< Alla scoperta dei letterati
Questo testo è stato riletto e controllato.
Giuseppe Giacosa
Giacinto Gallina Domenico Oliva





















milano, marzo del ’95.


— Mi rammento il discorso che il presidente del Lotus-Club fece a un banchetto datomi da quel Circolo a New-York. Parlava egli con perfetta conoscenza di Fogazzaro e di Verga, e diceva che, se fossero stati francesi o inglesi o russi, il mondo sarebbe stato già da lungo tempo pieno del loro nome. E aveva ragione, che noi non dobbiamo più parlar di speranze più o meno rosee, ma dobbiamo guardare e constatare i fatti.

Parlavamo in una stanza della Società degli autori in via Brera, una stanzetta linda e quieta: un armadio, uno scrittoio, un divano, una poltrona. Giuseppe Giacosa è il più alto e valido dei letterati italiani, è calvo, ha barba lunga e folta e placidi occhi che spesso socchiude solennemente quando cerca la parola più adatta ad esprimere il suo pensiero. Ma all’aspetto è bonario, cortese e giovine.

— Pensate che dieci anni fa si traducevano in tedesco, in francese o in inglese Pellico e Manzoni soltanto, e i successi del Carducci in Germania parvero prodigiosi. Adesso tutti, giovini e vecchi, siamo tradotti in più lingue e dei nostri libri facciamo molte edizioni e ai nostri drammi riceviamo molti applausi. Volete che io parli di teatro? Ma in Francia, in Germania, in Austria, in Svezia giorno per giorno si rappresentano sui massimi teatri, dai massimi attori drammi nostri; io ve lo posso dire qui per esperienza d’officio, e il pubblico dovrebbe saperlo e farete bene a scriverlo e a ripeterlo. Ma non più tardi di ieri, il migliore attore d’Austria mi scriveva annunciandomi una sua tournée italiana in tutti i teatri più importanti di Germania; e vi dirò che — se non si bada alle opere dove la pompa e l’apparato scenico sono i più forti elementi del buon successo — noi abbiamo sopra i giovani autori tedeschi un’influenza infinitamente maggiore che i francesi. Né si può dire che ciò avvenga perché la Germania è senza teatro, chè ora ne ha uno serio e originale.

Del resto lo scambio è continuo e, se non v’ha drammaturgo italiano che non abbia sentito Ibsen, non v’ha romanziere francese che non abbia in qualche modo subito l’influenza di d’Annunzio: leggete un po’ le ultime cose di Bourget o di Margueritte.

Noi dunque siamo su la via del risorgimento più luminoso e il carattere precipuo di questo risorgimento sarà l’universalità e quello che noi italiani vi apporteremo di nostro sarà la forma. Guardate il genere d’arte che più è rimasto originale in Italia, la poesia: è vano negare le influenze dei decadenti francesi sul nostro d’Annunzio, e pure egli ha fatto di quelle abracadabrances spesso inintelligibili, un’ opera d’arte chiara, nitida, risplendente, piacevole.

Volete che vi parli del teatro? E del teatro verista? Proprio io? Oh a me è avvenuto un fatto strano. Un bel giorno faccio rappresentare un mio dramma Tristi amori; la mattina dopo sono un eroe, un innovatore, un ribelle. E io che non ne sapevo nulla!... Solo perchè dopo una scena di passione la mia eroina doveva fare i conti con la cuoca, il mio dramma era una rivoluzione. Io, vi giuro, che nulla di più poetico avevo trovato di quell'episodio, e che nessuna idea di brutalità verista mi aveva indotto a scriverlo. E ve lo ripeto, ora che in Italia e fuori il teatro propriamente verista tramonta, io non credo affatto che il teatro possa essere una pura e semplice rappresentazione della realtà. Altro che! Deve il dramma vivere di un’idea centrale che lo vivifichi tutto dalla cima alle radici, che lo sorregga come fa lo scheletro col corpo. Né l’idea deve essere (e qui temo sempre di essere frainteso) una tesi, una opinione piccola o grande, ma uno di quelli assiomi psicologici che ormai sono riconosciuti eterni. Nei Tristi amori e nei Diritti dell'anima, io volli mostrare come fatalmente, senza volontà propria o impulso altrui, gli uomini talvolta si trovino in conflitti dolorosi e terribili, tanto più dolorosi che essi non sanno cui attribuirne la colpa.

E questo deve avvenire anche nel romanzo.

Un tale fenomeno si può, con un senso tutto etimologico, chiamare idealismo. Lo stesso Gallina nel suo teatro dialettale mostra di tenderci. Mi dite che egli scriverà drammi in italiano, ma io non credo che abbia i mezzi linguistici per farlo. In ogni modo è certo che il teatro dialettale presto sparirà perchè i dialetti verranno a mancare, trasformandosi e unificandosi. Lo si è creduto depositario unico della tradizione italiana perchè imitava Goldoni e perchè doveva, per la necessità del linguaggio adoperato, riprodurre costumi tutti locali. Mi rincresce che non abbiate parlato di ciò col mio amico Selvatico; egli ha su ciò idee meravigliosamente chiare.

Del resto, per quanto io sia pagato per dire altrimenti, vi dovrò pur confessare che a mio modo di vedere il teatro è veramente una forma d’arte inferiore, poiché troppi sono i freni meccanici che lo stringono e lo deformano: massimo, l’interpretazione.

Gli attori? Presi uno a uno, sono pessimi; ma, come fusione scenica, presentano un miglioramento. Una volta, intorno a un grande attore o una grande attrice, si riuniva una turba di cani piccoli per far meglio eccellere quelli. Invece la buona interpretazione delle commedie moderne richiede intorno agli ottimi artisti compagni, se non altro, mediocri. Così si è venuta formando tra i comici una media di intelligenza e di arte poco men che buona. Io spingo questa mia teoria fino a dire che un dramma moderno è buono quando non vuole un ottimo attore ma semplicemente una neutra e giusta arte in tutti i comici che lo rappresentano.

Quanto al pubblico credo che ci lamentiamo troppo, e solo a Roma i teatri di prosa sono vuoti. Altrove le buone compagnie e le buone commedie riempiono il teatro sempre.





Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.