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XVIII.
I Promessi Sposi furono qualche cosa d’impreveduto e di singolare, non pure nella letteratura italiana, ma nella vita stessa del Manzoni. Per quanto i Cattolici abbiano desiderato farne il loro proprio romanzo, nessuno avrebbe mai immaginato che dalle mani dell’Autore degl’Inni Sacri e delle Osservazioni sulla Morale cattolica sarebbero usciti i tipi di Don Abbondio e della Signora di Monza.
Come intorno alla conversione religiosa, furono fatte e scritte parecchie congetture intorno alla vera origine dei Promessi Sposi. Pare che, nel primo concetto, il soggetto principale del romanzo dovesse essere la conversione dell’Innominato; e ci vuol poca fatica a indovinare da quella scelta, che il Manzoni voleva ancora col proprio romanzo adombrarci un episodio della propria vita. Secondo il Sainte-Beuve, l’idea di eleggere la forma del romanzo sarebbe venuta al Manzoni dall’intendere che in quel tempo il Fauriel meditava anch’esso un romanzo storico, del quale pare che la scena dovesse collocarsi in Provenza.1 Ma poichè l’affermazione del Sainte-Beuve mi pare alquanto vaga o non è probabile che il Manzoni abbia fatto un romanzo solamente perchè il Fauriel ne volea fare un altro, ma più tosto si crederebbe vero il contrario, cioè che il Fauriel trovandosi a Brusuglio, quando il Manzoni avea già terminato e stava correggendo i Promessi Sposi, potesse pensare esso a qualche cosa di simile, gioverà ricorrere ad altre spiegazioni.
Camillo Ugoni, che poteva forse averne avuto alcun sentore in casa stessa del Manzoni che lo amava e stimava moltissimo, lasciò scritto nella sua Biografia del Filangieri, che l’idea di eleggere ad un suo lavoro educativo la forma di romanzo venne al Manzoni dal leggere un passo della Scienza della Legislazione del Filangieri, ove si raccomanda come ottima lettura educatrice ai fanciulli, che entravano nel decimo anno, i romanzi storici.2 La congettura dell’Ugoni mi pare avere qualche grado probabile, in quanto che, nell’anno in cui il Manzoni incominciò a scrivere i Promessi Sposi cioè nel 1821 (e non dopo pubblicato l’Adelchi, come afferma il Sainte-Beuve), la sua figlia primogenita Giulia avea per l’appunto undici anni, e il figlio Pietro dieci. Alieno com’egli era dal mandare i figli a scuola, dopo il duro esperimento che della scuola aveva fatto egli medesimo, il Manzoni dovette, senza dubbio, desiderare di potere scrivere, se gli riusciva, prima d’ogni cosa, un buon romanzo storico, che in Italia non esisteva pur troppo, per i suoi proprii figliuoli. E mi reca meraviglia che tra le tante cagioni astruse che s’andarono a cercare per chiarirsi come il Manzoni si fosse indotto a scrivere un romanzo, quest’una così ovvia, così semplice, non siasi ancora indicata. Il Manzoni, come ho già avvertito, era un lettore e un postillatore di libri infaticabile; la biblioteca di Don Ferrante dovea, per la varietà, somigliare alcun poco alla sua. Egli era dell’opinione non molto comune, o almeno poco ascoltata, che i libri si stampassero per venir letti; e leggeva di tutto; di storia e di poesia, di teologia e di filosofia, di agronomia e di giurisprudenza; e di tutto facea tesoro nella sua memoria prodigiosa, e succo di vera sapienza più ancora che di semplice dottrina. Egli discorreva volentieri coi libri che leggeva come se fossero persone vive, ed entrava volentieri con essi in segreta e minuta polemica, quando gli pareva che sragionassero. Altre volte egli se ne lasciava inspirare, e questo fu appunto il caso che gli dovette occorrere prima di scrivere i Promessi Sposi.
Quando il Manzoni ebbe letto in uno Studio biografico del tedesco Sauer, per quali ragioni artistiche, politiche, religiose, egli si fosse condotto a scrivere i Promessi Sposi, accompagnando le parole con un arguto sorriso, sclamò: Cospetto! questo signore deve essere un gran dotto, perchè di me e delle cose mie ne sa assai più che non ne sappia io. E, dopo aver dichiarato che di quelle intenzioni sotterranee, sintetiche, subbiettive o che so io egli non ne avea avute mai, raccontò per la centesima volta ad uno de’ suoi amici presenti come l’idea del romanzo gli fosse nata a Brusuglio, dove egli avea per qualche tempo creduto cosa prudente il ritirarsi con Tommaso Grossi e con la famiglia, quando a Milano erano incominciati gli arresti de’ Carbonari. Egli s’era portato in campagna due libri: la Storia milanese del Ripamonti, scritta, com’è noto, in latino, ed un’opera del Gioia: Economia e Statistica. Il Ripamonti gli suggerì l’episodio che, fin dal principio, fissò in particolar modo la sua attenzione e poco mancò non diventasse il pernio di tutta l’opera; l’episodio dell’Innominato. Dal Gioia gli venne l’idea della inutilità delle leggi, quando queste non siano in armonia coi costumi, ed i legistatori rimangano stranieri al paese.3
È lecito il supporre che, prima di accingersi a scrivere i Promessi Sposi, il Manzoni siasi consigliato col suo confessore canonico Tosi; è lecito il supporre che, nel primo disegno, annunziando il Manzoni di voler narrare la conversione d’un reprobo alla fede, egli abbia incontrato un’approvazione piena ed assoluta.
L’Innominato che si convertiva pubblicamente nel cospetto del cardinal Federigo, era il Manzoni stesso che, dopo avere per dodici anni lottato per credere, annunziava finalmente che il canonico Tosi gli avea toccato il cuore, lo avea vinto e fatto cosa di Dio; era il Manzoni stesso che confessava, anzi esagerava ai proprii occhi ed agli altrui la sua antica empietà, per far più grande il miracolo della Chiesa, la quale avea avuto la virtù di attirarlo nel proprio seno. Chi cerca ora in qual modo il Manzoni siasi condotto a credere, non ha da fantasticar molto, ma semplicemente da rileggere con un po’ d’attenzione la scena commovente dell’incontro dell’Innominato col cardinal Federigo. Con pochissime mutazioni, si può sostituire al nome dell’Innominato quello del Manzoni, al nome del cardinal Borromeo quello di monsignor Tosi, con la sicurezza d’avere scritta ne’ Promessi Sposi la propria confessione autentica, ma trasformata, dissimulata ed ingrandita in opera d’arte, del poeta convertito.4 Aggiungiamo che, quando i Promessi Sposi si pubblicarono, il Tosi era già vescovo, e sarebbe forse stato assunto all’onore del cappello cardinalizio, senza quel po’ di giansenismo ch’era rimasto nella sua dottrina, e che dovea dispiacere alla Curia Romana quanto piaceva, invece, al Manzoni. Ciascuno che rilegga que’ capitoli de’ Promessi Sposi, e li confronti con la diligente biografia che di Luigi Tosi scrisse il professor Magenta, si persuaderà facilmente che il Manzoni innestò la figura del cardinal Federigo sopra quella del proprio santo confessore.
Ma ciò che da principio doveva essere l’intiero libro, diventò poi un semplice episodio di esso. Il Manzoni, riuscito, di giorno in giorno più, realista o verista nell’arte sua, desideroso di fare sopra il suo tempo, sopra la gioventù che doveva educarsi per mezzo della lettura, una impressione durevole e profonda, dopo aver concepito un alto e vasto poema, disegnò di scriverlo in prosa. Nel tempo in cui l’amico suo Tommaso Grossi venuto con lui a Brusuglio si provava a vestire di forme più popolari l’ottava epica, scrivendo il poema de’ Lombardi alla prima Crociata, il Manzoni intraprendeva una riforma più radicale. Egli era d’avviso che si dovesse pensare e sentir alto, ma scriver piano; e come Dante avea creata la lingua poetica italiana, il Manzoni, anco se non vi pretendeva, riuscì a fondare veramente la nuova prosa italiana. Si dirà; ma come? Il Foscolo ed il Monti non avevano forse preceduto il Manzoni? Sì, ma oltre che nessuno de’ due ha presentato all’Italia una prosa così ricca di fatti, di osservazioni, d’idee originali, di affetti veri e di tipi scolpiti come i Promessi Sposi, l’uno e l’altro scrisse sempre con un po’ di enfasi rettorica, con un po’ di pompa teatrale, che ad ogni lettore di buon senso, per poca che sia, deve sempre apparire soverchia. Il Manzoni dovea fin da giovinetto aver meditato il libretto del suo nonno Beccaria sopra lo Stile, un libretto scritto male, ma pensato bene;5 l’articolo del Verri intitolato: «Ai giovani d’ingegno che temono i Pedanti,» e i discorsi che si facevano contro l’Arcadia e contro la Crusca nell’Accademia, della quale l’Imbonati era stato presidente; ma, trovando poi giusto tutto ciò che si scriveva contro i parolai, gli Aristotelici della letteratura, i pedanti, i retori, egli credeva pure che si dovesse far qualche sforzo per mostrare che lo stile poteva acquistar nuova nobiltà dalla sua stessa naturalezza. Il Manzoni contribuì ad innamorare più fortemente l’odierna Italia della sua lingua, con l’occuparsene egli stesso per un mezzo secolo, col tornare pazientemente per tre lustri sopra la lingua de’ Promessi Sposi, col fine di purgarla dalle sue voci improprie; l’efficacia che per tale riguardo egli esercitò col proprio esempio, si sente ancora e non può venir disconosciuta. Ma la letteratura italiana gli deve molto più, per avere il Manzoni con l’autorità del suo nome e con la prova vivente ed immortale d’un capolavoro avvezzata la lingua ad uno stile così facile, così chiaro, e, ad un tempo, così virile e sostenuto, da rendere impossibile il ritorno alle viete forme accademiche e scolastiche, alla nostra stilistica tradizionale e così detta classica, senza pericolo di cadere nel ridicolo.
Dalla descrizione che il Manzoni ci fa della libreria di Don Ferrante ne’ Promessi Sposi, rileviamo che quest’uomo enciclopedico (mettendogli solamente dappresso il piemontese Botero) prediligeva sovra tutti un autore «mariuolo sì, ma profondo,» il Machiavelli, di cui non si stancava di leggere e di ammirare il Principe e i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio. C’è da scommettere che una parte dell’ammirazione di Don Ferrante non andava al pensatore ed al politico unitario,6 ma allo scrittore, il quale nella prosa non fu superato fin qui da alcuno, ma emulato dal solo Manzoni, il quale partecipava senza dubbio in proposito dell’opinione di Don Ferrante. Qual merito maggiore per uno scrittore che la sua virtù non solo di dir molto in poco, ma di dire facilmente le cose difficili, l’arte di far diventare universali le idee più elevate ed originali? E bene questa virtù, quest’arte il Manzoni possedette, come autore de’ Promessi Sposi, in grado supremo e singolarissimo. Sotto questo aspetto, la sua prosa è la più democratica che sia stata scritta in Italia.
