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I RACCONTI DI AVVENTURE

DI

EMILIO SALGARI


ALLA CONQUISTA

DELLA LUNA



Alcuni anni or sono, i pochi abitanti di Allegranza, un piccolo isolotto del gruppo delle Canarie, venivano bruscamente svegliati da un colpo di cannone il cui rimbombo s'era ripercosso lungamente fra quelle aride rocce, bruciate dall'ardente sole africano.

Un colpo di cannone per quegl'isolani, che vivevano così lontani da qualsiasi terra considerevole, e che solo a lunghi intervalli vedevano qualche piccolo veliero entrare nella baia dell'isolotto per provvedersi d'acqua ed imbarcare qualche partita di pesce secco, era un tale avvenimento da metterli nella più viva curiosità.

La nave che aveva annunziato il suo arrivo con quel colpo, non era uno dei soliti velieri, bensì un bel vapore dipinto in grigio e che inalberava sull'albero di maestra la bandiera brasiliana.

Non era di grossa portata; se fosse stato di mole considerevole non avrebbe potuto trovare fondo sufficiente nella piccola baia; tuttavia era un bel piroscafo che doveva stazzare almeno cinque o seicento tonnellate, come asseriva José Faja, il più vecchio e rispettato dei pescatori dell'isola e che nella sua gioventù aveva navigato il mondo in lungo ed in largo.

Tutta la popolazione, dunque, una quarantina di persone, fra uomini e donne, si era rovesciata sulla spiaggia, attratta da quella inaspettata novità.

In vent'anni era il secondo battello a vapore che s'era degnato mostrarsi agli sguardi degli isolani: meritava quindi la pena di andarlo ad ammirare.

Tutti si erano affollati attorno al vecchio Faja, che, nella sua qualità di marinaio, doveva saperla più lunga di tutti, chiedendogli il suo parere su quella visita straordinaria.

— Che cosa verrà a fare qui, che non vi è nulla da imbarcare fuorchè delle pietre? — si chiedevano tutti, guardando il vecchio.

— Non posso dirvi altro che è una bella nave a vapore, che deve camminare come una dorata — rispondeva l'ex marinaio. — Quando l'equipaggio verrà a terra, ne sapremo di più.

Il battello a vapore, dopo quel colpo di cannone, era entrato lentamente nella baia, scandagliando con precauzione il fondo, per non correre il pericolo di arenarsi; poi aveva gettato le sue àncore, senza occuparsi dei curiosi che si affollavano sulla riva.

Terminate quelle manovre, gli uomini che formavano l'equipaggio erano scomparsi sotto coperta e più nessuno si era fatto vedere, nè alcuna scialuppa era stata calata in mare.

Il vecchio Faja non sapeva che pensare. Se quella nave era entrata nella baia, non era certo per riposarsi. Qualche motivo ci doveva essere per approdare a quell'isolotto, che non offriva nulla di attraente, fuorchè rocce e rupi con pochi fili di erba e pochi alberi semibruciati dal sole.

Durante quella prima giornata, gl'isolani attesero invano che qualcuno sbarcasse.

Verso sera, invece, due grosse scialuppe furono calate dalla nave e trasportarono a terra un bel numero di casse accuratamente numerate ed una certa quantità di legname, che pareva destinato alla costruzione di una capanna o di qualche cosa di simile.

Faja, che sapeva qualche parola brasiliana, si provò ad interrogare i marinai e non ebbe alcuna risposta. Tutti quegli uomini parevano muti.

Senza darsi alcun pensiero degl'isolani, disposero le casse in bell'ordine, poi scavarono un fosso profondo, di forma circolare, ed eressero una palizzata abbastanza alta per impedire ai curiosi di vedere nell'interno.

Compiuti quei lavori e chiusa la palizzata con un robusto cancello di ferro con doppi chiavistelli, i marinai tornarono a bordo del piroscafo, senza aver pronunziato una sola parola.

