Austria alcuna concessione. Egli non le abbandonava nulla. Egli avea cessato di sperare nell’opera immediata della rivoluzione, quindi ritirava il suo Inno per riserbarlo a tempi migliori. Ma intanto continuava a protestare, e dolersi del presente, a custodire tutte le sue speranze patriottiche dell’avvenire. La rivoluzione piemontese era fallita; di là dunque per il momento non c’era da attendere altro. Ma nessuno ebbe una fede più viva del Manzoni nell’opera del tempo. Ed egli continuò a scrivere anche ne’ giorni più desolati come un uomo che spera. Sentì e si persuase che egli non era fatto per cospirare, che la parte anche piccolissima da lui, quantunque inettissimo, presa alla congiura del Confalonieri non era adatta al suo temperamento; ma sentì che come scrittore, col permesso della Censura, la quale non avrebbe capito ogni cosa e approvato molte cose che non capiva, egli avrebbe ancora potuto fare un gran bene. Egli mostravasi ossequente alla censura; ne accettava tutti i tagli, bene persuaso che ciò che sarebbe rimasto sarebbe bastato a far penetrare il suo pensiero. Così sappiamo ora che la Censura austriaca fece parecchi tagli nell’Adelchi. Il Manzoni, specialmente quando egli scriveva il Discorso storico, ne’ Longobardi raffigurava non già i Lombardi, ma la stirpe germanica, i Tedeschi, gli Austriaci. Il Giannone avea scritto che la signoria de’ Longobardi doveva ormai risguardarsi come una signoria nazionale, perchè dominante in Italia da oltre due secoli; il Manzoni, in quegli anni, ne’ quali la Grecia si agitava per la sua guerra d’indipendenza, demandava semplicemente se non fossero pure stranieri i Turchi in Grecia, benchè vi dominassero da tre secoli. La Censura soppresse quel brano. Quattro altri bei versi, ne’ quali il giovine Adelchi, supplicando il padre a far la pace con papa Adriano, parlava dell’attitudine degli oppressi Latini, ossia degli oppressi Italiani:

Di questa plebe che divisa in branchi,
     Numerata col brando, al suol ricurva,
     Ancor dopo tre secoli, siccome
     Il primo dì, tace, ricorda o spera,


furono pure sacrificati. Così, nel Coro dell’Adelchi, scritto dopo che fallì la rivoluzione piemontese del 1821, tra gli altri versi vennero soppressi questi, ove l’Autore si rivolgeva agl’Italiani:

Stringetevi insieme l’oppresso all’oppresso,
     Di vostre speranze parlate sommesso.


Ma il censore che si credeva furbo, lasciò passare nello stesso Coro questi altri versi, ove il volgo latino vedendo arrivare i Franchi guerrieri (si legga Buonaparte coi Francesi),

                      rapito d’ignoto contento,
     Con l’agile speme precorre l’evento,
     E sogna la fine del duro servir.


I Franchi, ossia i Francesi, arrivano contro i Longobardi, ossia contro i Tedeschi di Lombardia, contro gli Austriaci; ma, invece di liberare, portano in Italia una nuova tirannide, la tirannide napoleonica; e il censore si contenta che l’ultima strofa del Coro manzoniano dica così:

Il forte si mesce col vinto nemico,
     Col novo signore rimane l’antico;
     L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
     Dividono i servi, dividon gli armenti,
     Si posano insieme su i campi cruenti
     D’un volgo disperso che nome non ha.


Era un canto di dolore, che dovea seguire naturalmente a quello tutto fiducioso che, nel marzo 1821, il Manzoni stesso avea composto, quando i congiurati lombardi aspettavano con ansia le novelle che l’esercito rivoluzionario piemontese avea passato il Ticino. Ma il censore non capì intanto che era l’Austria la rea progenie,