Ma il Manzoni dovette ben presto accorgersi che, ov’egli avesse fatto l’Innominato il centro di tutto il suo poema o romanzo, oltre allo scoprir troppo sè medesimo, non avrebbe mancato di dare al suo romanzo un’aria reazionaria che veramente non ha e che ingiustamente gli fu attribuita dal Settembrini.
Chè se nell'Innominato che potremmo chiamare della prima maniera, come già nel Carmagnola, vi è qualche cosa del Wallenstein dello Schiller e del Goetz von Berlichingen del Goethe, cioè uno spirito ribelle a leggi che gli paiono ingiuste, del secondo Innominato, dell’Innominato convertito, proposto a modello, i Gesuiti non avrebbero mancato di fare il loro uomo-tipo, il loro modello ideale; e tutto il buon effetto della conversione molto più morale che religiosa operata dal cardinal Federigo si sarebbe guastato, col mettere sul volto dell’Innominato la brutta maschera di Tartufo.
Consoliamoci dunque che il Manzoni abbia voluto egli stesso allargare il proprio soggetto, opporre al cardinal Federigo Don Abbondio e la Monaca di Monza, e fra questi due mettere quella brava Donna Prassede che si proponeva di far l’educazione di Lucia, su per giù a quel modo con cui credono di potere educare le famose Dame del Sacro Cuore. Il Manzoni doveva aver conosciuto qualche Donna Prassede; quindi la vivezza e finitezza del suo malizioso ritratto: «Era Donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene; mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizii, con le nostre idee, le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee Donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici; n’aveva poche, ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche ce n’era, per disgrazia, molte delle storte; e non eran quelle che le fossero meno care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che ci era di reale, o di vederci ciò che non ci era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti senza eccettuarne i migliori; ma a Donna Prassede troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta.» — «... Fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine, la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca, in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà; non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri.... Due occhioni poi, che a una Donna Prassede non piacevano punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e, stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacchè, come diceva spesso agli altri e a sè stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo; ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.» Qui metteremo un punto d’interrogazione. Quando si pensi che il Manzoni avea corso rischio, nella primavera del 1821, di andare a morire sulle forche, a motivo del suo Inno rivoluzionario e della sua amicizia pel Confalonieri, non è egli probabile che sotto quel «poco di buono, quel sedizioso, quello scampaforca» di Renzo sia da ravvisarsi per un momento il Manzoni stesso, in Lucia che avrebbe dovuto staccarsi da lui la signora Blondel, in Donna Prassede qualche sua bigottissima amica, a cui il Manzoni non dovea parere convertito abbastanza e in ogni modo
Un di que’ capi un po’ pericolosi, |
come il poeta Giusti nel Sant’Ambrogio definiva per l’appunto l’Autore de’ Promessi Sposi? Mi provo a indovinare, e malgrado dell’industria grande del Manzoni a mescolar bene le sue carte, mi studio di capire la malizia del suo giuoco. La Blondel, com’è noto, era nella sua nuova fede cattolica molto più ardente dello stesso Manzoni, ed avrà, senza dubbio, cercato o trovato fra le sue nuove amiche qualche consigliera del tipo di Donna Prassede. Noi non sapremmo essere attratti molto, per dire il vero, dalle idee di una povera e rozza contadina come Lucia; ma se si fosse, per un’ipotesi, travestita, anche un solo momento, da Lucia la signora Blondel, quando il Manzoni ci assicura che «quella testina aveva le sue idee,» non ne faremmo più le meraviglie. Non dimentichiamo poi che il Manzoni si lagnava spesso della cura d’anime che i così detti amici, e con gli amici si comprendano pure l’amiche, si erano assunta presso la famiglia Manzoni, gli uni per fare di Don Alessandro un santo, gli altri per salvare in lui il liberale, e troveremo, senza dubbio, molto più gustoso il ritratto di Donna Prassede, che, per dire tutta la verità, collocato nel secolo decimosettimo, presso quello di una semplice contadinella, ci riesce quasi strano, ed in ogni modo, indifferente. Il Manzoni voleva bensì credere, ma non passare per un ipocrita; egli si sentiva capace e volonteroso di far del bene, di farne molto, ma anche debole all’occasione e soggetto a cadere; nè desiderava infingersi agli occhi altrui migliore di ciò che egli poteva essere. Ricordiamo il principio del ventesimosesto capitolo dei Promessi Sposi: quanta delicatezza in quel suo interrompersi, quando il cardinal Federigo rimprovera Don Abbondio di non aver resistito a Don Rodrigo, d’avere avuto paura, d’avere preferito al dovere la sua tranquillità; Don Abbondio, confuso, non sa che rispondere e rimane senza articolare parola; l’Autore è preso da uno scrupolo personale, e soggiunge: «Per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, nè altro da temere che le critiche dei nostri lettori, anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire, troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo con così poca fatica tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sè. Ma pensando che quello cose erano dette da uno che poi le faceva (il Manzoni alludeva, senza dubbio, a monsignor Tosi), tiriamo avanti con coraggio.»
Ciò che nel libro del Manzoni piace è il Manzoni stesso. Inconsapevolmente que’ passi, ove egli entra, più o meno dissimulato, in iscena, ove passano i suoi pensieri, le sue impressioni, ci attirano e ci seducono piacevolmente; con quanto maggior diletto li rileggeremo noi dunque ora sapendo che egli, come il Goethe, si è diviso un poco fra tutti i suoi personaggi! Il forestiero ha cercato tutta l’attrattiva del Romanzo manzoniano nella semplice storia dei due fidanzati; ed ha ragione di conchiudere che l’attrattiva è piccola, che il libro si distende troppo a raccontarla; ha ragione ancora s’egli sente qualche po’ di dispetto contro l’Autore, il quale, invece di farlo correre speditamente verso lo scioglimento, lo interrompe con descrizioni infinite, e con la citazione di documenti legali poco intelligibili. Se Aristotile avesse dato le regole del romanzo storico, è probabile che il Romanzo manzoniano si troverebbe scritto contro tutte le regole; vi mancano le giuste proporzioni: vi manca pure quel crescendo d’attrattiva che si vuol trovare in quasi tutti i romanzi; l’azione principale è poco importante, od almeno pare di piccola importanza, considerata in sè e non negl’intendimenti sociali dell’Autore, il quale, per mezzo d’un caso minuto e specialissimo, volle rappresentare l’eterna lotta fra oppressori ed oppressi, fra padroni e servi, fra grandi e popolo, aggruppando intorno a questa lotta alcune gravi questioni sociali, come quella del caro dei viveri, della salute pubblica, della legislazione penale, dell’amministrazione delle Opere Pie, de’ mali che reca con sè la guerra, del clero, de’ conventi, ed altre più, ciascuna delle quali potrebbe dar materia, anco più che a nuovi libri, a nuove ed opportunissime leggi, che, quando fossero veramente buone ed osservate, varrebbero meglio di qualsiasi libro pure ottimo, poichè la più difficile di tutte le traduzioni umane è quella delle idee nei fatti, della teoria nella pratica, della sapienza intellettuale in tanta eccellenza di virtù operativa. Il Romanzo manzoniano di per sè, come invenzione di casi, dice poco; di grandi e forti passioni non vi è quasi traccia; il lettore non rimane stordito e sorpreso da alcuna grande novità; ma è singolare, che in questo solo romanzo si cerchi meno quello che piace di più negli altri, l’elemento romanzesco, e molto più singolare che, privandosi quasi di questo elemento che pare così necessario negli altri romanzi, l’Autore de’ Promessi Sposi trovi fuori di esso tanta materia di lettura viva ed attraente.
Egli trattò il romanzo come l’Autore comico la commedia; vi rappresentò la società nella sua vita solita ed ordinaria, per mostrare che questa vita stessa è una commedia che si rinnova di secolo in secolo, eternamente. L’ingegno satirico che tentava naturalmente il Manzoni giovinetto, gli giovò mirabilmente nella commedia, o nel dramma, o nel poema, o nel romanzo che si voglia chiamare, de’ Promessi Sposi, i quali sono tutte queste cose insieme, ora molto, ora poco, ed entrano nella condizione privilegiata, e disperante, più che disperata, di tutti i grandi capolavori letterarii, che non si lasciano classificare in verun genere, perchè hanno essi stessi creato un genere nuovo, di cui, per lo più, non essendo l’originalità cosa molto imitabile, rimangono poi soli rappresentanti. Ciò che nella Divina Commedia attrae più non è il suo soggetto, ma la maniera con cui l’Autore lo pensa, lo sente e lo tratta; il medesimo si può ripetere de’ Promessi Sposi: nel primo, cerchiamo la poesia di Dante, l’anima e la mente di Dante; nel secondo; la poesia del Manzoni, l’anima e la mente del Manzoni, e il modo con cui il reale e l’ideale gli appaiono. Chi legge i Promessi Sposi come un libro ordinario, non può gustarli se non mediocremente; chi vi cerca tutto ciò che l’Autore ha voluto mettervi, non può mancare di trovarvelo, e di ammirare, senza fine, l’Autore che, con mezzi quasi umili, seppe ottenere effetti massimi. Sì, Renzo e Lucia sono povera e zotica gente, e se il Manzoni ce li figurasse soltanto come tale, senz’altre sue malizie, comprenderemmo poco i motivi che spinsero un così alto ingegno a raccogliersi tutto negli anni più vigorosi e potenti della sua vita sopra una materia così scarsa d’inspirazione. Ma il Manzoni ha voluto appunto l’opposto di quello che si vuole generalmente, non inalzare sè sopra un soggetto nobile, ma inalzare e nobilitare un soggetto quasi ignobile, col versarvi dentro la miglior parte di sè. Egli adopera i suoi poveri contadini con quella stessa malizia, con la quale egli si serve talora di similitudini volgari per dichiarare meglio certi pensieri che, alla prima, non appaiono nella loro piena evidenza. Sotto i grossi panni del villano di Lecco si trova sempre il cervello sottile del Manzoni. Se la fine ironia che vi è dentro non si coglie, il racconto può talora riuscire insipido, e le riflessioni che lo accompagnano sembrare superflue. Quando l’Autore intraprende, per esempio, a descriverci quello che sia propriamente un carteggio fra contadini, i quali sogliono ricorrere ad un letterato della loro condizione per far sapere i loro negozii ai lontani, osserva: «al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe, qualche volta gli accade di dire tutt’altro; accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa;» questa specie di prima punta maliziosa c’incomincia ad avvertire di che veramente si tratta; e il fine della descrizione riesce a persuadercene del tutto: «Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto dello stesso calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere: perchè l’interessato, fondandosi sulla cognizione dei fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c’entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di non dire le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia; per non prendere una similitudine di cose vive, che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto.» Le cose vive, alle quali il Manzoni faceva allusione, potevano essere benissimo le famose polemiche sorte in quel tempo, da una parte fra Classici e Romantici, dall’altra fra il Monti e gli Accademici della Crusca: polemiche, le quali sembravano fatte molto più per imbrogliare le idee che per renderle più chiare e popolari.