— Non capisco nulla — disse il vecchio Faja, un po' indispettito. — L'isola appartiene a noi e quegli stranieri ne dispongono come se fosse di loro proprietà. Se domani il comandante del piroscafo non ci darà spiegazioni, parola da marinaio che farò bruciare la cinta e anche le casse.

— E noi ti aiuteremo, Faja — gridarono in coro gl'isolani.

— Andiamo a dormire e a domani — disse il vecchio.

All'alba l'ex marinaio era già in piedi, ben deciso di recarsi dal comandante e di dirgli ad alta voce che quell'isola era proprietà del Governo spagnuolo e non già del brasiliano; invece, con sua profonda sorpresa, non vide più la nave.

I Brasiliani, approfittando del sonno degl'isolani, se n'erano andati, senza degnarli d'un colpo di cannone come saluto.

Alcuni pescatori, che si erano alzati per tempo al pari di lui, lo avevano raggiunto, mostrandosi non meno stupiti per quell'improvvisa partenza della nave.

Avevano però constatato che la cinta non era stata levata e che le casse non erano state toccate.

— Vecchio Faja — disse uno dei pescatori — ci capisci qualche cosa di quell'improvvisa fuga di quei misteriosi naviganti?

— Meno d'ieri — rispose l'ex marinaio.

— E quel recinto perchè l'avranno inalzato? — chiese un altro.

— E quelle casse che cosa conterranno? — chiese un terzo.

— Se contenessero delle macchine infernali cariche di dinamite per far saltare l'isola e provare la potenza di qualche nuovo esplosivo! — esclamò Faja, con spavento.

Quelle parole avevano terrorizzato di colpo quei bravi pescatori, i quali avevano una cieca fiducia nell'ex marinaio. Stavano per darsela a gambe per rifugiarsi sulle rive occidentali dell'isola, quando uno di loro li fermò, dicendo

— Vedo due uomini nel recinto!

Tutti si erano fermati. Se vi erano delle persone fra quelle casse, non vi era più da temere un'esplosione. Non sarebbero stati così stupidi da saltare in aria assieme al recinto.

— Andiamo a interrogarli — disse Faja, che aveva riacquistato prontamente il suo coraggio. — Si spiegheranno o li metteremo in un canotto e li affideremo alle onde.

Scese verso la riva seguìto dai pescatori e, giunto dinanzi al cancello, si annunziò con un clamoroso:

— Oh, signori! Che cosa fate qui?

I due stranieri erano occupati ad aprire delle casse, dalle quali traevano degli specchi colossali che deponevano al suolo, uno sull'altro, con infinite precauzioni.

Entrambi erano attempati, quasi calvi e portavano occhiali. Avevano più l'aspetto di scienziati o di professori che di gente di mare.

Vedendo Faja, uno dei due che aveva una lunga barba bianca e che pareva il più anziano, aprì il cancello e salutò cortesemente l'ex marinaio con un:

— Buon giorno, mio caro isolano.

Faja, un po' sconcertato da quell'accoglienza e dall'aspetto grave di quei due personaggi, era rimasto qualche istante muto, poi fattosi animo rispose:

— Perdonate, signori, se noi siamo venuti a disturbarvi, ma...

— Niente affatto — rispose lo sconosciuto.

— Comprenderete... un po' di curiosità... e poi l'isola appartiene al Governo spagnuolo, che mi ha nominato alcade, e...

— Vi capisco — disse lo sconosciuto, sorridendo. — Voi desiderate sapere, signor alcade, perchè noi siamo sbarcati senza chiedere il permesso e che cosa siamo venuti a fare qui. Rassicuratevi: non abbiamo alcuna intenzione di disputare al Governo spagnuolo la proprietà dell'isola, nè di recare danno alcuno ai suoi sudditi.

«Noi siamo due tranquilli scienziati brasiliani, incaricati di tentare un grande esperimento che farà epoca nel mondo: andiamo a tentare la conquista della luna.

