< Alla scoperta dei letterati
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Arturo Colautti
Matilde Serao Roberto Bracco





















Napoli, decembre del ’94.



In questo mio lungo e piacevole pellegrinaggo verso gli dei veri o bugiardi della letteratura nostra, io ormai ho udito molti strani pensieri e più strane favelle; ma, perdio, non ho mai sofferto a tradurre dalla memoria su la carta le opinioni udite tanto quanto adesso dopo il lungo colloquio mio con Arturo Colautti. Rivedo ancora quell’angolo del bianco Gambrinus di Napoli, dove sedemmo per due o tre ore intorno ai cibi che restavano dimenticati sul piatto o si mangiavano a metà malamente freddi; rivedo la nera barba caprina dell’amico geniale tormentata dalle candide mani nervose; rivedo la sua testa calva accesa dalla discussione; rivedo i suoi occhi scialbi, grigiastri, fissi per tante ore su me nell’intensità dell’argomentazione così che dopo, quasi ammaliato, non potevo guardare gli specchi o gli stucchi o la tovaglia o il pavimento senza sentirli innanzi a me sempre presenti ed arguti. Che mulino incessantemente roteante per stritolare a mio vantaggio e a vantaggio dei lettori miei il grano della critica e, spesso, del paradosso!

Che turbine di argomenti, di confronti, di ricordi storici dall’India e dall’Egitto al Lourdes dello Zola e al plico dell’onorevole Giolitti! Che turbine che pur avvincendomi nella tromba mi teneva sempre sospeso, sempre animante, sempre ansioso davanti al pericolo di spezzarmi la testa malamente agile a quella vicenda caleidoscopica!

Basta, ormai molti giorni sono passati da quella sera e nella memoria il colloquio mi si è bellamente polarizzato, pur scintillando ancora, così che m’auguro di renderlo tranquillamente. — Per studiare il presente e l’avvenire della letteratura nostra, noi dobbiamo guardare oltre il valore intrinseco delle opere anche le condizioni estrinseche, l’ambiente in cui essa sviluppasi. Cominciamo da questo.

La letteratura e l’arte, come e più di ogni altro fenomeno umano, come e più di ogni altra funzione sociale sono dominati da una legge economica. L’arte è un lusso e, perchè un popolo se la permetta, occorre che egli già abbia il necessario per soddisfare i bisogni bruti e le dedichi il superfluo. E questo è vero anche rispetto all’artista, non solo rispetto al pubblico: che un musicista per far rappresentare un’opera sua deve avere a sua disposizione un capitale ingente, il pittore deve aver tela e colori, lo scultore il marmo, noi, in fondo, nulla che carta e calamaio costan poco: ma per noi e per tutti gli altri si deve sopratutto pensare alla spesa massima degli studi, dei saggi, dele prove, degli sforzi vani che necessariamente precedono e preludono la creazione dell’opera. Rispetto al pubblico poi che si dà il lusso di godere di queste opere, la storia ci mostra come nelle maggiori prosperità sia solo fiorita l’arte: in Grecia dopo le guerre mediche, in Roma alla fine della repubblica e al principio dell’impero, in Italia al rinascimento nel grande arricchimento delle repubbliche italiane di terra e di mare. L’arte nostra che è la più inutile e richiede la minore spesa visibile fu stimata il massimo lusso e non dette mai da vivere a chi la professò.

Petrarca aveva un canonicato, Dante scrisse le cantiche qua e là in castelli o conventi; e pensa all’Ariosto, al Poliziano, al Tasso. Dopo i poeti cortigiani, vennero quelli che vivevano di altre professioni e a tempo libero scrivevano versi. Poi vennero i poeti di nobile famiglia e nati da borghesi già ricchi Alfieri, d’Azeglio, Manzoni, ecc.). Finalmente verso il ’60 la letteratura cominciò ad essere pagata e dapprima ciò parve quasi un’onta. Ora sottostà alle leggi delle altre industrie, ed è dai capitalisti, come le altre industrie, sfruttata. Il pubblico c'è: bisogna attivarne l’attenzione, anche per moltiplicarlo perché abbiamo ancora diciotto milioni di analfabeti da exploiter.