Così non s’intenderebbe come il Manzoni, dopo aver lasciato fare a Lucia quell’imprudente suo voto di non più sposare Renzo, si désse poi tanta pena per rappresentare l’immagine di un Renzo ideale che le tornava, malgrado del voto, nella mente, se non fosse lecito il supporre che in quelle immagini entrasse la reminiscenza di qualche scena domestica manzoniana.
«Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni mezzo per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d’occuparsi tutta in quello, quando l’immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Quell’immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più così alla scoperta; s’introduceva di soppiatto dietro all’altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c’era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre; come non ci sarebbe stato! e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale avea fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io, a buon conto, non ci sarò. Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno; ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era Donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato migliore espediente che di parlargliene spesso. «Ebbene?» le diceva, «non ci pensiam più a colui?» — «Io non penso a nessuno,» rispondeva Lucia. Donna Prassede non s’appagava d’una risposta simile, replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, «le quali,» diceva, «quando hanno nel cuore uno scapestrato, ed è lì che inclinano sempre, non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile.» E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, anche al suo paese. Lucia con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sè altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull’avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de’ suoi portamenti fin dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sè stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da questa apologia Donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincere Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E, per verità, in que’ momenti, non saprei ben dire come la cosa stésse. L’indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai nella mente della giovine l’idea che vi si era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze, compresse a forza, si svolgevano in folla; l’avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l’odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà; e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere quell’altro che dietro ad essi s’introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso per la parte di Lucia non sarebbe mai andato molo in lungo; chè le parole finivan presto in pianto.»
Io mi potrei facilmente ingannare; ma queste parole che mi parrebbero troppe se fossero dette per ispiegare i sentimenti d’una rozza contadina lombarda, hanno tutto il loro senso se Lucia deve in questo caso nascondere un’altra persona che ci sta a cuore assai più, la quale poteva benissimo trovar qualche piccola imperfezione nel Manzoni, reale e vicino, salvo a sognarlo come un ideale, quand’egli stava lontano, quando lo sapeva perseguitato ed in pericolo, quando, peggiore di tutte le malvagità umane, essa sentiva che la calunnia voleva indegnamente colpirlo. Renzo è compromesso anch’esso quasi involontariamente come il Manzoni ne’ casi politici di Milano; e se non ci fosse stato per l’Autore il proposito di mettersi un poco in iscena, ma di farsi povero contadino, per lasciarsi scorgere meno, avrebbero avuto ragione que’ primi critici de’ Promessi Sposi, quando biasimavano l’Autore d’aver fatto andare Renzo a Milano solamente per avere un’occasione di fare nuovo sfoggio d’ingegno nelle descrizioni del tumulto, della fame e della pèste di Milano. E qui prevedo un’obbiezione: non ci diceste che il Manzoni ha forse voluto rappresentare nella conversione dell’Innominato la propria? Ora se egli è l’Innominato, come potrebbe essere ancora Renzo? Egli è l’Innominato, per un verso, Renzo per un altro, Don Ferrante, Fra Cristoforo in altri momenti. I lettori del Goethe conoscono bene questa specie di avatar del genio, questa potenza tutta divina di staccar da sè un attributo per farne un nuovo tipo umano vivente, come nell’Olimpo dalla testa di Giove esce una Minerva, come dagli attributi di un solo Dio vien fuori la pluralità degli Dei. Il Manzoni si moltiplica e si riproduce quasi senza fine ne’ Promessi Sposi, non meno che il Goethe nel Faust, nel Wilhelm Meister, nel Werner, nell’Egmont, nel Tasso e in altri suoi drammi, per tacere delle Elegie Romane, ov’egli entra direttamente e quasi furiosamente in iscena. L’aver condensato ad un tempo e distribuito ed esaurito quasi tutto sè stesso in un solo capolavoro è gloria maggiore nel Manzoni, e principal fáscino, quasi misterioso, de’ Promessi Sposi. Il centro simpatico di tutto il libro è l’Autore stesso, come accade pure nel Don Chisciotte. Tra i due lavori vi è anzi qualche affinità di tóno umoristico; ma nel libro italiano la varietà è molto maggiore, ed i pensieri e i sentimenti si levano più alto. S’io li riscontro qui è perchè oramai stimo necessario che ci avvezziamo a studiare i Promessi Sposi, come si studiano i libri già divenuti classici, i quali si pigliano come sono, senza pretendere, che dovessero riuscire diversi da quelli che i loro grandi Autori gli hanno voluti. Noi non possiamo volere che in questi classici si approvi e si ammiri tutto; crediamo invece che tutto meriti di venire studiato, e che la conclusione di un tale studio sia sempre, per un verso, una somma di maggiore ammirazione, per l’altro, una somma di maggior profitto.
Fra le tante cose che s’ammirano nei Promessi Sposi, la più mirabile, se si consideri la difficoltà artistica della composizione, pare a me e ad altri la grande varietà, con la quale l’Autore ci presenta quadri e tipi paralleli, che sono simili senza monotonia, e dissimili senza stonatura. Presso la conversione di Fra Cristoforo noi troviamo quella dell’Innominato, presso la descrizione della fame quella della pèste, presso il cardinal Federigo Fra Cristoforo, presso Don Rodrigo il conte Attilio e l’Innominato, presso Don Abbondio Fra Galdino, presso il conte zio il Ferrer, Renzo presso Bortolo, e così di seguito, si riproducono ne’ Promessi Sposi casi e tipi analoghi, con caratteri distintivi che scusano pienamente, anzi glorificano l’Autore d’averli immaginati. Non vi è nulla di più facile in arte che il creare de’ contrasti forti; mettendo dall’un lato chi è tutto buono, dall’altro chi è tutto tristo, la maggior parte degli autori ha combinato rumorosi e stupendi effetti drammatici; il Manzoni sentiva che le proprie forze bastavano a superare maggiori difficoltà; se le creò e le vinse. Nell’arte de’ chiaroscuri, delle mezze tinte, nessuno lo supera; ad egli tira ogni linea con mano tanto sicura, che anche i suoi personaggi secondarii diventano tipi popolari, non escluso quel buon sarto di villaggio che pizzicava del letterato perchè sapeva leggere ne’ Reali di Francia, divenuti suo Vangelo.
S’io non erro, il professore Stoppani fu il primo a cercare ne’ tipi de’ Promessi Sposi le persone reali, delle quali il Manzoni, avendole conosciute, si ricordava nell’immaginarli. Egli credette ravvisarne alcune; così dalla Caterina Panzeri contadina di Galbiate suppose che s’inspirasse per disegnare la figura della Lucia. Ma la Lucia Mondella, in quanto è contadina, non dice nulla; in quanto dice qualche cosa, noi l’abbiamo già accennato, nasconde la signora Blondel. Il Manzoni andò a cercarsi la sposa in un paesello del Bergamasco, come Renzo va nel Bergamasco a metter su casa. Come la Edmengarda dell’Adelchi, anche la Lucia è pudìca con lo sposo e parca di parole; ma le poche parole che essa dice a lui, valgono più delle molte dette ad altri. Quando Lucia, uscita dal Lazzeretto, rivede Renzo, non sa dirgli altro che questo: «Vi saluto. Come state?» L’Autore soggiunge: «E non crediate che Renzo trovasse quel fare asciutto, e se l’avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e come tra gente educata si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un’altra per tutta la gente che potesse conoscere.» Quando Renzo passa in rassegna, al fine della sua storia, tutti i brutti casi che gli sono intervenuti e gl’insegnamenti che gliene rimasero, onde egli non si mescolerà più nei tumulti, non si lascerà più andare a bere oltre il bisogno, eviterà di dar sospetto di sè come testa calda, fuggirà, in somma, con una maggior prudenza e moderazione ogni maniera d’impicci, sentiamo ch’è presente il Manzoni; come abbiamo il Manzoni in questo proponimento finale di Renzo: «Prima d’allora era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticare la donna d’altri, e ogni cosa. Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.» Il Manzoni, in verità, pubblicati i Promessi Sposi, si mostrò nel suo contegno pubblico e ne' suoi discorsi che potevano esser riferiti, d’un riserbo che parve eccessivo; anche le sue lettere, dopo quel tempo, prendono quasi tutte un carattere uniforme di convenienza, in qualche modo, diplomatico e stereotipato; nella lettera straordinariamente sincera ch’egli scrisse venti e più anni dopo a Giorgio Briano, per iscusarsi di non poter fare il deputato, se il Collegio di Arona, come gli veniva scritto, si fosse ostinato a volerlo eleggere, troviamo parole che consuonano perfettamente con gli ultimi propositi pacifici di Renzo, e li dichiarano. «Quel senso pratico dell'opportunità, quel saper discernere il punto o un punto, dove il desiderabile s’incontri col riuscibile, e attenercisi, sacrificando il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario (salvo il diritto, s’intende) è un dono che mi manca, a un segno singolare. E per una singolarità opposta, ma che non è nemmeno un rimedio, perchè riesce non a temperare, ma impedire ciò che mi pare desiderabile, mi guarderei bene dal proporlo, non che dal sostenerlo. Ardito, finchè si tratta di chiacchierare tra amici, nel mettere in campo proposizioni che paiono, e saranno, paradossi; e tenace non meno nel difenderle, tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato quando le parole possono condurre a una deliberazione. Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili per lo meno in una riunione, dove si parla per concludere; io sarei l’uno e l’altro nello stesso tempo. Il fattibile le più volte non mi piace. E dirò anzi, mi ripugna; ciò che mi piace, non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri, ma sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo o di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto, d’aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze. Di maniera che, in molti casi, e singolarmente ne’ più importanti, il costrutto del mio parlare sarebbe questo: nego tutto, e non propongo nulla. Chi désse un tal saggio di sè, è cosa evidente che anco i più benevoli gli direbbero: ma voi non siete un uomo pratico, un uomo positivo; come diamine non vi conoscevate? dovevate conoscervi; quando è così, si sta fuori degli affari. È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi inutile a una causa che è stata il sospiro di tutta la mia vita. Ma Ipse fecit nos et non ipsi nos; e non ci chiederà conto dell’omissione, se non nelle cose, alle quali ci ha data attitudine.»