— Oh! — esclamarono i pescatori, guardandosi uno con l'altro, con uno stupore impossibile a descrivere.

— Intanto — proseguì lo scienziato — siccome noi abbiamo occupato un terreno che appartiene al Governo spagnuolo, accettate, signor alcade, queste cento piastre.

Consegnò a Faja una borsa, poi con un gesto lo congedò, dicendo:

— Abbiamo molto da fare e vi prego di lasciarci tranquilli.

Faja, contento di quel tesoretto, se ne andò coi suoi pescatori, più che mai convinto di aver da fare con due pazzi.

La conquista della luna! Decisamente quei due stranieri, malgrado la loro serietà, dovevano avere il cervello sconvolto.

Comunque fosse, Faja diede ordine ai suoi compagni di non importunare in modo alcuno i due stranieri e di lasciarli fare il loro comodo.

La curiosità degl'isolani era diventata però così intensa che passavano delle giornate intere sulle rupi, che dominavano la spiaggia, e di conseguenza anche il recinto che era riparato da una piccola tela, la quale non impediva che si potesse comodamente scorgere ciò che facevano là dentro i due scienziati.

Questi passavano i loro giorni ora facendo delle lunghe osservazioni sul sole e sulla potenza del suo calore, ora a levare continuamente oggetti dalle casse.

Avevano già fabbricato una macchina strana, che rassomigliava ad una cupola, con la parte superiore formata da lastre solidamente incastrate in telai che parevano d'alluminio, e la inferiore coperta di specchi immensi e di una serie di doppie eliche, che si vedevano funzionare senza posa, anche dopo il tramonto dell'astro diurno.

Che cosa fosse, nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Anche Faja che, avendo girato il mondo, doveva sapere tante cose e anche averne vedute molte, invano si lambiccava il cervello.

Solo cominciava a credere che quei due scienziati non fossero così pazzi come li aveva dapprima giudicati.

Erano trascorsi dieci giorni dalla partenza del misterioso piroscafo, quando un dopopranzo gl'isolani videro i due scienziati intenti ad abbattere il recinto.

Faja, avvertito che i due stranieri desideravano parlargli, si era affrettato a scendere sulla riva.

Lo scienziato dalla barba bianca lo ricevette e lo condusse dinanzi a quella strana macchina, i cui specchi percossi dal sole irradiavano un calore così intenso da non poter resistere.

— Noi stiamo per tentare il grande esperimento — gli disse.

— Quale? — chiese Faja.

— Di conquistare la luna.

— Ne siete ben certi? — chiese l'ex-marinaio, con tono di dubbio.

— Abbiamo, se non la certezza, almeno molta speranza — disse il vecchio. — Voi vedete questa macchina?

— Anche un cieco la vedrebbe, ma non so a che cosa potrebbe servire, specialmente con tutti quegli specchi.

— Chiamateli riflettori, signor alcade, o meglio ancora, insolatori.

«Basta orientarli a seconda della direzione dei raggi solari per ottenere uno sviluppo di calore così considerevole da mettere in movimento qualunque macchina.

«Essi danno a noi la forza necessaria per far funzionare gli apparecchi che si trovano sotto la cupola di cristallo, i quali dovranno mettere in moto tutte le ali ad elica, destinate a trasportarci in alto.

«Noi vogliamo tentare, con l'aiuto di quella novella forza, d'innalzarci a tale altezza non mai neppur sognata, fino ad uscire dall'orbita della terra e cadere sulla luna o su qualche altro astro, ciò che io ed il mio amico, dopo lunghi studi, crediamo possibile.

«Non sappiamo se il nostro tentativo, che può sembrarvi una pazzia, possa avere un esito felice o se finirà in un'orrenda catastrofe.

«Comunque sia, noi lasceremo alla scienza la nostra invenzione.