     Cui fu prodezza il numero,
     Cui fu ragion l’offesa,
     E dritto il sangue, e gloria
     Il non aver pietà,


e che con quelle parole il Manzoni vendicava finalmente nel 1822 i martiri piemontesi e lombardi della libertà italiana. Dopo il 1821, il Manzoni fece della Censura austriaca la propria alleata, per divulgare i suoi pensieri patriottici; prima di quel tempo, aveva, invece, anch’esso, se bene inutilmente, cospirato un poco. Ne’ Cento Giorni, quando si temeva in Italia una nuova ristorazione della tirannide napoleonica, il Manzoni aveva, fra il 23 aprile e il 12 maggio 1814, composta una Canzone che si conserva inedita a Milano, diretta contro la signoria francese in Italia. Ne reco qui, per saggio, la prima strofa, la quale mi pare abbastanza significante pel suo particolare sapore manzoniano:

Fin che il ver fu delitto, e la menzogna
     Corse gridando, minacciosa il ciglio,
     Io son sola che parlo, io sono il vero,
     Tacque il mio verso e non mi fu vergogna.
     Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
     Che non è sola lode esser sincero,
     Nè rischio è bello senza nobil fine.
     Or che il superbo morso
     Ad onesta parola è tolto alfine,
     Ogni compresso affetto al labro è corso;
     Or si udrà ciò che sotto il giogo antico
     Sommesso appena esser potea discorso
     Al cauto orecchio di provato amico.


Dopo il 1822, il Manzoni giudicò cosa più prudente e più pratica il confidarsi tutto all’ignoranza de’ suoi censori. Quando il 5 maggio 1821 morì Napoleone, il nostro Poeta si trovava a Brusuglio. Parve a sua madre che quella morte sarebbe stata degno soggetto di un suo canto. Il Manzoni si raccolse brevemente in sè stesso, e bastarono sole ventiquattro ore ad ispirargli una delle più belle liriche del nostro secolo, nella quale il soggetto epico trae pure calore lirico dalle impressioni stesse che il poeta aveva ricevute nella sua gioventù alla vista di Napoleone. Lo Stoppani ci ha fatto noto che il verso del Cinque Maggio, ove si rappresenta il modo terribile, con cui il primo Napoleone poteva talora guardare:

Chinati i rai fulminei,


risale ad una impressione ricevuta dal Manzoni giovinetto al Teatro della Scala. Dopo la battaglia di Marengo il Buonaparte era venuto a Milano più da padrone che da liberatore: entrò una sera in teatro, e scorse in un palco la contessa Cicognara, nemica implacabile che non gli perdonava l’ignobile mercato di Venezia. Incominciò a puntare gli occhi sopra di lei, quasi per fulminarla, e per tutta la sera non si rimosse. «Che occhi! (diceva il Manzoni, il quale stava nel palco della Contessa), che occhi aveva quell’uomo!» e richiesto se potesse esser vero che quegli occhi gli avessero suggerito il noto verso, rispose: «Proprio così, proprio così.» Il Buonaparte gli aveva lasciato certamente per questo ricordo e per altri consimili una forte, viva e profonda impressione. Al poeta Longfellow, che, in una sua visita al Manzoni, avvertiva la Impossibilità, nella quale egli si era trovato di render convenientemente in inglese tutte le bellezze di quell’Inno straordinario, il Manzoni con la sua solita originalità ed arguzia, pur facendosi tutto rosso in viso, rispondeva: «Dio buono! Era il morto che portava il vivo!» Il Manzoni era, del resto, sinceramente persuaso che si fosse un poco esagerato il merito del proprio componimento, a cui fu senza dubbio non piccola gloria e pari fortuna l’essere stato proibito dalla Polizia austriaca, tradotto in tedesco dal Goethe, imitato in francese dal Lamartine.3 L’Austria aveva tosto riconosciuto nel Cinque Maggio del Manzoni un omaggio troppo splendido al suo temuto nemico, che pareva come evocato dal suo sepolcro, in quelle strofe potenti. Non ne permise la stampa; ma il Manzoni ebbe l’accorgimento di presentarne alla Censura due esemplari: un esemplare il censore tenne gelosamente presso di sè; dell’altro esemplare non prese alcuna cura; ed il caso volle che andasse smarrito negli stessi ufficii di Polizia, o sia che qualche impiegato lo trafugasse e trafugato lo divulgasse; onde il Manzoni poteva poi dire con la sua consueta maliziosa bonarietà, ch’egli il Cinque Maggio non l’aveva proprio stampato mai, non avendone mai avuto il tempo, poichè quella Polizia che ne avea proibita la stampa, si era essa data briga di farlo divulgare, tanto che usci la versione tedesca del Goethe prima che ne fosse conosciuta alcuna edizione italiana. Ogni grande scrittore ha nella sua vita il suo momento epico; il Manzoni lodato dal Goethe che canta Napoleone, dovette sentire tutta la potenza del suo genio poetico, e ch’egli, in quel punto, dominava veramente le altezze:

Lui sfolgorante in soglio
Vide il mio genio e tacque.


L’io Manzoniano qui appare potente come in quei forse già da me notato, forse più ambizioso di qualsiasi più audace affermazione:

E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.


Il Cinque Maggio è il degno epilogo poetico di una grande epopea storica, tanto più grande e più eloquente in bocca d’un poeta che poteva, con fiero e legittimo orgoglio, quasi unico tra i poeti italiani e francesi del suo tempo, dirsi innanzi alla memoria di Napoleone

Vergin di servo encomio,
E di codardo oltraggio,


quantunque la notizia che abbiamo ora di una Canzone antinapoleonica, non codarda certamente e non oltraggiosa, ma pure scritta dal Manzoni, quando il colosso napoleonico non lo poteva più ferire, scemi una parte dell’efficacia potente che avevano que’ due mirabili versi.4

  1. Mi giova qui pertanto rimetterla sotto gli occhi de’ lettori nella sua integrità:


    MARZO 1821

    all’illustre memoria
    DI TEODORO KOERNER
    poeta e soldato
    della indipendenza germanica,
    morto sul campo di lipsia
    il giorno xviii d’ottobre mdcccxiii
    nome caro a tutti i popoli
    che combattono per difendere o per riconquistare
    una patria


    ode

    Soffermati sull’arida sponda,
         Volti i guardi al varcato Ticino,
         Tutti assorti nel novo destino,
         Certi in cor dell’antica virtù,
              Han giurato: non fia che quest’onda
         Scorra più tra due rive straniere;
         Non fia loco, ove sorgan barriere
         Tra l’Italia e l’Italia, mai più!
    L’han giurato; altri forti a quel giuro
         Rispondean da fraterne contrade,
         Affilando nell’ombra le spade


         Che or levate scintillano al Sol.
              Già le destre hanno strette le destre;
         Già le sacre parole son porte:
         O compagni sul letto di morte,
         O fratelli su libero suol!
    Chi potrà della gemina Dora,
         Della Bormida al Tanaro sposa,
         Del Ticino e dell’Orba selvosa
         Scerner l’onde confuse nel Po;
              Chi stornargli del rapido Mella,
         E dell’Oglio le miste correnti,
         Chi ritogliergli i mille torrenti
         Che la foce dell’Adda versò;
    Quello ancora una gente risorta
         Potrà scindere in volghi spregiati,
         E a ritroso degli anni e dei fati
         Risospingerla ai prischi dolor:
              Una gente che libera tutta,
           O fia serva tra l’Alpe ed il mare,
         Una d’arme, di lingua, d’altare,
         Di memorie, di sangue e di cor.
    Con quel volto sfidato e dimesso,
         Con quel guardo atterrato ed incerto,
         Con che stassi un mendìco sofferto
         Per mercede nel suolo stranier,
              Star doveva in sua terra il Lombardo;
         L’altrui voglia era legge per lui;
         Il suo fato un segreto d’altrui;
         La sua parte servire e tacer.
    O stranieri, nel proprio retaggio
         Torna Italia, e il suo suolo riprende;
         O stranieri, strappate le tende