Scampato al gravissimo pericolo dell’anno 1821, al Manzoni non dovette parer vero, quando pubblicò i Promessi Sposi, di potersi finalmente riguardare al sicuro; quella specie di bando che esisteva contro di lui pareva levato; ed egli vi alluse, come parmi, quando nel fine della storia di Renzo già compromesso ne’ tumulti di Milano, si domandò; «Come andava col bando? L’andava benone; lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli, i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più nè anche loro; e non s’ingannava. E questo non nasceva solo dalla pèste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s’è potuto vedere anche in varii luoghi di questa storia, cosa comune a que’ tempi che i decreti tanto generali, quanto speciali contro le persone se non c’era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l’avesse avuto sul primo momento.» Il Manzoni non ebbe di questi nemici privati e potenti che lo volessero perdere ad ogni costo; e però tenuto fuori dai primi processi, quando i processi si chiusero, non si parlò altro di lui; non già per questo ch’egli fosse contento dell’andamento delle cose, e rassegnato al Governo straniero; vi è anzi un passo dei Promessi Sposi, che potrebbe anche essere di Tacito o del Machiavelli, ov’è chiaro che l’Autore intende muover rimprovero agl’Italiani, i quali dopo aver levato alte grida pel supplizio di pochi generosi tollerano poi in pace l’ignominia e l’oltraggio di una lunga servitù. «Noi uomini siamo, in generale, fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi, e sopportiamo, non rassegnati, ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.» Altrove l’Autore, nel tempo stesso che gli scusa, sembra rivolgere un biasimo delicato a que’ patriotti, i quali espatriavano senza una vera necessità; naturalmente l’Autore vuole aver aria di parlare soltanto di Renzo e di Lucia, che lasciano il loro villaggio per recarsi nell’ospitale e laborioso Bergamasco; ma il Bergamasco potrebbe assai bene nel caso nostro nascondere l’Inghilterra ed il Belgio. «Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne, ce ne fu sicuro; chè del dolore ce n’è, sto per dire, un po’ per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacchè avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand’inciampi, Don Rodrigo e il bando, eran levati. Ma già da qualche tempo erano avvezzi tutt’e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l’aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l’agevolezze che ci trovavano gli operai; e cento cose della bella vita che si faceva là. Del resto, avevan tutti passato de’ momenti ben amari in quello, a cui voltavan le spalle; e le memorie tristi, alla lunga, guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano. E se que’ luoghi son quelli, dove siam nati, c’è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.» Renzo, che cessa di essere un eroe di romanzo, rimane alcun tempo incerto sul modo d’impiegare quel po’ di danaro ch’egli ha, se nell’agricoltura o nell’industria; il Manzoni, che ha rinunciato alla vita politica, si ritira a Brusuglio per darsi tutto all’agricoltura ed a’ suoi studii di lingua, lieto di trovarsi fuori delle tempeste. Quando Renzo dice alla sua Lucia ch’egli dai molti guai ha imparato almeno molte cose che non sapeva, Lucia, assai dotta e fine e intelligente per una contadina, risponde al suo moralista: «E io cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai; son loro che son venuti a cercar me. Quando non voleste dire» aggiunge soavemente sorridendo «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.» — «Renzo (prosegue il Manzoni) alla prima rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani e che quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, ci è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.» Questa conclusione del libro riesce un vero accento acuto; ed è meraviglia che, invece di accusare, come fecero alcuni critici, il Manzoni di aver talora imprestato a «povera gente» sentimenti troppo elevati, non siasi capito alla prima che, da profondo umorista, il Manzoni avea voluto far passare sè stesso per un povero diavolo che s’impicciò da poeta in avventure troppo romanzesche, per le quali non si sentiva nato, riserbandosi poi il diritto di burlarsene come critico, su per giù come il Cervantes avea fatto prima di lui, ma con maggior caricatura, nel suo immortale Don Chisciotte. In ciascuno di noi vi è un lato comico e un lato drammatico; il proprio lato comico il Manzoni rappresentò talora in Renzo, talora in quel Don Ferrante che in casa sua non voleva nè comandare nè ubbidire, proprio come il Manzoni, ma era despota in fatto di ortografia; è noto lo scrupolo che il Manzoni metteva nella punteggiatura; nessun autore forse fece un maggior consumo di virgole; e nell’ortografia italiana tanto più legittimamente poteva egli comandare in una casa, ove la padrona, come la signora Blondel, era forestiera; il lato drammatico lo abbiamo personificato in Fra Cristoforo e nell’Innominato.
Nella Prefazione un po’ stramba ai Promessi Sposi, il Manzoni mette già da sè stesso il lettore sull’avviso che nel preteso vecchio manoscritto da lui ritrovato e rimaneggiato s’incontrano casi e persone ch’egli credeva ricordarsi unicamente da esso, quando invece gli accadde poi di riscontrarli con casi e persone che le storie rammentano. «Taluni di que’ fatti (egli dice) certi costumi descritti dal nostro Autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbii; a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, dei quali non avendo mai avuto notizie fuor che dal nostro manoscritto eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.» Con questa sua malizia l’Autore vuole lasciarci intendere che egli, dopo aver messo in scena sè stesso o persone da lui conosciute, ha voluto cercare se, per caso, esse potessero avere qualche riscontro con persone vissute nella stessa Lombardia due secoli innanzi; e poichè, in tal sorta d’investigazioni, si trova quasi sempre quello che si cerca, poichè gli uomini si modificano nelle forme, ma nel fondo sono sempre gli stessi, egli non dovette troppo meravigliarsi nel trovare ch’egli ed i suoi conoscenti presentavano sotto parecchi aspetti caratteri di molta somiglianza con alcuni veri ed autentici personaggi storici. Così l’Innominato egli non l’inventò tutto; era Bernardino Visconti, a proposito del quale la duchessa Visconti rallegravasi un giorno che il Manzoni le avesse messo in casa «prima un gran birbante, ma poi un gran santo;» il poeta Giusti soleva e converso chiamare il Manzoni «un santo birbone,» alludendo alla santità della sua vita e della sua fede e all’infinita malizia del suo ingegno. L’Innominato aveva dunque esistito; ma il Manzoni lo riscaldò coi proprii sentimenti e ne fece un gran tipo.7 Chi dubita dell’esistenza del cardinal Federigo? ma il Manzoni si ricordava la nobile condotta di monsignor Opizzoni innanzi al Buonaparte, e il suo confessore Tosi e il vicario Sozzi, e delle loro virtù riunite animava anco più la bella figura del Borromeo, ed in parte ancora quella di Fra Cristoforo. Si trovò poi che un Fra Cristoforo da Cremona avea realmente sacrificato la propria vita per gli appestati di Milano; ma, in quanto il Manzoni se ne servì per farne un tipo immortale, oltre alla sua particolare simpatia per i Padri Cappuccini, che risaliva alle prime vivaci impressioni d’infanzia, ci doveva entrare lo studio dell’Autore a rappresentarci la vittoria riportata sopra sè stesso dal violento Lodovico che diventa un monaco piissimo, per meglio persuadere sè stesso che nella prima gioventù non avea sempre dovuto essere moderato e temperato, della necessità di domare gl’istinti e di vincere le passioni. Qualche cosa del giovine Manzoni, qualche pagina della sua prima vita è lecito argomentare che si trovi accennata nel racconto della gioventù di Lodovico. Noi non sappiamo se il Manzoni abbia avuto duelli nella sua gioventù; delle così dette leggi cavalleresche egli ne parla come un uomo che le conosce, meglio che dai libri di cavalleria, i quali si trovano nella biblioteca di Don Ferrante, per un po’ di pratica; ed è possibile che qualche caso di provarsi alla scherma, se non di un serio duello, gli sia occorso in Milano innanzi al suo primo viaggio di Parigi; ma non abbiamo per ora alcuno indizio per affermarlo.8 In ogni modo, Lodovico convertito in Fra Cristoforo rassomiglia tanto all’Autore che par proprio lui, eccetto il tono di predica che non era del Manzoni. «Il suo linguaggio, è detto, era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso di predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunciava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni anche ben educati pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate con qualche lettera mutata: parole che in quel travisamento fanno però ricordare della loro energia primitiva.»
Il professore Stoppani dice aver conosciuto da fanciullo il parroco, che dovette servire al Manzoni come tipo del suo Don Abbondio. Il Manzoni era ancora giovinetto, quando conobbe quel curato, il quale gli raccontava in qual modo avesse preso gli ordini: «Quando mi presentai all’esame, l’esaminatore mi domandò se i parroci erano d’istituzione umana o divina. Io sapeva benissimo che loro volevano si rispondesse che erano d’istituzione umana, e, furbo, risposi tosto: d’istituzione umana, d’istituzione umana!» Il giovine Manzoni si permise domandargli se fosse quello il suo convincimento; il parroco ripose: «Oh! giusto! a me avevano insegnato ben diversamente a Pavia. Ma se avessi risposto come la pensava io, non mi lasciavano dir Messa.» Il Manzoni voleva fare qualche obbiezione; ma il curato troncò il discorso con questa sentenza: «Quando i superiori domandano, bisogna saper rispondere a seconda del come la pensano loro.» Questo aneddoto è autentico; il Manzoni stesso lo fece conoscere a’ suoi amici, e dalla bocca di questi lo Stoppani lo raccolse. È evidente la rassomiglianza di questo curato con Don Abbondio;9 ma per formarne quel tipo che riuscì, occorreva il concorso di un genio, e la conoscenza de’ materiali, dei quali il Manzoni si servì, giova soltanto a mostrare che i grandi poeti son quasi come Domeneddio, poichè, con l’attenuazione di un quasi, creano anch’essi opere divine, ex nihilo.
Storico è pur troppo il personaggio della Geltrude, la Monaca di Monza; ma quando il Manzoni ne lesse la storia, per tornare a colorirla potentemente gli giovò il ricordarsi la zia ex-monaca, già da me ricordata, la quale ebbe cura ch’egli imparasse la musica, il ballo, forse pure la scherma, su per giù come quel Lodovico, a cui il padre fece dare un’educazione «secondo la condizione de’ tempi e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere ed esercizii cavallereschi, e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.»
