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Roma, marzo del ’95.
Eravamo l’altra sera nel salottino azzurro del teatro Drammatico Nazionale. La sua compagnia rappresentava, per la quarta o quinta volta, Serenissima. Di quando in quando un attore truccato, un macchinista, un impiegato entravano a domandargli una notizia, un consiglio.
Si udivano le voci alte dei comici di là delle quinte, e la loro sonorità faceva sentire la vastità della sala, cui esse si indirizzavano. Due o tre volte giunsero gli applausi fragorosi, con quel distinto rumore di grandine scrosciante su terra soda; più volte si udì una risata limpida come di uno che rida in una grande aula vuota. Giacinto Gallina è basso, appena pingue, ha l’aspetto franco, bonario, borghese; ha baffi neri spioventi, occhiali d’oro, capelli corti, brizzolati, appena radi sul sommo del capo.
Io lo interrogavo, ed egli mi rispondeva con la consueta onesta bonomia che le sue opere teatrali dimostrano a chi non lo conosce di persona. Parlava italiano con un puro accento veneto, sibilando gli esse, semplificando le consonanti doppie, pronunciando celermente le parole bisillabiche che, appoggiando su le vocali accentate delle parole più lunghe.
Spesso, nella foga del discutere, diceva un motto dialettale incisivo, e un acume ironico gli accendeva gli occhi.
⁂
- Il teatro italiano, adesso? Non vi stupite se io non ne dico un gran bene. Quelli che adesso scrivono di teatro in Italia sono pochi e non hanno una sicura coscienza dell’arte loro, sono irresoluti, procedono a tentoni, ora seguendo la moda del pubblico, ora seguendo la moda letteraria. Essi non pensano ad informare tutta l’opera loro, ogni singolo dramma, ogni singola scena a un criterio unico, qualunque esso sia; non tendono a creare qualche cosa, qualche persona drammatica che sia immanente, che sorpassi l’età presente, che racchiuda qualche cosa di umano, di eterno, qualche cosa che fra cent’anni sia vero e umano così come è stato vero e umano cento anni fa. Invece di creare Rabagas, creano il Matteo Cantasirena della Baraonda; e questo fanno pel pubblico, per adattarsi alla miope vista del pubblico. Poi, all’improvviso, fanno dell’Ibsen, perché è la moda letteraria, perché far dell’Ibsen in Italia è un eroismo, e anche all’autore drammatico piace, come dicono i critici, di «far la battaglia». E questo fanno proprio perché non piace al pubblico. Così per la tesi....
— Benissimo. Voi, proprio voi dovreste parlarmi della tesi a teatro e più specialmente del teatro che chiamano sociale.
— Io non ammetto in un lavoro teatrale la tesi, ma ammetto uno scopo morale. Mi spiego esemplificando: per tesi intendo la difesa o la propaganda di una idea nuova, piccola o grande, certo passeggera. Insomma, mi spaventa una commedia che vuole indurre il popolo a non giocare al lotto, come mi spaventa un dramma che voglia difendere e diffondere la divisione della proprietà. Ma il peggio è nella tesi scientifica, perchè lì poi il dramma non serve proprio a nulla. Il verismo a teatro è stato in gran parte una esercitazione vana, qualche volta bellissima, come Le Vergini di Marco Praga: tutta arte per l’arte perchè anche nel Le Vergini ci vuol buona volontà a trovare, oltre la semplice ottima rappresentazione di un ambiente, anche lo scopo morale di indurre al bene per via di contrasto. Ma talvolta poi il verismo non ha fatto l’arte per l’arte, ha fatto (e questo è ridicolo) l’arte per la scienza. La scienza è per l’arte un mezzo, mai uno scopo. Domani si fa una scoperta di psicologia che abbia un valore psicologico, e, subito, giù un dramma. Eh via! voi fate l’arte ancella di uno scienziato qualunque. Ad esempio, si studia il fenomeno della ereditarietà.
Che prova il dramma vostro a pro’ di quei novelli studi, se voi drammaturgo ve lo inventate? E poi, in questo modo, riguardando casi patologici, i veristi si son compiaciuti nell’esame di un solo lato della realtà, il lato cattivo. Io preferisco quell’altro, e cerco alle mie commedie uno scopo morale.
— Dunque il teatro sociale, come propaganda, come mezzo di lotta, è rifiutato da voi? E del resto non vi pare che anche prima d’ora sul teatro e fuori, si sia studiata la miseria, la corruzione, la fame?