         Da una terra che madre non v’è.
              Non vedete che tutta si scote
         Dal Cenisio alla balza di Scilla?
         Non sentite che infida vacilla
         Sotto il peso de’ barbari piè?
    O stranieri! sui vostri stendardi
         Sta l’obbrobrio d’un giuro tradito:
         Un giudizio da voi proferito
         V’accompagna all’iniqua tenzon:
              Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
         «Dio rigetta la forza straniera;
         Ogni gente sia libera, e pêra
         Della spada l’iniqua ragion.»
    Se la terra, ove oppressi gemeste,
         Preme i corpi de’ vostri oppressori,
         Se la faccia d’estranei signori
         Tanto amara vi parve in quei dì;
              Chi v’ha detto, che sterile, eterno
         Sarìa il lutto dell’itale genti?
         Chi v’ha detto che ai nostri lamenti
         Sarìa sordo quel Dio che v’udì?
    Sì, quel Dio, che nell’onda vermiglia
         Chiuse il rio che inseguiva Israele,
         Quel che in pugno alla maschia Giaele
         Pose il maglio ed il colpo guidò;
              Quel che è Padre di tutte le genti,
         Che non disse al Germano giammai:
         "Va, raccogli ove arato non hai;
         Spiega l’ugne, l’Italia ti do."
    Cara Italia! dovunque il dolente
         Grido uscì del tuo lungo servaggio,
         Dove ancor dell’umano lignaggio


         Ogni speme deserta non è;
              Dove già libertade è fiorita,
         Dove ancor col segreto matura,
         Dove ha lagrime un’alta sventura,
         Non c’è cor che non batta per te.
    Quante volte sull’Alpi spiasti
         L’apparir d’un amico stendardo!
         Quante volte intendesti lo sguardo
         Ne’ deserti del duplice mar!
              Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
         Stretti intorno a’ tuoi santi colori,
         Forti, armati de’ propri dolori,
         I tuoi figli son sorti a pugnar.
    Oggi, o forti, sui volti baleni
         Il furor delle menti segrete;
         Per l’Italia si pugna, vincete!
         Il suo fato sui brandi vi sta.
              O risorta per voi la vedremo
         Al convito de’ popoli assisa,
         O più serva, più vil, più derisa
         Sotto l’orrida verga starà.
    O giornate del nostro riscatto!
         O dolente per sempre colui
         Che da lunge, dal labbro d’altrui,
         Come un uomo straniero le udrà!
              Che a’ suoi figli narrandole un giorno
         Dovrà dir, sospirando: «Io non v’era;»
         Che la santa vittrice bandiera
         Salutata in quel dì non avrà.


    Notiamo, tuttavia, come ci sembri molto probabile che l’ultima strofa sia stata composta dal Manzoni tra il poetico furore delle Cinque gloriose Giornate di Milano.