Ma, senza i frequenti richiami de’ tipi manzoniani alla vita dell’Autore e a’ suoi conoscenti, che accrescono vivacità e naturalezza alle sue mirabili ipotiposi, per tacere de’ casi, ne’ quali egli nomina direttamente o sottintende troppo chiaramente i suoi amici Giovanni Torti e Tommaso Grossi, di cui loda i versi «pochi e valenti» di cui raccomanda, con molta industria, la diavoleria ch’egli stava scrivendo a Brusuglio, ossia il poema de’ Lombardi alla prima Crociata, i Promessi Sposi sono pieni zeppi di osservazioni maliziose tutte manzoniane, traendone talora materia dalle occasioni più impensate. Tutti ricordano il viaggio di Renzo allo studio del dottor Azzeccagarbugli, coi quattro capponi che doveano servirgli di commendatizia. Renzo, agitato dalla viva passione, «dava loro di fiere scosse e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate,» al qual punto l’Autore soggiunge: «le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una coll’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.» Quest’osservazione messa lì, come per sotterfugio, è forse più potente, pel suo effetto, di tutto il bellissimo Coro della battaglia di Maclodio, che lamenta le discordie italiane, più potente perchè meno enfatico, e più opportuno, più speciale. Gli esuli italiani che si laceravano, talora, senza pietà, da quelle poche parole erano invitati a pensare. Ed il pensare, in simili casi, è, quasi sempre, un rimediare. Quanta forza satirica in una sola frase manzoniana! La serva del dottor Azzeccagarbugli, per un esempio, sa bene che il suo padrone è così abile, così destro avvocato da far parere galantuomo qualsiasi birbante che si raccomandi a lui; non vi è causa spallata che nelle sue mani non sia diventata buona; perciò, dopo ch’ella serve il dottore, non ha mai visto tornar via il ricorrente co’ suoi doni rifiutati; il primo caso è quello di Renzo venuto dal dottore a domandar giustizia contro un prepotente; ma alla serva non può venire in capo che si tratti d’un innocente perseguitato; nel restituirgli dunque le quattro bestie per ordine del padrone, le dà a Renzo «con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella.» Bisogna che Renzo sia più birba di tutte le altre birbe che il dottore ha rivendicate all’onore del mondo, perch’egli si decida a lasciarlo partire col suo vistoso regalo. Il torto che la serva fa a Renzo, pensando così male di lui, è men grave della condanna del dottore e di tutti i dottori di legge che gli somigliano, sottintesa in quel giudizio temerario. Renzo torna a casa indignato, e non sa dir altro col cuore in tempesta, se non queste parole: «Saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente.» Al che il Manzoni è pronto a soggiungere: «Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.» Quanta profonda ironia in questa frase! Renzo torna da una spedizione, nella quale ha pur troppo potuto accorgersi che giustizia nel mondo proprio non ce n’è; ma vi sono parole che si dicono senza alcun perchè; Renzo vuole la giustizia, e non la trova; per rendere questo suo sentimento usa un’espressione popolare, e dice che la giustizia finalmente c’è, quando ha proprio fatto esperimento del contrario; il Manzoni, da quel fine umorista che è, nota la contradizione che esiste talora fra le cose che si dicono e quelle che si pensano, e come nel dolore si ragioni meno e si dica qualche volta precisamente l’opposto di quello che si pensa. E, in somma, la conclusione vera del terzo capitolo è, che non c’è da fare assegnamento di sorta su quella che si chiama giustizia umana, in genere, ma che nel caso nostro, nell’intendimento manzoniano, dovea chiamarsi giustizia straniera, giustizia de’ signori in Lombardia, ossia nessuna giustizia, arbitrio, violenza, che le leggi in parte mantenevano e l’abuso delle leggi accresceva a dismisura.
Talora incontriamo qualche passo che appare una stonatura. Renzo non ha ancora avuto il tempo di far chiasso in paese pel caso di Don Rodrigo; anzi il caso è tale, che non se ne può parlare con alcuno senza grave pericolo di guastarlo. Non è verosimile dunque che Renzo ne abbia fatto rumore nel villaggio; e pure, malgrado della inverosimiglianza, il Manzoni ci lascia credere che Renzo siasi sfogato con gli amici, e che questi, invece di prestargli una mano al bisogno, siansi ritirati tutti; onde Renzo se ne sfoga con Fra Cristoforo: «Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh! eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico? Bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano!» Per Renzo e pel caso suo queste parole ci paiono troppe e sproporzionate e strane; ma se il Manzoni si nasconde sotto Renzo, alludono a qualche abbandono simile da lui patito, e poich’egli ci preme, in verità, molto più di Renzo, prendiamo a cuore il suo caso.
Vi è una scenetta domestica fra Renzo e Lucia, che il Manzoni deve aver colta proprio sul vivo. Renzo va in collera, vorrebbe uccidere Don Rodrigo, rovinarsi, se Lucia non consente a recarsi con lui dal curato per sorprenderlo. Lucia si spaventa e gli si butta in ginocchi, e promette che farà tutto quel che egli vorrà, pur che diventi più trattabile, più umano, pur che torni buono. L’Autore a questo punto si fa una domanda, che obbliga molto naturalmente un lettore intelligente a farsene un’altra. Siamo noi in casa Mondella, od in casa Manzoni? E la domanda è questa: In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ di artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro Autore protesta di non saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta che era realmente infuriato contro Don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor di un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dire con sicurezza qual sia quella che predomini. «Ve l’ho promesso,» rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso; «ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre....» — «Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro ora? e farmi fare uno sproposito?» — «No, no,» disse Lucia, cominciando a rispaventarsi, «Ho promesso e non mi ritiro. Ma vedete come mi avete fatto promettere. Dio non voglia....» — «Perchè volete far de’ cattivi augurii, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.» — «Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.» — «Ve lo prometto, da povero figliuolo.» — «Ma questa volta, mantenete poi,» disse Agnese. — Qui l’Autore confessa di non sapere un’altra cosa; se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.10
La persona dell’Autore viene, per lo più, ad accrescere la forza de’ sentimenti de’ suoi personaggi; a colorirli più gagliardamente; occorreva un grande poeta per far così commovente l’addio di Lucia ai suoi monti, occorreva un buon patriotta per far sentire con tanta tenerezza il dolore di chi si stacca dalla patria. Ma talora i sentimenti dell’Autore che si mettono fra quelli de’ suoi personaggi appaiono soverchianti e guastano una parte dell’effetto artistico.
Chi è rimasto veramente commosso, per un esempio, dall’addio di Lucia, desidera rimanere in quella commozione, e non vorrebbe accogliere nell’animo alcun sentimento diverso da quello. Ma il Manzoni vuole ad ogni costo che prevalga ne’ dolori umani il sentimento della rassegnazione cattolica; quindi, senza pure accorgersi che la commettitura o la toppa cattolica riesce troppo evidente, non badando ad alcuna regola di transizione, dopo l’ultimo addio di Lucia, soggiunge senz’altro: «Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande.» Per arrivare a un tal sentimento, Lucia avea bisogno di un po’ di preparazione; e il Manzoni, da quel profondo psicologo che era, lo dovea sentire meglio d’ogni altro. Ma è assai possibile che nella prima composizione del romanzo quella pia appendice non esistesse, e che per solo suggerimento di alcuno dei suoi revisori egli l’abbia introdotta nel secondo manoscritto o sulle prove di stampa. Sappiamo invero che il Manzoni avendo incominciato il romanzo il 24 aprile dell’anno 1821, cioè appena fallita la rivoluzione piemontese, e dopo i primi arresti de’ patriotti lombardi, lo avea terminato nel 1823, e precisamente il 17 settembre. Il Grossi ch’era con lui a Brusuglio dovette essere il primo a leggerlo, in camera charitatis; ma il Grossi, l’amico e collaboratore di Carlo Porta, poteva al Manzoni parere un confessore di manica larga. Un lettore più difficile fu di certo l’amico critico e filosofo Ermes Visconti, al quale il Manzoni passò la sua prima minuta de’ Promessi Sposi; il Visconti la coprì di note, appunti, correzioni; il Manzoni ne tenne buon conto nella nuova trascrizione del proprio lavoro ch’egli fece nell’anno 1824; la diede quindi a ricopiare per passarla ad altri amici; il Fauriel, il Tosi, Gaetano Giudici, il Tommaseo, furono nel numero de’ lettori privilegiati; ricevute le osservazioni, egli corresse nuovamente di proprio pugno tutta la copia, che passò quindi alla Censura, e finalmente alla Tipografia; sulle prove di stampa che si conservano, il Manzoni fece nuove correzioni; la stampa del primo volume incominciò nell’anno 1825, quella del secondo nel 1826, il terzo ed ultimo volume si finì di stampare nella primavera dell’anno 1827.11 L’aspettativa del romanzo era grande; il Fauriel ne parlava a’ suoi amici in Francia; Victor Cousin che avea visitato il Manzoni a Brusuglio ne recava notizie al vecchio Goethe a Weimar. In Italia, alla sola notizia che il Manzoni stava scrivendo un romanzo storico, parecchi letterati si misero a scrivere romanzi storici, confondendo la speranza di far più presto con quella di far meglio.12 Non sapevano, non pensavano che il Romanzo manzoniano avrebbe tratto tutta la sua gloria non dall’essere storico, ma dall’averlo immaginato, sentito e scritto a modo suo, e come sapeva farlo egli solo, il Manzoni. Il 12 marzo dell’anno 1827, ad una domanda della contessa Diodata Saluzzo relativa al romanzo il Manzoni rispondeva: «La filastrocca, della quale Ella ha la bontà di richiedermi, è bensì stampata in gran parte, ma nulla ne è ancor pubblicato, nè sarà che ad opera compiuta. Del quando non posso fare alcuna congettura un po’ precisa; perchè di quel che manca alla stampa, una parte manca ancora allo scritto; e il compimento di questo dipende da una salute incerta e bisbetica, la quale spesso mi fa andare assai lento, e talvolta cessare affatto per buon numero di giorni. Dell’essersi poi, come Ella mi accenna, veduto costì il già stampato, io non so che mi dire nè che pensare, non ve ne avendo io spedita certamente copia, nè in altra parte d’Italia. Nè anche posso tacere che, siccome l’aspettazione di alcuni mi aveva già posto in gran pensiero, così in grandissimo mi pone codesta ch’Ella si degna mostrarmi: chè, riguardando al mio lavoro, sento troppo vivamente quanto sia immeritevole di una sua curiosità; e troppo certamente prevedo quanto questa sia per essere mal soddisfatta. Ma, ad ogni modo, la prova non sarà terribile che per la vanità; e io confido ch’Ella si contenterà di dimenticare il libro noioso, senza cacciar per questo l’autore dal posto accordatogli nella sua benevolenza.» Da questa lettera rileviamo che nel marzo 1827 il libro era al suo fine, ma che il Manzoni doveva ancora scriverne gli ultimi fogli. È potuto parere strano ai lettori de’ Promessi Sposi che il Manzoni fissasse il numero de’ suoi lettori a soli venticinque; o eran troppi, o troppo pochi; si disse che in quel caso il Manzoni affettava soverchia modestia; ma è difficile il cogliere il Manzoni in fallo; il buon senso è stato forse più vicino a lui che a qualsiasi altro mortale. Ora noi sappiamo che, prima di venir pubblicati, i Promessi Sposi furono veramente letti e talora molto criticati da un numero scelto di amici, che potrebbero per l’appunto sommare insieme al numero di venticinque. Essi furono, dal 1823 in cui i Promessi Sposi furono finiti di comporsi, al 1827, ossia per ben quattro anni, per un caso singolare, il solo vero pubblico de’ Promessi Sposi; e, per quanto nel trovarsi così limitato ci fosse da sperare che usasse discrezione e riserbo, non pare che una tal regola siasi osservata da tutti; sembra anzi che alcuno de’ venticinque lettori parlasse troppo e che si permettesse un genere di censure irritante per ogni autore, ma specialmente per un autore come il Manzoni; ond’egli preparò per la stampa e pubblicazione definitiva del libro, destinato da prima ai soli amici fidati, una frecciata delle sue, e la lanciò in modo che il pubblico potesse non capire, e la dovessero sicuramente sentire gli amici indiscreti, ai quali essa era diretta.13 Non sarà troppa temerità la nostra il supporre che una delle persone più colpite doveva essere Niccolò Tommaseo: l’articolo critico ch’egli pubblicò nel fascicolo di ottobre del 1827 nell’Antologia, è forse, fra tutti gli articoli che si scrissero allora sopra i Promessi Sposi, il più malizioso. Il Tommaseo parla della «degnazione,» con la quale il Manzoni «si è abbassato a voler fare un romanzo,» e si domanda: «Chi mi sa dire per quali pensieri e sentimenti passasse lo spirito di quest’uomo singolare nel corso del suo lavoro? Chi mi sa dire se egli non l’abbia compiuto in uno stato di opinione molto diverso da quello, in cui l’ha cominciato?» Dopo aver censurato i caratteri de’ Promessi Sposi, trovato Renzo, per un villano, troppo gentile, Lucia priva di carattere, troppo poco villana, Agnese pesante, avvertito che il cardinal Federigo compare troppo tardi, che l’Innominato si converte troppo presto, dice: «Quel della Signora sarebbe più individuale e più vivo, se l’Autore, come la pubblica voce afferma, non avesse per eccesso di delicatezza troncata la parte de’ suoi traviamenti;» trova Don Abbondio quasi noioso, perchè troppo simile a sè stesso; il lepore manzoniano gli sa talvolta «del mendicato e del picciolo.»