— Sì, ma è certo che ora l’indigenza, se posso dire, è diventata cosciente. I poveri sanno leggere e sanno vedere e sanno sperare. L’odio, o almeno la critica di certi privilegi, ora è più diffusa, più coordinata; e il fenomeno è così vasto, importante, profondo che quasi assurge a quell’altezza e a quella grandezza che lo fa degno dell’Arte. Ma non bisogna sminuzzarlo, non bisogna prendere i piccoli fenomeni, piccoli rispetto alla immanenza dell’arte, gli scioperi, i salari, l’emigrazione, l’igiene; bisogna risalire alle cause prime. Ad esempio, una di queste è l’egoismo moderno: ottimo tema. Io, come ho potuto, ho nella Famegia del santolo, che sarà data qui a Roma in settimana, studiato un bel caso di egoismo. Ma quanto al far propaganda, quanto al propugnare o vilipendere una legge parlamentare no, no, no. L’arte è sopra tutto, sente tutto, ma non si cura di soccorrere questo o quello, di parteggiare per questa o quella idea.
— E di Ibsen?
— Sopra tutti i suoi drammi ammiro Il nemico del popolo, dove l’egoismo attuale è riprodotto intensissimamente, e dove il senso della folla è tutto moderno. Ma il simbolo come unico scopo e unico mezzo del dramma, no. Io so bene quello che il simbolo valga, in un’opera d’arte, ma sul teatro (e credo anche fuori) ci deve prima di tutto essere un fatto reale, drammatico, chiaro, che interessi il pubblico e lo avvinca. Se dietro ad esso è un significato ideale, un concetto generale, e se una parte del pubblico più acuta e intelligente ci arriva, tanto meglio. Perbacco, anche Dante fu così cortese da dare due sensi alla Divina Commedia il senso letterale e poi il senso allegorico. Il piccolo Eyolf e Sollness il costruttore sono per queste ragioni condannabili come dramma da rappresentarsi - Perché scrivete le vostre commedie in dialetto?
— In Italia manca un vero centro etnico, e il teatro, che è la riproduzione intensa della vita, è essenzialmente regionale e richiede quindi la forma dialettale. Questo per la commedia di costume, e, in un certo modo, anche per la commedia di carattere. In italiano si potrà fare la commedia puramente psicologica, dove l’ambiente studiato è lo sfondo. Ma questa commedia acuta e sottile, quale Augier ha saputo fare meglio di ogni altro, poco si confà al nostro pubblico. Io, pure, ne farò; anzi La famegia del santolo era stata pensata in italiano, e l’obbligo di dare alla mia compagnia ogni anno una qualche novità, mi ha indotto a scriverla in veneziano, e vi assicuro che ho faticato a dare al primitivo schema il colore locale che giustificasse l’uso del dialetto. Un’altra ragione di questo mio scrivere in veneziano è tutta sentimentale: per me era doloroso di vedere il teatro veneziano, la tradizione goldoniana nobilissima decadere, come è decaduto il teatro piemontese, milanese, napoletano, e alla bella impresa ho dato tutte le mie forze.
— Che ne pensate degli attori italiani d’oggi?
— Gli attori buoni sono pochissimi; non ve ne ha di mediocri chè la grande turba è pessima. Molti, quando sono stati rifiutati da tutte le professioni, si mettono a fare i comici. Ma perchè non si mettono a fare i calzolai, i macellai, gli agricoltori, i professori di università? Mistero.
— A che attribuite l’assenza del pubblico dai teatri di prosa?
— Un po’ io credo che piangiamo troppo. Attori e autori dicono di morir di fame, ma io vorrei sapere quando ci si sia ingrassati col teatro in Italia. In ogni modo e attori e autori hanno contribuito a stancare il pubblico: ma sopratutto gli attori. Essi dánno sempre le stesse cose: va via una compagnia che ha dato sempre Fernanda, Fedora, Frou-frou, ne viene un’altra che dà solo Frou-frou, Fedora, Fernanda. Inoltre il comico italiano vuol essere troppo versatile; la versatilità è una qualità dell’italiano, ma è il massimo ostacolo alla perfezione. A me piacerebbero le compagnie che direi specialiste: una il teatro italiano storico dalla Mandragola a Ferrari, una il teatro francese, una le pochades, l’altra i drammi. Invece qui la confusione è l’unico carattere di tutte le compagnie.
— E le compagnie stabili?
— Mah! Il comico nostro è per natura sua girovago, irrequieto, fastidioso. Guardate un po’ la bella prova fatta dalla Compagnia drammatica nazionale qui a Roma! È morta per le lotte e i pettegolezzi degli attori.
— E i concorsi ministeriali?
— Per l’arte non servono a nulla; per gli artisti, eh via! qualche migliaio di lire fa sempre comodo.
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Entrò Ferruccio Benini sotto la cappa nera del nobilomo Vidal. L’atto era finito, gli applausi scrosciavano, e Giacinto Gallina doveva mostrarsi alla ribalta.