Prese un tubo di metallo, accuratamente chiuso, e lo consegnò all'ex marinaio, dicendo:

— Qui vi sono dei documenti riguardanti la nostra scoperta. Se un giorno una nave approderà alla vostra isola ed il suo comandante li reclamerà, voi non dovete esitare a consegnarli. Datemi la vostra parola, signor alcade.

— Ve lo prometto — rispose Faja.

— Prendete ora queste cinquecento piastre che dividerete coi vostri pescatori, ed ora addio. Se non torneremo più sulla terra, avremo dimostrato la possibilità di conquistare gli altri mondi.

Strinse la mano all'alcade, salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della cupola.

Faja ed i pescatori si erano allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa stava per succedere; d'altronde l'irradiazione proiettata da tutti quegli specchi era così ardente che le vesti degl'isolani minacciavano di prender fuoco.

I due scienziati, che si scorgevano benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole macchine a vapore, prive di camini.

Ad un tratto, gl'isolani videro le ali che si trovavano intorno alla cupola, un po' sotto gli specchi, girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la rapidità d'un uccello marino.

Scintillava come una massa di fuoco, lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che impedivano quasi di osservarla, s'alzava sempre sopra l'isola, mantenendo una verticale quasi perfetta.

Per parecchi minuti Faja ed i suoi compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa.

Indarno essi l'attesero, credendo di vederla da un momento all'altro precipitare sull'isola o sul mare.

La notte scese e la cupola non fu più veduta tornare.

Viaggiava fra gli spazi sconfinati del cielo, oppure era caduta sull'oceano ad una grande distanza? Mistero!

Trascorse una settimana, poi un'altra, infine molte altre senza che alcuna nuova pervenisse a Faja. A poco a poco i due scienziati furono dimenticati e più nessuno ne parlò. D'altronde tutti erano convinti che essi fossero caduti in mare e che fossero già morti.

Tre mesi erano passati, quando un giorno gl'isolani videro accostarsi all'isola, a tutto vapore, una piccola nave da guerra della Marina spagnuola, che pareva provenisse da Lanzarote, una delle più importanti isole del gruppo delle Canarie.

Faja, che si trovava sulle rive occidentali dell'isola, occupato a pescare, subito avvertito, era accorso alla baia per ricevere il comandante della nave che rappresentava per lui la patria lontana.

Era appena giunto, quando una scialuppa montata da dieci marinai e dal capitano del bastimento prese terra.

— Chi è l'alcade? — chiese il comandante.

— Sono io, signore — rispose Faja.

— Siete possessore d'un documento consegnatovi tre mesi or sono dai signori Carvalho e Souza?

— Due scienziati brasiliani?

— Sì — rispose il comandante.

— L'ho io.

— Mandatelo a prendere e raggiungetemi sulla mia nave.

Un quarto d'ora dopo Faja saliva sulla piccola nave da guerra, portando il cilindro di metallo che non aveva mai osato aprire, quantunque più volte ne avesse provato il desiderio, vinto da una curiosità del resto perdonabile.

Il comandante lo aspettava nella sua cabina, tenendo in mano un lungo cilindro di metallo, accuratamente chiuso ed eguale in tutto e per tutto a quello che aveva ricevuto Faja dai due scienziati brasiliani.

— Ascoltatemi — disse il capitano, dopo d'averlo pregato di sedere. — Un mese fa, una nave francese, che veniva dai porti dell'America del Sud, rinveniva a quattrocento miglia dalle coste del Portogallo questo cilindro galleggiante sull'Oceano e contenente un documento benissimo conservato. Sapete leggere il portoghese?

— Sì, signore — rispose Faja.

— Leggete — disse.

Faja, con uno stupore facile ad immaginarsi, lesse le seguenti parole:

«Lanciato sulla terra a novemilacinquecento metri. La nostra macchina funziona sempre perfettamente, mercè il calore proiettato dai nostri specchi e condensato nei nostri motori.