  2. Un opuscolo tedesco intitolato: Interesse di Goethe per Manzoni fu tradotto per cura dell’Ugoni in italiano. Ma alle notizie contenute in quell’opuscolo conviene premettere le poche parole che si trovano negli Annalen del Goethe, le quali non mi ricordo che siansi finqui citate dai biografi del Manzoni, neppure del Sauer. Raccogliendo dunque il Goethe nella memoria i casi principali della sua vita, nell’anno 1820, scriveva: «Quanto alla letteratura straniera, io m’occupai del Conte di Carmagnola. L’amabilissimo autore Alessandro Manzoni, un poeta nato, per avere infranta la legge di unità di luogo, fu da’ suoi concittadini accusato di romanticismo, sebbene de’ vizii di questo non se ne sia appigliato alcuno a lui. Egli s’attenne al procedimento storico; la sua poesia prese un carattere interamente umano; e sebbene egli indugi poco nelle metafore, i suoi voli lirici divennero gloriosi come gli stessi critici malevoli furono costretti a riconoscere. I nostri buoni giovani tedeschi potrebbero vedere in lui un esempio per mantenersi naturalmente in una semplice grandezza; ciò servirebbe forse a trattenerli da ogni falso trascendentalismo.» L’anno seguente, negli stessi Annalen, il Goethe scriveva che dall’Italia aveva ricevuta l’Ildegonda del Grossi, ove doveva ammirare molte cose, senza essersi tuttavia potuto formare un concetto pieno e preciso del lavoro; e soggiungeva: «Perciò tanto più gradito mi riesce il Conte di Carmagnola, tragedia del Manzoni, un vero e schietto poeta, che concepisce chiaramente, che va a fondo delle cose, o che sente umanamente.» L’articolo del Goethe nel giornale: Ueber Kunst und Alterthum, si compendiava in queste parole: «Noi non abbiamo trovato nel suo dramma un solo passo, ove avremmo desiderata una parola di più o di meno. La semplicità, la forza e la chiarezza sono nel suo stile fuse indissolubilmente, e, per questo riguardo, non ci periteremo di definire come classico il suo lavoro.»
  3. Dopo aver letto il Cinque Maggio, il Lamartine ne aveva scritto così al suo amico De Virieu: «J’ai été bien plus satisfait que je ne m’y attendais de l’ode de Manzoni; je faisais peu de cas de sa tragédie (Il Conte di Carmagnola); son ode est parfaite. Il n’y manque rien de tous ce qui est pensée, style et sentiment; il n’y manque qu’une plume plus riche et plus éclatante en poésie. Car, remarque une chose, c’est qu’elle est tout aussi belle en prose et peut-être plus; mais n’importe; je voudrais l’avoir faite.» Quest’ultima confessione, in bocca del Lamartine, vale quanto il più splendido elogio.
  4. In un articolo intitolato: Storia dei maneggi letterarii in tempo del dominio di Buonaparte, inserito, alla caduta del primo Impero, nel secondo numero del giornale Lo Spettatore, leggiamo cho parecchi del così detto partito filosofico che manteneva idee repubblicane e però avverse a qualsiasi tirannide, finirono con far la corte al primo Console e poi all’Imperatore. Il poeta Lebrun riguardava come soverchia degnazione, come una discesa, il sedersi del Buonaparte sul trono dei re:

    Et l’heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
    Jusqu’au trône des rois.


    Il poeta Chénier, pel suo Ciro, riceveva una pensione di seimila franchi. Non mancarono i poeti genealogisti. L’Esmenard, per esempio, faceva discendere il Buonaparte da un Baldus re degli Ostrogoti, e lo fingeva parente del re di Svezia Gustavo IV. «Il padrone disgradò la ridicola adulazione, non fece alcun caso di quell’ostrogoto lignaggio, e nobilmente dichiarò che la famiglia Buonaparte incominciava dal 18 brumaio, êra di salute per la Francia. Pure il poeta genealogista, sulle prime fischiato, dopo due o tre anni ricavò frutto dalla sua cortigianeria.» Nell’elogio del Viennet proferito all’Accademia francese dal conte di Haussonville, troviamo che il Viennet repubblicano avea risposto all’Esmenard con un’Epistola, ov’era questa strofa:

    J’estime tes aïeux, mais j’aime mieux te voir
    Être grand par toi-même, et ne leur rien devoir.
    La France, en t’elevant au trône de ses maîtres,
    A compté tes hauts faits, et non pas tes ancêtres.


    Dicono che l’Imperatore, pur ignorandone l’autore, abbia molto gradito l’Epistola, e siasi esso stesso preso la briga di divulgarla. Quanti fatti consimili avrà avuto occasione di notare e però di ricordare il giovine Manzoni in Francia ed in Italia, e quanto disgusto deve egli aver provato alla caduta di quel Grande, nel vederlo indegnamente insultato da quegli stessi che l’avevano maggiormente esaltato! Il Rosini, ne’ suoi Cenni di Storia contemporanea (Pisa, 1851), dice del Buonaparte console com’egli «nelle sue prime campagne in Italia onorò gl’ingegni dei viventi e dei trapassati, come una festa solenne celebrar fece per Virgilio, come un’altra egli ne promosse pel trasporto delle Ceneri dell’Ariosto, come una Iscrizione ordinò d’apporre sulla porta della casa, dove abitò Corilla in Firenze, come fondar fece una cattedra di Letteratura dalla Nazione israelitica, per farne grazia al loro poeta (Salomone Fiorentino), e come finalmente, volendo conoscer di persona l’Alfieri, e ributtato da lui, gli rispondesse non già come appare dalla Vita di quello (anno 1800, cap. 28), ma, per quanto allor se ne disse, precisamente così: — Aveva letto le vostre opere, e aveva desiderato di conoscervi; ho letto il vostro biglietto e me n’è passata la voglia. — » Ma il Buonaparte fece destituire il Cicognara, consigliere di Stato in Milano, per aver accettata la dedicazione de’ versi del poeta Ceroni Mantovano, il quale sotto il nome di Timone Cimbro lamentava la caduta e il destino della Repubblica di Venezia. Secondo il Cantù (Cronistoria dell’Indipendenza italiana) deve attribuirsi al Ceroni il Sonetto che incomincia:

    Tinse nel sangue de’ Capeti il dito
         Il ladron Franco; e, di sue fraudi forte,
         Vincitor scese nell’ausonio lito,
         Ebbro gridando: Libertade o morte.


    E finisce:

    Che più? fra noi seder dee un Gallo in trono?
         Ahi! se cangiar tiranno è libertade,
         O terra, ingoia il donatore e il dono.


    In un breve scritto di Giovanni Rosini: Sugli Epistolari del Cesarotti e del Monti, trovo intorno al Cicognara questa notizia: «Tornato in questo tempo in Milano e creato Consigliere di Stato, co’ nobili suoi modi e col suo bell’ingegno a sè attirava gli sguardi dell’universale il conte Leopoldo Cicognara, e insieme con lui, anzi, come è più naturale, al disopra di lui, la bella, colta ed animosa sua consorte. Col cuore sempre vòlto a compiangere la caduta e il destino della veneta Repubblica, sua cara patria, ella fece gran plauso a certi versi del poeta Ceroni Mantovano, che trattavano quell’argomento e che furon letti, per quanto mi venne riferito, tra un gran numero di convitati, a pranzo da lei. Per l’arditezza dei sentimenti levaron grido, e mentre alcuni se ne ripetevano imparati a memoria, pochi giorni appresso comparvero stampati colla intitolazione: Versi di Timone Cimbro a Cicognara. Colui che comandava in Milano le armi francesi, partir fece un giandarme, che, cambiatosi di brigata in brigata, recò velocissimamente i Versi a Napoleone, il quale colla stessa sollecitudine ordinò la destituzione del Cicognara, e la sua cacciata da Milano. Allora fu che riparossi in Toscana, dove si diede a continuar lo studio delle Belle Arti, che gli affari politici gli avevano fatto interrompere. Ma la Contessa rimase in Milano.»

    Il Monti, invece, del primo Console cantava:

                                             L’anima altera,
    Che nel gran cor di Bonaparte brilla,
    Fu dell’italo Sole una scintilla;


    poi volgendosi al Console stesso per rappresentargli le miserie d’Italia, aggiungeva:

                                                  Vedi che, priva
    Del Creator tuo sguardo, appena è viva.


    Il poeta Lodovico Savioli, nel 1803, salutava in Napoleone «il guerrier della vittoria alunno;» Luigi Lamberti «l’eroe dei Numi amor,» e infine esclamava:

    Fondar popoli e far con sante leggi
    La virtute reina e il vizio domo,
    Impresa è sol d’immortal Nume, o d’uomo
                Che a Nume si pareggi.


    Il poeta Veneto Buttura diceva da Venezia a Napoleone:

    Sull’indegne mio piaghe affisa il ciglio,
    Vien, vinci, abbatti i coronati mostri;
    E rendi a te la gloria, a me la vita.


    Son note le basse adulazioni del Cesarotti, autore della Pronea, che parlava in versi a Napoleone, dicendo:

    Parlo in prosa ai mortali, in versi ai Numi.


    Il Foscolo non inneggiò a Napoleone, ma non fu insensibile alle grazie della vice-regina Beauharnais:

                                          Novella speme
    Di nostra patria, e di sue nuove grazie
    Madre e del popol suo, bella fra tutte,
    Figlia di regi, e agli Immortali amica


    Un’Ode del Crocco scritta per la Nascita del Re di Roma e citata dal Cantù, cantava:

    Si scosse il Tebro, lo squallor depose
    Roma, rinata allo splendor dal soglio,
    Ed alla maestà si ricompose
                                     Del prisco orgoglio.
    Brillò limpido il Sol, di repentina
    Gioia su i sette Colli alzossi un grido,
    E più superba l’aquila latina
                                     Uscì dal nido.