E qui, nel tempo stesso che l’accusa, vuole parer di scusarlo, accusandolo un po’ di più: «Se non che (scrive il Tommaseo) da un uomo che segue con amabile semplicità i miti impulsi del suo bel cuore e del suo raro ingegno, non è poi da esigere un freddo rigore in seguire quella certa convenienza di tuono, ch’è così facile a degenerare in sistema, ed a farsi monotonia. Egli è lecito però l’affermare, che nel tuono di questo libro domina insieme col vasto non so che di vago, che alla fin fine potrebbe essere il difetto di chi si abbassa a soggetti minori della propria grandezza. Perchè se quel libro è fatto pel volgo, è tropp’alto; se per gli uomini colti, è tropp’umile. In questo libro sarebbe a desiderare un far più svelto e più franco. La modestia dell’Autore si spinge, se è lecito dire, talvolta sino a diventare orgogliosa. Egli teme di non iscolpire abbastanza i caratteri, di non fare abbastanza impressione; perciò si ferma su tutto. Se invece di mostrarsi conoscitore degli uomini in genere, Manzoni avesse voluto spiegarci solamente i misteri di quel pezzo d’uomo che è l’uomo morale, allora egli sarebbe stato sempre grande; ma allora non avrebbe fatto un romanzo. Manzoni talvolta lascia immaginar troppo al lettore, talvolta nulla; il suo tuono è il tuono d’un uomo superiore che si abbassa per giovare altrui, ma talvolta par non si abbassi che per piacere; e questo lo fa troppo lepido. La sua naturalezza è quasi sempre artifiziata, ma di un’arte sublime; le sue intenzioni vanno sempre al di là delle sue parole; e per gustare molte espressioni, molti tratti, e lo spirito dominante dell’opera, bisognerebbe aver conosciuto l’Autore, dappresso. Si conosce più il libro dall’Autore, che non l’Autore dal libro.» A malgrado del bisticcio, si capisce quello che il Tommaseo voleva dire; egli era stato in casa Manzoni, avea letto in casa sua i Promessi Sposi prima che si pubblicassero, ed era di quelli che potevano legger molto fra le linee. L’articolo che il Tommaseo amico osò stampare in Firenze, quando il Manzoni si trovava con la sua famiglia festeggiato, ammirato, invidiato forse anco, non è punto simpatico, e ci lascia facilmente supporre quali altri giudizii il Tommaseo dovesse permettersi contro il romanzo nei privati discorsi, prima che si pubblicasse. Quelle censure anticipate, per la maggior parte ingiuste e piene di sofisticherie, irritarono, senza dubbio, il Manzoni, al quale vennero riportate; perciò, nell’ultimo foglio del suo romanzo, poco prima di mandarlo in giro, egli volle inserire una sua pagina tutta significativa: il lettore di romanzi che arriva al fine de’ Promessi Sposi ed intende che quella Lucia e quel Renzo, ai quali o poco o molto s’è affezionato, vanno a finire in un paese, dove non sono poi bene accolti, ha un po’ ragione di mettersi di malumore contro l’Autore, che non seppe immaginare alcun’altra miglior conclusione; ma, se il lettore di romanzi è persona intelligente, la quale più de’ casi straordinarii di un eroe o di un’eroina sappia ammirar l’arte, con la quale l’Autore crea, egli passerà invece, tosto, dal breve malumore ad una viva e durevole ammirazione. Dopo il cenno che ho qui fatto sopra il modo singolare con cui si preparò in Milano la stampa de’ Promessi Sposi, tutti possono intendere la finezza di questa pagina, che si può pertanto tornare a rileggere: «Il parlare che, in quel paese, s’era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse, il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa; non trova mai tanto che le basti, perchè, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti, i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d’oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l’uno più bello dell’altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciare il naso, e a dire: «Eh! l’è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s’aspettava qualche cosa di meglio. Cos’è poi? Una contadina come tant’altre. Eh! di queste e delle meglio ce n’è per tutto.» Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro; e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto. Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste cose, così non c’era gran male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliene rapportarono; e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sè «E cosa v’importa a voi altri? E chi v’ha detto d’aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v’ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V’ho detto mai che v’avrei menato qui una principessa? Non vi piace? non la guardate. N’avete delle belle donne? guardate quelle.» E vedete un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato di un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A forza d’esser disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato con tutti, perchè ognuno poteva essere uno de’ critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il Galateo; ma sapete quante belle cose si possono fare senza offender le regole della buona creanza; fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito diceva: «Eh già, in questo paese!»14 Vi dico che non eran pochi quelli che l’avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d’una cosa nell’altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione, senza poter forse nè anche lui conoscer la prima cagione di un così gran male.» Così il Manzoni pigliava non due, ma tre colombi ad una fava; conchiudeva la sua storia in un modo certamente insolito, per quanto sia sembrato umile; alludeva forse ai discorsi che si fecero in Milano intorno alla sua sposa, quando egli la menò dal contado bergamasco in Milano; e dava una sferzata allegra a que’ critici impazienti, che si preparavano a gettare il discredito sul libro prima che venisse pubblicato.
Io potrei ora proseguire questa indagine biografica manzoniana sopra i Promessi Sposi, ma temerei recarvi tedio. Non terminerò tuttavia senza avvertire come l’ottimo commento ai Promessi Sposi si possa fare soltanto a Lecco. Chi voglia ammirare veramente tutta la potenza artistica dell’ingegno manzoniano deve recarsi sopra la scena stessa del romanzo. Non mai si è rivelata meglio la virtù d’uno scrittore a idealeggiare il reale. Quello che il Manzoni aveva fatto degli uomini, lo fece pure de’ luoghi; col suo genio plastico gli espresse, con la sua fantasia poetica li sollevò, col suo proprio sentimento diede loro una tinta calda ed un calore simpatico. Il Manzoni, io l’ho già detto, aveva dovuto con suo grave dolore vendere la propria palazzina detta il Caleotto che sorge presso Lecco (ove il Manzoni possedeva pure alcune terre, come il suo Renzo un orto), in faccia ad Acquate ed al bel Resegone, e sovrasta all’Adda. V’è una leggenda a Lecco, che io vi ripeto come la intesi: secondo essa, dopo la vendita dolorosa de’ beni paterni, il Manzoni non sarebbe più tornato a Lecco, ma a ricordo de’ vecchi, un giorno, nel tempo in cui egli scriveva i Promessi Sposi, una vettura si sarebbe fermata in vista del Caleotto e di Acquate; in quella vettura vogliono che si trovasse il Manzoni, e che alla vista de’ cari luoghi della sua infanzia abbia dato in uno scoppio di pianto, e mancatogli il coraggio di scendere, egli sia invece ripartito prontamente per Milano, per sottrarsi alla vivezza del dolore subitamente provato. Sia storia o storiella, questo racconto esprime, in ogni modo, il sentimento vivissimo che il Manzoni aveva, senza dubbio, del panorama incantevole ch’egli aveva più volte, essendo fanciullo, ammirato dal suo Caleotto. Si direbbe che di là tutti i luoghi principali de’ Promessi Sposi non solo s’abbracciano con gli occhi, ma si pigliano, per così dire, con le mani. La viottola, per la quale passeggiava Don Abbondio, la chiesa d’Acquate, la casa di Agnese e di Lucia, la palazzina di Don Rodrigo, il Resegone, il convento di Pescarenico, il passo del Bione, le rovine del supposto castello dell’Innominato, tutto si spiana alla vista di chi contempli la scena ridente e svariata dal Caleotto. Chi visita ora que’ luoghi li trova certamente bellissimi; ma bisogna proprio visitarli per vedere coi proprii occhi, con piena evidenza, quale meraviglioso artista, quale stupendo poeta anche scrivendo in prosa siasi rivelato il Manzoni.15 Nessuno che legga i Promessi Sposi in vista d’Acquate troverà una sola linea che si discosti dal vero; ma la poesia di quel vero prima di lui l’aveva forse sentita in parte qualcuno, egli la sentì e la espresse tutta; ecco, dunque, in qual modo il Manzoni è stato verista; ecco in qual modo io vorrei pure che lo diventassimo noi tutti, imparando nel tempo stesso da lui a fare molto con assai poco e non viceversa assai poco con molto. Di montagne come il Resegone se ne trovano certamente in Italia parecchie altre; ma quella è la montagna d’Acquate, cioè del villaggio, ove Renzo e Lucia son nati e cresciuti; tutti i loro ricordi, tutti i loro affetti sono là. Ma un signore prepotente viene a cacciare dal loro tetto, dal loro nido e disperde nell’esiglio i giovani fidanzati; allora il Resegone appare più bello, più grande, più poetico di tutti gli altri monti, perchè quel monte vuol dire ai fuggiaschi la patria; ed ecco, in qual modo naturale, il Manzoni converte l’addio di una povera contadina al suo villaggio in un vero inno commovente dell’esule italiano alla patria.