«Se nulla accade di contrario, noi fra tre ore avremo lasciato la zona d'aria respirabile e continueremo la nostra ascensione verso la luna o verso un astro qualsiasi.

«Se non potremo mai più tornare sulla terra o se il freddo ci assidererà, come temiamo, chi vorrà sapere chi noi siamo e con quale macchina ci siamo alzati, si rivolga all'alcade di Allegranza (isole Canarie), a cui abbiamo rimesso i nostri documenti prima di lasciare definitivamente la terra.


«Carvalho e Souza»

«Membri dell'Accademia Scientifica di Rio de Janeiro».


— Che cosa ne dite? — chiese il comandante.

— Che ciò che hanno scritto quei due scienziati è perfettamente vero — rispose Faja.

— Questo documento — riprese il comandante — è stato rimesso al Governo spagnuolo, perchè cercasse spiegare questo mistero, e per ordine del Ministero della Marina sono qui venuto per accertare se questi documenti realmente esistono.

— Quei due scienziati sono partiti tre mesi or sono, su una macchina in forma di cupola, munita di specchi immensi e di certe ali in forma di eliche, e tutti gl'isolani hanno assistito all'innalzamento di quei due uomini.

— Vediamo questo documento.

Il comandante prese il cilindro e lo svitò senza fatica, dopo d'aver spezzato quattro suggelli in piombo che portavano le iniziali di Carvalho e di Souza. Dentro vi erano quattro fogli in pergamena, accuratamente arrotolati e coperti da una calligrafia eguale a quella che si scorgeva sul documento raccolto in mare dalla nave francese. Un quinto, invece, conteneva un disegno ben dettagliato d'una macchina che Faja riconobbe subito: era precisamente di quella di cui si erano serviti i due scienziati per inalzarsi.

Il capitano spiegò i fogli e cominciò a leggere:


«Rio de Janeiro, 24 luglio 1887.


«La notizia della fondazione della Società solare, costituitasi a Parigi, e la scoperta degl'insolatori, fatta dall'americano Calver, ha suggerito a noi l'idea di costruire una macchina che potesse funzionare senz'altro bisogno che del calore del sole e permettere di tentare un'esplorazione nello sconfinato firmamento.

Le splendide prove date dagl'insolatori, che ora funzionano così magnificamente in varie città africane, mettendo in moto delle macchine che vengono usate per la distillazione dell'acqua, ci hanno convinti della possibilità della cosa.

Dopo lunghi studi e lunghe esperienze, noi siamo riusciti a costruire degl'insolatori di tale potenza, da poter accumulare tanto calore da fondere perfino il ferro. Portare l'acqua allo stato d'ebollizione anche la più intensa, e mettere in moto delle macchine poderose senza aver bisogno del carbone; era dunque un gioco per noi.

«Ottenuta la forza, abbiamo costruito dei motori e quindi una macchina volante, munita di eliche sufficienti per l'inalzamento.

«La riuscita è stata così completa da tentare un grandioso progetto che da lunghi anni turbava il nostro cervello: di muovere, cioè, alla conquista della luna, o per lo meno di tentare un'esplorazione fuori dei confini dell'aria respirabile.

«A tale uopo e per poter resistere senza esporci ai freddi intensi che supponiamo, a ragione, di dover sfidare nel nostro inalzamento, abbiamo munito la nostra macchina volante di una cupola di cristallo, assolutamente chiusa, portando con noi cilindri di ossigeno per rinnovare l'aria interna.

«Riusciremo nella nostra temeraria impresa? Noi ne siamo fermamente convinti.

«I nostri insolatori ci forniranno abbastanza calore per poter far funzionare le nostre macchine anche di notte e per poter resistere ai grandi freddi, per quanto intensi possano essere. Quindi non possiamo temere di morire assiderati, nè di vedere le nostre macchine arrestarsi, il che accadendo, il nostro viaggio terminerebbe in una spaventevole caduta.