Fenomeno parallelo alla produzione letteraria è il Giornalismo; esso ha, come quella, seguìto la modificazione economica delle industrie. Come i tessitori di Francia dopo aver prodotto e venduto per loro conto, si sono poi messi a lavorare per un imprenditore pur restando liberi ed hanno finito per entrare operai nelle fabbriche colossali impiantate dai capitalisti, il giornalista, dopo il periodo patriottico in cui il giornale si scriveva da uno in un caffè e si stampava gratis nella tipografia di un correligionario, ha finito per entrare impiegato presso i grandi giornali sostenuti da uno o più soci capitalisti. E il giornalismo danneggia mortalmente la letteratura per il modo con cui i giornali sono scritti e per il numero dei lettori che distrae dalle opere letterarie più costose e più difficili a intendersi. Dato il numero dei lettori restato ai letterati, dati i guadagni che vogliono gli editori, data la bassa concorrenza della prosa giornalistica, la letteratura che ora è in Italia, è molta e molto buona e, sopra tutto, è regalata al pubblico. E il pubblico non ha nessun diritto di lagnarsi.

E passiamo all’esame intrinseco della produzione letteraria odierna in Italia, cominciando dal romanzo. Il romanzo, in verità, non è fatto per noi perchè noi non abbiamo fantasia: e questa è la massima qualità del romanziere. L’esame è facile: leggende indigene mancano, Virgilio e Livio hanno essi inventato le leggende narrate o cantate, anzi le hanno prese a loro vantaggio dalla Grecia; Lucano e Stazio han fatto lo stesso; anche Dante, meno che nel Paradiso, ha attinto a fonti bibliche e straniere, e un sol fiore, del resto, non fa primavera; dell’Ariosto che è stato creduto il più fantasioso dei poeti nostri, domanda al Rajna. In questo noi siamo, come in tante altre cose, simili agl’inglesi, agl’inglesi della decadenza, si intende, così come gl’inglesi d’oggi sono simili ai romani antichi e conquistano il mondo. La Francia, la Francia è la patria della fantasia e quindi del romanzo. Quando in Francia il romanticismo fiorì con una esuberanza meravigliosa mostruosa tropicale, noi (guarda il Manzoni e i manzoneggianti) avemmo dei romanzi storici, che tenevano uno dei piedi deboli nella realtà passata, uno nel sogno; e se fantasia in essi era, fu fantasia di dettaglio. Quando in Francia la fantasia stanca dell’orgia romantica si adagiò sul divano e cominciò per riposarsi a contare i mattoni del pavimento, i travicelli del soffitto, le frangie delle poltrone, e nacque il naturalismo, l’Italia potè bene entrare in lizza; ed ecco sotto il 1870 Verga e Capuana sorgere in grande romore di fama, lottando. Ora tutta una trasformazione ideale si prepara; e noi che siamo pratici, sensuali, voluttuarii, noi che di tutti i romanzi nostri intendiamo instintivamente Il Piacere, riusciremo a trasformarci? È il grande momento della prova.

E passiamo al teatro. Qui premetto che io non sono socialista, ma prevedo il socialismo; gli sono contrario come artista, perchè esso mi combatte come suo massimo nemico, solo perchè sono artista. Infatti il socialismo tende a far collettive tutte le proprietà e o per leggi o per barricate potrà arrivarci: ma, la proprietà intellettuale? Omnia bona mea mecum porto, signori collettivisti! E chiudiamo la parentesi.

Dunque, il teatro sta morendo. Poco fa, ti ricordi, parlando con Roberto Bracco che è un ben sottile critico, hai udito come egli osservando un attore badi alle pause, ai silenzii di lui, che sono difficili e molto suggestivi. Questo è un sintoma. Le pantomime di Pierrot che ho ultimamente viste con la musica del Costa, mi han mostrato l’avvenire. La folla, la folla invaderà il teatro e vorrà intendere e vorrà divertirsi; e la pantomima parlerà a tutti. L’arte della parola cadrà. Il teatro futuro sarà un immenso anfiteatro più grande degli antichi, e torneranno i cori e le maschere mostruose dalle bocche sonore e i calzari dagli alti tacchi perchè tutti scorgano l’azione e l’attore chiaramente; e la musica trionferà perchè tutti l’udiranno e la capiranno derivando da essa una commozione nervea, pronta e immediata. La pittura sarà scenografia. Ma questo è un sogno, un incubo, e lasciamolo. Io, pure, ho un dramma che sarà presto rappresentato, Piccola; ma è, si può dire, una scommessa. Io non credo al teatro, oggi.

Veniamo alla poesia. Qui è inutile discutere. Per me la migliore qualità della odierna poesia è e deve essere la musicalità, e Gabriele d’Annunzio è il massimo poeta nostro, e un qualunque dei nostri versificatori minori intende così bene questo canone che scrive meglio di qualche valido poeta di cinquant’anni fa...

A questo punto come alcuni tordi eccellenti davanti a noi, abbandonati, si erano gelati nel piatto, li attaccammo avidamente, e tacemmo.





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