< Alla scoperta dei letterati
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Camillo Antona-Traversi
Giovanni Marradi Ferdinando Martini





















Livorno, settembre del ’94.


Fu una sera al Pancaldi di Livorno. L’autore dei Fanciulli formava con Lopez, con Bartocci-Fontana, con Montecorboli il corteggio di Tina di Lorenzo, la quale passava a Livorno le sue vacanze. Sempre affaccendato, un po’ curvo come uomo oppresso da un fardello di cure più o meno letterarie, dimesso negli abiti, egli allato di Tina avanzava su la rotonda parlando, parlando e parlando e, quando non parlava, si tormentava la barba e se la stirava e se la spartiva e se la piegava, quasi che l’immobilità del silenzio potesse essergli dispiacevole.

Cortese sempre anche quando non gli si chiede che un po’ di tempo (pensate che egli ha sempre per le mani due o tre drammi suoi, due o tre riduzioni di drammi francesi, tedeschi, norvegesi od ostrogoti, sette od otto articoli, due o tre prefazioni, e cento o duecento lettere) egli lasciò la bellissima attrice, ahi non più bionda, per rispondere alle domande mie.

— Un’intervista? Un colloquio? Ma sì, caro, certo, certamente, certissimo. Qui, là, dove volete. Io sono tutto a vostra disposizione. Adesso, sùbito, dopo, stasera, domani.

— Che cosa sperate voi dal teatro italiano odierno?

— Moltissimo. Io sono un ottimista sincero, e tutti quelli che lavorano quanto lavoro io, sono degli ottimisti anche se non lo confessano. Il teatro è in un periodo ottimo e non solo in Italia, ma anche fuori d’Italia. E ciò deve stimarsi un vantaggio per noi, perchè, se vi è un genere di letteratura essenzialmente internazionale, è il nostro.

— Ma... più specialmente in Italia. Alcuni dubitano perfino dell’esistenza d’un teatro nazionale, non soltanto ora, ma anche nel passato. E uno di questi scettici è Ferdinando Martini.

— Io credo che il teatro italiano abbia tutta una tradizione, ininterrotta pure a traverso la varietà dei tempi e degli autori. Dalle rappresentazioni sacre fino a Paolo Ferrari, e — se volete — anche fino a Ferdinando Martini, il teatro italiano è sempre esistito.

— E adesso?

— E adesso esiste. Si ha tempo a cercare sublimi criteri estetici! Senza dare un immenso valore al giudizio del pubblico, questo pure è certo: che un dramma che resta in repertorio per molti anni, per qualche anno, come le mie Rozeno è un dramma degno di restarci. Le prime rappresentazioni possono essere in senso avverso o favorevole turbate da cause passeggere, estranee all’arte serena, ma poi... no.

— E gli attori?

— Capirete, che è molto pericoloso per me fare dei nomi. In ogni modo posso, parlando generalmente, dirvi che sono pessimi. I pochi buoni non hanno intelligenza nello scegliere il dramma come ne hanno nel rappresentarlo. Del resto si circondano sempre di mediocrità. Ma non posso fare nomi.

— Bene, chiudiamo la parentesi. Voi, a preferenza d’altri, mostrate di pensare, prima di scrivere un dramma, a un’idea che lo informi tutto, a una tesi...

— Tesi? No, mai. Scopo, se volete.

— Non è la stessa cosa?

— No, chè, quando appare la tesi, l’autore deve parteggiare: se l’idea centrale è solo scopo al dramma, l’autore espone, il pubblico conclude. Dunque un pensiero è necessario nel dramma, perchè il teatro ha sul pubblico un’efficacia più diretta del romanzo, un’impressione più immediata e violenta e malamente evitabile. Badate bene: io non dico con ciò che il teatro sia una forma d’arte superiore al romanzo

— Questo pensa Marco Praga. — E ha torto, come al solito. Il romanzo, essendo più esteso e più libero, è fatalmente, per ragioni che direi meccaniche, superiore al romanzo. Il pubblico non è riunito, la folla non turba lo spirito di ciascuno degli individui che la compongono; e il lettore quieto, pronto alla lettura è più aperto, più amico, più libero ad intendere e apprezzare lo artista. Una volta un dramma di Voltaire cadde perchè alla frase: Est-ce que tu m’aimes, Couci? uno pseudo italiano dalla platea rispose: Cusi cusì. Ora, tornando allo scopo che un dramma si deve proporre, mi pare giusto dichiarare che nessuno fin’ora vi ha pensato, o vi ha voluto pensare. Vi ripeto: lasciamo da parte la tesi di Paolo Ferrari.

— E lasciamola pure da parte, poi che voi fate tanta differenza tra il vostro scopo e quella tesi. Ma c’è chi si è proposto uno scopo, c’è chi ha avuto un’idea scrivendo dei drammi.

— Gl’Ibseniani? Qualche cosa di Giacosa... — E Butti?

— Con L’utopia. Il Butti è un giovane di molto ingegno, ma in quella imitazione dell’Ibsen è piccolo, è gretto ed... è caduto. Io, io per conto mio ho fatto il possibile per escire dall’eterno «teatro dell’adulterio» dove tutti si voltavano e rivoltavano mostrando di essere più ingegnosi che d’ingegno. Io mi sono preoccupato delle questioni sociali più gravi, e ho scritto Le Rozeno, la Danza Macabra e adesso ho finito I fanciulli dove mostro la vita di certa infanzia abbandonata, e Terra o Fuoco? dove un uomo ateo esita avanti di dare al fuoco il cadavere d’un suo bambino.1

— Avete accennato prima a Ferdinando Martini. Che ne dite della lingua adoperata dai nostri odierni commediografi?

— Dico che noi scriviamo male. Tutto si deve mutare, e il Martini, se si rasse da certi vani toscanesimi, sarebbe l’uomo atto a far ciò. Ora tutti gli scrittori di cose teatrali per scrivere un dialogo vivo e spontaneo, per essere veri, scrivono in dialetto e spesso hanno applausi tutti regionali. Né credo che a formare la lingua pel teatro occorra una evoluzione lunga. Un uomo occorrerebbe che facesse pel dramma quel che Gabriele d’Annunzio ha fatto pel romanzo. Ché la lingua (e ciò è anche fuori di Italia) è in verità differente nel teatro e nel romanzo. Siete mai riescito a leggere La Biondina di Marco Praga?

— Ditemi qualche cosa su i concorsi a premio che con complicati regolamenti il Ministero della pubblica istruzione bandisce ogni anno.

— Io penso che sono inutili intellettualmente ed economicamente. L’arte governativa anzi è dannosa.

Era presente Sabatino Lopez il quale si oppose dicendo:

— Io penso che, se fossero biennali, avrebbero un migliore effetto. E la discussione si spezzò in sottili argomenti personali e professionali. Quando essa si fu calmata, Camillo Antona-Traversi ci lasciò per andare a scrivere venti lettere, impostare dieci giornali, lavorare a tre drammi, e... ammirare ancora Tina di Lorenzo.



  1. Questi due drammi con grandissimo successo di applausi sono stati rappresentati per tutta Italia nel ’94, ma sono caduti a Roma nel febbrajo ’95.
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