Noi speriamo un giorno di ridiscendere sulla terra. Se ciò non dovesse avvenire, considerateci pure come morti.

«Carvalho e Souza»


Il capitano, terminata la lettura, si era alzato, fermandosi dinanzi a Faja.

— Che cosa ne dite voi di tutto ciò? — gli chiese.

— Io nulla posso dire, signore, fuorchè d'aver veduto quei due scienziati inalzarsi dinanzi i miei occhi. È a voi, signor comandante, che volevo chiedere se credete che essi possano essere riusciti nel loro intento.

— Io sono convinto che non abbiano potuto attraversare la massa d'aria che circonda la nostra terra e che abbiano finito per ricadere, ammenochè continuino a girare intorno al globo. Si faranno delle ricerche e vedremo se si potrà sapere qualche cosa di quei due audaci.

La sera stessa la piccola nave da guerra lasciava Allegranza, conducendo con sè l'alcade, e faceva rotta per Cadice.

Il Governo spagnuolo e gli scienziati d'Europa si erano già vivamente preoccupati per fare delle indagini a fine di chiarire la sorte toccata ai due brasiliani, tanto più che due altri documenti, affatto simili al primo, erano stati pescati, uno nell'Atlantico meridionale e l'altro nell'Oceano Pacifico a duecentocinquanta miglia dalle coste del Chilì.

Furono mandati ordini in tutte le colonie e furono pregati i capitani delle navi di fare ricerche negli oceani, con la speranza di trovare almeno qualche frammento di quella macchina straordinaria, ma senza risultato.

Fu solo quattordici mesi dopo che si potè sapere qualche cosa dell'esito di quel viaggio che aveva tanto commosso il mondo scientifico.

Una nave inglese, proveniente dai porti della Cina, aveva raccolto un uomo che aveva trovato su un'isoletta disabitata delle isole Condor, a sud della penisola indomalese.

Era un vecchio di sessanta e più anni, che aveva il volto coperto da una lunga barba e non aveva indosso alcun indumento.

Dapprima era stato preso per un naufrago, poi da alcune frasi sconnesse il comandante della nave aveva potuto capire che quell'uomo, che doveva essere diventato pazzo, non era approdato su quell'isolotto con una nave, nè con una scialuppa.

Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa attraverso gli spazi celesti, e di essere di nazionalità brasiliana e di chiamarsi Souza.

Condotto a Calcutta ed interrogato lungamente, aveva confermato, dopo lunghe esitazioni, quanto aveva narrato al capitano che lo aveva trovato nell'isolotto deserto.

Disgraziatamente quell'uomo era pazzo e non riusciva a dare chiare spiegazioni sul modo con cui era giunto su quella terra. La sola frase che ripeteva, era sempre la medesima

— Sono caduto dal cielo.

Condotto a Rio de Janeiro, non fu possibile stabilire se si trattava veramente del membro dell'Accademia scientifica che quindici mesi prima era partito assieme a Carvalho per tentare quel viaggio meraviglioso. Alcuni suoi vecchi amici avevano affermato di riconoscerlo per Souza, altri lo avevano negato; era bensì vero però che il viso del povero pazzo era coperto di cicatrici che parevano prodotte da profonde bruciature; e che dovevano renderlo irriconoscibile, anche ai suoi stessi amici.

Ad ogni modo vani furono tutti i tentativi per identificarlo.

Fu rinchiuso in una casa di salute dove visse alcuni anni, ripetendo sempre, a chi lo interrogava — Sono caduto dal cielo.

Si trattava del vero Souza o di un altro? Mistero.

Il fatto sta che, per quante ricerche fossero fatte, più nulla si potè sapere della macchina innalzatasi sull'isolotto di Allegranza.

È probabile che per qualche causa fosse caduta e che dei due scienziati il solo Souza – chi sa per quale miracolo – fosse sfuggito alla morte, salvandosi su quell'isolotto sperduto nell'Oceano Indiano.


FINE

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