- ↑ Il Fauriel, scrive il Sainte-Beuve, s’andava proponendo, circa quel tempo, di comporre un romanzo storico, di cui avrebbe certamente collocata la scena nel Mezzodì della Francia, in una di quelle epoche ch’egli conosceva così bene. Dopo aver finito l’Adelchi, il Manzoni, abbandonata l’idea di una tragedia Spartaco, si mise anch’egli a pensare di comporre il romanzo Promessi Sposi. Circa lo stesso tempo, il suo amico Grossi s’occupava intorno ad un grande poema storico: I Lombardi alla prima Crociata. Era il tempo del grande ardore per l’Ivanhoe. Di qui nuove attivissime discussioni, e nuovo moto alle idee, sia per lettera, sia a voce, nel soggiorno del Fauriel in Italia (la Prefazione che precede il supplemento al secondo volume dei Canti popolari della Grecia del Fauriel reca la data di Brusuglio vicin di Milano) dal 1823 al 1825. Discutevasi, per esempio, come questione principale tra i due amici, intorno al modo d’innestare la storia con la poesia, senza che l’una noccia all’altra. Il Fauriel inclinava a credere che, quindi in poi, la lotta condurrebbe la poesia propriamente detta a rimanere ogni dì più soccombente. Il Manzoni pensava altrimenti, e sosteneva contro le apparenze e i cattivi pronostici che la poesia non ha volontà di morire. E tutti due s’accordarono a dire che, in un certo sistema di romanzo, «c’è posto per l’invenzione de’ fatti nella rappresentazione di costumi storici.» Ebbene, la è questa appunto, replicava il Manzoni, una di quelle forze potentissime che restano tuttavia alla poesia, la quale, com’io vi diceva, non ha volontà di morire. La narrazione storica non è fatta per lei; giacchè il racconto de’ fatti ha virtù di svegliare nell’uomo, naturalmente e ragionevolmente curioso, una tale attrattiva da disgustarci delle invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare fino a farle parere puerili. Ma riunire i caratteri distintivi di un’epoca della società, rischiararli o porli in moto con un’azione, profittar della storia senza mettersi in concorrenza con essa, senza pretender di fare quel che essa sa far meglio sicuramente, ecco ciò che mi sembra tuttavia riservato alla poesia; che anzi essa sola può fare. «Non crediamo ingannarci (soggiunge il Sainte-Beuve), epilogando per tal modo l’opinione del poeta.»
- ↑ Ecco le parole proprie del Filangieri, quali si possono leggere nel libro IV, capo 40, art. 3°, della Scienza della Legislazione: «Io propongo la lettura de’ romanzi pe’ fanciulli che sono giunti all’età che si richiede secondo l’ordine da noi esposto (cioè l’età di nove anni compiuti), per assistere ai morali discorsi. Ma quali debbono essere questi romanzi? quali i soggetti, sui quali formar si dovrebbero? Ogni condizione può avere i suoi eroi, può avere i suoi mostri. Presso tutte le nazioni, in tutte l’età, in tutti i Governi, se ne trovano in tutte le classi dello Stato. I cenci dell’ultimo cittadino e la toga del primo magistrato nascondono spesso le più grandi virtù e i vizii più vili. L’occhio del filosofo penetra a traverso di questo velo, nel mentre che il volgare non vi vede che cenci e toga. Su questi fatti che l’istorie di tutti i tempi ci manifestano, formar si dovrebbero i romanzi, de’ quali io parlo. L’eroe esser dovrebbe della classe, della quale son coloro, a’ quali ne vien destinata la lettura. L’agricoltore dunque, il fabbro, il semplice soldato, o il duce che ha cominciato dall’esserlo, e che ha condotto l’aratro prima di condurre la legione, somministrar dovrebbero il soggetto e l’eroe dei romanzi che pe’ fanciulli di questa classe io propongo. L’arte dello scrittore esser dovrebbe di mettere nel maggior aspetto quelle virtù così civili come guerriere che sono più alla portata degl’individui di questa classe; di dipingere co’ colori più neri que’ vizii, ai quali sono più esposti; di fecondare que’ semi dell’amor della patria o della gloria, che si van gittando in tanti modi nel cuore de’ nostri allievi, e d’ispirare quell’elevazione di animo, ch’è altrettanto più gloriosa, quanto meno si combina colla ricchezza delle fortune e coll’originaria dignità della condizione. Io vorrei che il soggetto de' romanzi fosse per lo più un fatto vero, e non interamente immaginato, e vorrei che l’autore ne assicurasse colui che legge. È incredibile quanto questa prevenzione ne renderebbe più efficace la lettura. La moltiplicità e l’eccellenza delle opere che son comparse in questo genere presso tutte le nazioni, ed in tutte le lingue dell’Europa, renderebbe molto facile la collezione di questi romanzi d’educazione che io propongo. Gli effetti e i vantaggi, che ne produrrebbe la lettura, sono noti a chiunque conosca la forza dei sentimenti e l’influenza che questi aver possono sulla formazione del carattere e sullo sviluppo delle passioni.»
- ↑ Questa notizia ch’io rilevo da una lettera del professore Giovanni Rizzi, trova pure conferma nelle seguenti parole del Buccellati: «Rattristato, per i rovesci del 1821, la morte e la prigionia degli amici, (il Manzoni) disse a Grossi ch’egli non potendo più vivere a Milano, intendeva ritirarsi colla famiglia a Brusuglio. Grossi trovò savio il pensiero di Manzoni, e se ne valse anche per suo conto, seguendo l’amico nel suo eremitaggio. Tra i libri che Manzoni portava seco da Milano eravi la Storia del Ripamonti e l’Economia e Statistica del Gioia, in cui si trovano citate le Gride contro i Bravi e gl’inconsulti Decreti annonarii. Oh! che tempi, diceva Manzoni a Grossi, segnando specialmente le pagine del Ripamonti che alludono all’Innominato. Sarebbe bene porre sottocchio in modo evidente questa istoria....»
- ↑ Lo riferisco, quantunque notissimo, perchè nella biografia manzoniana sembrami avere una importanza speciale:
«.... La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso; non incurvato, nè impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale; tutte le forme del volto indicavano che, in altra età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’Innominato il suo sguardo penetrante; ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d’una tal visita, tutt’animato: «Oh!» disse, «che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione: quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!»
«Rimprovero!» esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e quel fare, e contento che il Cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.
«Certo, m’è un rimprovero,» riprese questo, «ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.»
«Da me voi! sapete chi sono? V’han detto bene il mio nome?»
«E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi, che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza, de’ suoi poveri servi.»
L’Innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, nè era ben determinato di dire; e commosso, ma sbalordito, stava in silenzio. «E che?» riprese ancor più affettuosamente Federigo: «voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual’è questa buona nuova che aspettate da un par mio.»
«Che Dio v’ha toccato il cuore e vuol farvi suo,» rispose pacatamente il Cardinale.
«Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?»
«Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?»
"Oh, certo! ho qui qualche casa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?»
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose; «Cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere....» (l’Innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provare sdegno, anzi quasi un sollievo): «Che gloria,» proseguiva Federigo, «ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse, voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! Alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora.... Allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io, pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal signore? Cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di sentimento? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? O pensate! se io omiciattolo, io miserabile e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono, oh pensate! quanta, quale debba esser la carità di Colui che m’infonde questa, così imperfetta, ma così viva, come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora!» A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e confusa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.» - ↑ «Nell’Italia nostra (vi si diceva) vi sono tuttavia gli Aristotelici delle Lettere, come vi furono della Filosofia; e sono quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro sguardi sul conio di una moneta, senza mai valutare la bontà intrinseca del metallo e corron dietro e preferiscono nel loro commercio un pezzo d’inutile rame, ben improntato e liscio, a un pezzo d’oro perfettissimo, di cui l’impronta sia fatta con minor cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non v’annunzino che idee inutili o volgarissime, ma sieno le parole ad una ad una trascelte, e tutte insieme armoniosamente collocate nei loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora, se una voce, se un vocabolo, una sconciatura risuona al loro piccolissimo organo, ve la ributtano come cosa degna di quella.»
- ↑ «Due però (scrive il Manzoni) erano i libri che Don Ferrante anteponeva a tutti e di gran lunga in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre Segretario fiorentino; mariuolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto.»
Il Manzoni dovea pensare ne’ suoi studii storici un po’ come il suo Don Ferrante: «Ma cos’è mai la storia senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e, per conseguenza, butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida.»
L’Autore entra spesso in iscena anche come attore. Così dopo aver fatto una descrizione, forse un po’ troppo minuta della biblioteca di Don Ferrante, soggiunge: «Noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia di andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però lasciando scritto quel che è scritto per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada.» - ↑ È il Manzoni stesso che ce lo fa sapere in una sua letterina a Cesare Cantù, il quale, valendosi, com’è noto, in gran parte dei materiali di studio dei Promessi Sposi che avevano servito al Manzoni, compose il suo Commento storico ai Promessi Sposi: «L’Innominato (scriveva il Manzoni) è certamente Bernardino Visconti. Per l’aequa potestas quidlibet audendi ho trasportato il suo castello nella Valsassina. La duchessa Visconti si lamenta che le ho messo in casa un gran birbante, ma poi un gran santo." Nella Valsassina aveva avuto signorìa, nel tempo in cui è collocata l’azione del romanzo, la casa Manzoni. L’aver fatto l’Innominato il signore della Valsassina parmi un altro segno evidente che il Manzoni voleva, in qualche modo, rappresentar sè stesso nell’Innominato, per l’aequa potestas quidlibet audendi. Vogliono che il Manzoni un giorno a chi lo ringraziava del bene ch’egli avea fatto co’ suoi scritti, rispondesse; "Senta, se c’è un nome che non meriti autorità, questo nome è il mio. Lei forse non sa che io fui un incredulo e un propagatore d’incredulità e con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo.»
- ↑ «Lodovico (scrive il Manzoni) aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’aveano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello, a cui era accostumato; e vide che a voler esser della loro compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza o di sommissione, star sempre al di sotto e ingozzarne una ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, nè con l’educazione, nè con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico, perchè gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili.»
- ↑ Forse vi è pure qualche cosa delle idee di quel parroco conosciuto dal Manzoni, nel battibecco fra Agnese e Don Abbondio sul titolo da darsi al cardinal Federigo «illustrissimo» o «monsignore» o «eminenza,» ove Don Abbondio prova che il Papa ha decretato che i Cardinali si chiamino eminenze, perchè troppi si appropriarono il titolo d’illustrissimi. Un giorno, è vero, si chiameranno tutti eminenze, gli abati, i proposti, ma intanto per un po’ di tempo, perchè gli uomini son fatti così, sempre voglion salire, sempre salire, i soli curati a tirar la carretta, e a pigliarsi del reverendo fino alla fine del mondo. Piuttosto, non mi meraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell’illustrissimo, a esser trattati come i Cardinali, un giorno volessero dell’eminenza anche loro. E se lo vogliono, vedete, troveranno chi gliene darà. E allora il Papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali.»