    Il Gagliuffi voltava in distici latini il Codice napoleonico. Il Monti aveva celebrato nel vincitore di Marengo il liberatore d’Italia:

    Il giardino di Natura
    No, pei barbari non è.


    Ma nella sua visione presentendo in Napoleone l’ambizione di diventar Sovrano, gli fa consigliar da Dante d’impadronirsi della signoria


                                          Vate non vile
    Scrissi allor la veduta meraviglia
    E fido al fianco mi reggea lo stile
    Il patrio amor che solo mi consiglia.


    Nel tempo stesso scriveva al Cesarotti: «Il Governo mi ha comandato e m’è forza obbedire. Batto un sentiero, ove il voto della Nazione non va molto d’accordo colla politica, e temo rovinare. Sant’Apollo m’aiuti, e voi pregatemi senno e prudenza.»

    Lo stesso Monti dedicando la traduzione dall’Iliade al Beauharnais che gli avea ottenuto il posto di storiografo del Regno d’Italia, scriveva nella dedicazione: «Se il cielo, invidiandovi ai nostri giorni, vi avesse concesso agli eroici, Omero vi avrebbe collocato vicino ad Achille fra Patroclo e Diomede. Noi, testimoni delle vostre alte virtù, vi collochiamo in grado più d’assai eminente; tra Minerva ed Astrea, vicino al massimo vostro Padre.»   Napoleone tuttavia si doleva di avere per sè tutta la piccola e contro di sè tutta la grande letteratura.
      Non mancò a Napoleone il suo improvvisatore imperiale, Francesco Gianni, che, pensionato con seimila franchi l’anno, cantava:

    Quell’eroe terribil tanto,
    Onde Ettor di vita uscì,
    In due lustri non fe’ quanto
    Bonaparte in un sol dì.


      Il Mascheroni prima di morire scriveva al Serbelloni: «Vi prego dire a Buonaparte ch’egli è in cima di tutti i miei pensieri,» e gli dedicò la Geometria del Compasso. «Egidio Petroni, perugino (scrive il Cantù nella Cronistoria), oltre altri componimenti, fece la Napoleonide, collezione di cento Odi, ciascuna preceduta da una medaglia incisa, celebranti i fasti dell’Eroe.» Tra i lodatori del Buonaparte, il Cantù ricorda ancora Quirico Viviani, Giulio Perticari, Carlo Porta, Saverio Bettinelli, Paolo Costa, Cesare Arici, Felice Romani, Davide Bertolotti, Mario Pieri che d’aver lodato si pentì troppo tardi, Angelo mazza. «Il divinizzare Napoleone (scrive ancora il Cantù) fu un luogo comune dei nostri retori. Nell’Università di Padova, dinanzi al suo busto, il Rettore magnifico conchiuse l’orazione; — Veneriamo, o signori, la presenza del Nume. -» Il Giordani nel Panegirico, dove si vanta di «altamente sentire la dignità del secolo,» ribocca di espressioni simili a queste: «Il mondo è venuto in potestà di tale, non oso dir uomo. Invitando gl’Italiani a considerare le grandezze de’ tuoi benefizii, augusto Principe, in cui la nostra nazione adora il più caro benefizio che riconosca dall’Imperatore in Italia. Quale altro che Iddio, o virtù somiglievole agli Dii, poteva fare sì stupenda consonanza? La virtù di questo divino spirito non ci lascia sembrar temeraria qualunque speranza.» Nello stesso Panegirico il Giordani chiama Napoleone «l’Ottimo e Massimo,» e loda Cesena di fare ogni anno riaprire l’Accademia con le lodi del Buonaparte, egli che più tardi biasimò poi l’uso dell’Università di Torino di lodare ogni anno il Re di Sardegna.

Note

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