- ↑ Enrichetta Blondel, moglie del Manzoni, morì cinque anni dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi nel 1833, e il Manzoni ne rimase per lungo tempo inconsolabile. Il Tommaseo ricordava, in proposito, un aneddoto commovente: «Il Manzoni era a Stresa per assistere all’agonìa dell’amico Antonio Rosmini; e fu soggetto d’ammirazione agli astanti la venerazione figliale di lui più vecchio ed il cordoglio di quella morte; e io posso dire quanto profondamente (non parendo ai profani) egli sentisse i dolori. Rincontratomi seco a Stresa, e caduto il discorso su Virgilio (religione dell’anima sua) rammentando io quel sovrano concetto d’Evandro: Tuque o sanctissima coniux, felix morte tua, egli continuava la citazione: neque in hunc servata dolorem, accompagnandola coll’atto del viso e della mano abbandonata sul ginocchio, e sentì la diletta e venerata sua moglie, la sua ispiratrice, della quale consunta da lento languore ei diceva con parole degne di chi ci ritrasse Ermengarda morente: — Tutti i dì la offro a Dio, e tutti i dì gliela chieggo. — Veggasi pure quanto scrive in proposito il professor Prina nel suo diligente Studio biografico sopra il Manzoni.
- ↑ Il Tommaseo, scrivendo al signor Giovanni Sforza, gli diceva: «Nel marzo (1827) egli (Manzoni) stava scrivendo gli ultimi fogli, e io sul principio di quell’anno o sulla fine del precedente lessi buona parte del terzo volume all’abate Rosmini che, passeggiando la sua stanza, sorrideva e ammirava. Un giorno che Don Alessandro correggeva le bozze e le metteva al sole che s’asciugassero: vede che ho qualcosa anch’io al sole, coll’arguzia solita, nel vedermi entrare, sorridendo egli disse.»
- ↑ Del rumore che fecero al loro apparire i Promessi Sposi, possiam prendere argomento dalle seguenti parole di Paride Zajotti, il critico della Biblioteca Italiana: «Alessandro Manzoni conduce in Italia la scuola romantica; nè la placidezza della sua vita, nè la dignitosa temperanza dell’alto suo ingegno valsero a liberarlo da questo onore pericoloso, cui necessariamente lo solleva la fama universale delle sue opere, e il bisogno riconosciuto da’ suoi seguaci di ripararsi sotto un gran nome. Non è quindi a maravigllare, se le sue scritture al primo venire in luce destano una commozione sì viva, e chiamano tosto i partiti a sdegnose e gareggianti parole; i classicisti non gli vogliono permettere d’acquistar tanta gloria violando i loro antichi precetti, e i romantici menano un romoroso trionfo, attribuendo alla bontà de’ nuovi principii le lodi unicamente debite all’eccellenza del loro maestro.» Più volgarmente il prete Giuseppe Salvagnoli Marchetti, il quale nell’anno 1829 pubblicava in Roma un opuscolo contro gl’Inni Sacri di Alessandro Manzoni, per far dispetto al Borghi che gli ammirava, gl’imitava e non volea le lodi del Salvagnoli se quelle lodi doveano tacitamente contenere un biasimo agl’Inni manzoniani, confessa la popolarità, di cui godevano fin da quell’anno i Promessi Sposi. Dicendo egli al proprio libraio che non avea ancora letto il romanzo del Manzoni, fa poi che il libraio malignamente gli soggiunga: «Si tollererebbe più volentieri il non aver letto Dante che i Promessi Sposi oggidì.» Il libraio gli offre venticinque zecchini, a patto ch’ei scriva contro i Promessi Sposi; il Salvagnoli finge ricusare il compenso larghissimo, per questa sola ragione, ch’egli non suol leggere nè insegnare «una storia corretta e rifatta in un romanzo.» Chè se consente a scrivere contro gl’Inni Sacri, l’invidia non c’entra. «Non invidio (egli scrive) il Manzoni, perchè non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di vero.» La critica dell’opera manzoniana fu in parte pubblica, in parte privata. Lo stesso critico della Biblioteca Italiana fin dall’anno 1827 ce ne avverte: "I varii giudizii, che diedero di quest’opera le pubbliche stampe e i privati discorsi, cominciarono a dividersi già sul principio di essa, dove si venne a disputare se le convenisse il nome di romanzo che l’Autore non le aveva assegnato.... troppo oziosa è la disputazione de’ nomi, quando il giudizio della cosa stessa non ne dipende. Non manca mai chi voglia seguire l’esempio dell’Addison, il quale, negandosi il titolo di poema epico al Paradiso perduto, solea chiamarlo poema divino; e noi medesimi, quando veggiamo per un sì tenue soggetto così accese battaglie, amiamo ripetere sotto voce la sentenza del poeta persiano: che importa alla rosa che le si cambi il nome, se le rimane il suo usato profumo? E pure lo stesso critico, da principio al fine del suo esame, si mostra incontentabile, fin che conchiude lagnandosi che il Manzoni non abbia frammischiato al suo racconto qualche lirica potente sacra o guerresca o cittadina. Il critico non dovette esser solo a muover questo lamento, e chi sa che non gli tenesse bordone in quell’anno lo stesso Grossi, il quale nel Marco Visconti introdusse poi le sue due più belle liriche.
Lo stesso critico Zajotti, dopo aver notato come, per cagione dell’abate Chiari, fosse caduto in basso il romanzo italiano, avverte quello che occorreva per farlo vivere onorato: "A cancellare quella macchia, a rimettere nella vera sua sede l’onesto romanzo, era necessario che sorgesse un uomo ricco di qualità rarissime, e troppo difficili ad essere congiunte in un solo. Ei doveva aver bollente l’ingegno ed il cuore, ma saperli tenere a freno, chè la fantasia non gli avesse a travolgere; dovea conoscere gli uomini, e tuttavia poterli amare, conoscere le passioni, ma, coll’averne trionfato, sapere come si vincano. All’antica erudizione gli era d’uopo unire la nuova sapienza, e l’una e l’altra ravvivare col fuoco d’una splendida immaginativa. Nè questo ancora gli poteva bastare. Bisognava che la sua fama fosse superiore non all’invidia, ch’è impossibile, ma sì alla calunnia; bisognava che, circondato da bellissima gloria acquistata con opere di alta letteratura, non avesse a temere la taccia di frivolità impressa da noi agli studii del romanziere; bisognava finalmente che il suo nome amato dai buoni e riverito anche dai malvagi presentasse l’idea delle più insigni virtù religiose e morali, e solo bastasse colla sua dignità a liberare da ogni sospetto i romanzi. Ma dove rinvenire quest’uomo e come sperarlo? La fortuna ha prosperato l’Italia, e quest’uomo è Alessandro Manzoni. La sola notizia che l’Autore dell’Adelchi, il Poeta degl’Inni Sacri scriveva un romanzo, nobilitò la carriera, e trasse alcuni chiari intelletti ad entrarvi.n 1
«Il vero ostacolo, il solo che l’ingegno abbandonato a sè stesso non potea vincere, fu pienamente atterrato; gli altri impedimenti, che sarebbe troppo facile annoverare, cadranno di leggieri innanzi al passo animoso degl’Italiani. Nei due secoli della nostra gloria noi avemmo romanzi eccellenti: perchè dovrebbero mancarci nel terzo, ora ch’è sgombra la strada a raccor questa palma? Tutta la terra è scena conveniente ai racconti del romanziere; ma se, com’è desiderio giusto comune, gl’Italiani vorranno rimanersi in Italia, chi potrà sorpassarli nella varia descrizione dei costumi e dei luoghi? Ov’è il paese più favorito dalla natura e dal cielo? Ove sono i campi guardati con più amore dal sole? Ed infinita è la diversità delle costumanze e degli usi. Ogni montagna, quasi ogni fiume, divide due popoli vicini, e tuttavia fra loro distinti come due lontanissime genti. Roma, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, sembrano altrettante nazioni, che risalendo fino alle loro origini si trovano sempre uguali a sè medesime, ma sempre differenti nelle pratiche della vita civile. L’indole e perfino il modo di pensare n’è diverso, come la storia. Quale mèsse ricchissima pel romanziere che ha da descrivere una tanta delizia, un tanto orrore di luoghi, e può rappresentare sì svariati costumi e con sì facili combinazioni metterli insieme a contrasto! Non ci rimane alcun dubbio, la vittoria in corto volgere d’anni sarà nostra, se il mal augurato romanzo storico non affascina gl’ingegni.» Imprende quindi il critico a biasimare l’uso di mescolare il romanzo con la storia, e il biasimo suo conforta di molte buone ragioni, parecchie delle quali dovettero far pensare e persuadere il Manzoni, che s’accinse quindi egli medesimo a giudicare il romanzo storico, per condannarlo senza riguardo. - ↑ Il Manzoni si destreggiava contro i suoi critici e contro gli amici dissidenti press’a poco come quel giudice di pace, di cui egli stesso ci ha parlato nel suo ingegnoso e formidabile Discorso sul Romanzo storico: «Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa di un giudice di pace in Milano, val a dire molt’anni fa. L’aveva trovato tra due litiganti, uno de’ quali perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: Avete ragione. Ma, signor giudice, disse subito l’altro, lei mi deve sentire anche me, prima di decidere. È troppo giusto, rispose il giudice, dite pure su, che v’ascolto attentamente. Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene, che il giudice gli disse: Avete ragione anche voi. C’era lì accanto un suo bambino di sette od ott’anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di stare anche attento al contradittorio; e a quel punto alzando un visino stupefatto, non senza un certo che d’autorevole, esclamò: Ma babbo! non può essere che abbiano ragione tutt’e due! Hai ragione anche tu, gli disse il giudice. Come poi sia finita, o l’amico non lo raccontava, o m’è uscito di mente; ma è da credere che il giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio, quanto a Sempronio, che se aveva ragione per una parte, aveva torto per un’altra.»
- ↑ Si confronti quello che fin da giovine il Manzoni scriveva da Parigi a’ suoi amici lombardi, e ciò che la moglie scriveva di lui nel 1820 al Tosi. Probabilmente il Manzoni avrà parecchie volte prima della pubblicazione de’ Promessi Sposi lamentata la indifferenza, la malignità italiana, la quale doveva rincrescergli tanto più dopo essere stato ammirato dal Fauriel e dal Goethe.
- ↑ Colgo l’occasione per ringraziare l’egregio Antonio Ghislanzoni che mi fu guida intelligente e simpatica nel mio pellegrinaggio artistico ai luoghi manzoniani.
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