< Alla scoperta dei letterati
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Giovanni Verga
Paolo Lioy Marco Praga






















Milano, agosto del ’94.


Vedo che sfortunatamente questi miei colloquii vanno perdendo la poesia del luogo: dai verdi fiumi e dalle azzurre montagne della valle vicentina son venuto a cadere qui tra il caldo estivo e i costumi cittadineschi. Così spesso per appagare la memoria mia, mentre parlo coi miei interlocutori, cerco — se li amo — di figurarmeli in un paese capace di loro, fuori dai velluti del caffè Savini o dal giardinetto posticcio del Cova.

E appunto al Cova ho parlato col Verga, e io pensavo a un bel paesaggio siciliano un po’ selvaggio adatto alla Cavalleria rusticana o alla Lupa; e invece i camerieri attorno mormoravano con pronte moine la minuta del pranzo e un’ orchestruccia nascosta lamentava proditoriamente i casi di Leonora e del Trovatore.

Qui al Cova, sebbene l’estate decimi ogni radunata, si riuniscono a desinare in una bella tavolata, il Verga, il Boito, i Treves, il de Roberto, il Torelli-Viollier, il Butti e qualche altro che per un giorno o due gli affari urbani distolgono dalla quiete dei laghi o delle alpi.

Mi narrano che d’inverno, quando la letteratura è au grand complet, vi sia una scissione che appare all’ora del desinare. I giovanissimi che furono anche chiamati gli intellettuali (e nemmeno essi sanno perché) vanno al Savini, e c’è il Praga, lo Zuccoli, l’Hanau, il Macchi e molti altri ancora poco memorabili. Gli altri, i vecchi, vanno al Cova e allora bisogna aggiungere a quelli che ho nominato più su il Giacosa e l’Oliva. Il Butti e il Rovetta diplomaticamente oscillano tra gli uni e gli altri, ma anche essi finiranno a parteggiare. Dopo il pranzo quelli del Cova vanno al Biffi. Una sera ho voluto fare sui più giovani di ciascun gruppo un esperimento, e ho cercato di indurre lo Zuccoli a entrare al Biffi e il de Roberto a entrare al Savini. Ogni sforzo e ogni allettamento è stato vano: rispondevano: — Mai!, con un orror di vergini davanti al peccato capitale.



Ma torniamo al Verga.

Giovanni Verga che deve essere poco al di là dei cinquant’anni è un bell’uomo elegante, dai folti capelli grigi e dai baffi ancora castagni. Veniva da Catania, dove era restato più di tre mesi a lavorare.

Il Verga, rispondendo alla mia prima domanda, si è mostrato un sincero ottimista riguardo alla nostra letteratura odierna.

— Le dico ciò guardando la letteratura dall’alto, fuori delle scuole e delle chiesuole. Da moltissimi anni la letteratura nostra non ha avuto una tale espansione oltre l’Alpi, non solo in Francia ma, prima e meglio, in Germania, in Austria, in Russia. E questo è un sintomo di vitalità potentissimo. E noti che ciò avviene quando nessun letterato in Italia vive col reddito puro della letteratura, o almeno.... col reddito della letteratura pura. Date queste orrende condizioni economiche, quel che si fa è moltissimo; e pochi paesi, se quelle condizioni fossero migliori, potrebbero resistere al confronto.

Era presente al nostro colloquio Federico de Roberto. Ora io che sapevo il pessimismo di lui e rammentavo le accuse fatte da tanti critici alla lingua e allo stile del Verga, domandai:

— Crede ella che per il completo sviluppo della letteratura nostra, la lingua, quale è scritta o quale potrebbe scriversi oggi, basti?

— Certamente, la lingua italiana è uno stromento perfettissimo, ed è la lingua parlata da una persona colta. Tutta la perspicacia dello scrittore deve aiutarlo a non rinchiudersi in un frasario scelto che non è il frasario vero, in nessun senso. Il predicato studio del vocabolario è falso, perché il valore d’uso non vi si può imparare. Ascoltando, ascoltando si impara a scrivere. E da questo deriva la mia teoria dello stile. Lo stile non esiste fuor della idea. Se lo stile consiste massimamente nella forma del periodo, esso deve adattarsi all’idea, deve vestirla, investirla. Quanto maggiore sarà questa rispondenza, questa fusione, tanto migliore sarà lo stile. Alcune forme di periodo fisse, apprese da alcuni classici, applicabili a tutte le idee, sono mortali allo stile. In queste parole mie ella troverà una difesa forse troppo personale, ma...

E si chiudeva nelle spalle, quasi che fatalmente, fuori d’ogni sua volontà, fosse caduto a parlare di sé e dell’opera sua. Ma io tendevo alla domanda più importante:

— Ella è considerato in Italia il più valido campione del naturalismo puro, del naturalismo fisiologico. In Francia, per confessione degli stessi suoi fedeli, esso è caduto. Ella che ne pensa?

— Parole, parole, parole. Naturalismo, psicologismo: c’è posto per tutti e da tutti può nascere l’opera d’arte. Che nasca, questo è l’importante. Ma non si vede che il naturalismo è un metodo, che non è un pensiero, ma un modo di esprimere il pensiero? Per me un pensiero può essere scritto, in tanto in quanto può essere descritto, cioè in tanto in quanto giunge a un atto, a una parola esterna: esso deve essere esternato. Per gli psicologi ha valore anche prima di essere giunto all’esterno, anche prima di aver vita sensibile fuori del personaggio che pensa o che sente. Ecco tutto. I due metodi sono in fondo ottimi tutti e due, non si escludono; possono anzi fondersi e dovrebbero nel romanzo perfetto essere fusi. Inoltre osservi che noialtri detti, non so perché, naturalisti facciamo della psicologia con la stessa cura e la stessa profondità degli psicologi più acuti. Se si è onesti, si intende. Perchè per dire al lettore: «Tizio fa o dice questo o quello», io devo prima dentro di me attimo per attimo calcolare tutte le minime cause che inducono Tizio a fare o dire questo piuttosto che quello.

Mi intende? Gli psicologi in fondo non fanno che ostentare un lavoro che per noi è solo preliminare e non entra nell’opera finale. Essi dicono i primi perchè: noi li studiamo quanto loro, li cerchiamo, li ponderiamo e presentiamo al lettore gli effetti di quei perchè. E spesso, non faccio per dirlo, questo metodo annoia meno il lettore, è più vivace. Ma come questo può avvenire massimamente nel romanzo così detto di costume, torniamo a quel che le dicevo poco fa: nel romanzo integro, nel romanzo ideale i due metodi possono benissimo essere contemperati.

— Non crede che questo sia già stato fatto dal d’Annunzio nel Trionfo della morte?

— Non l’ho ancora letto. Parto per Levico, e là lo leggerò subito. Temo però di restar nella mia opinione.

— Quale è?

— Che il miglior romanzo di Gabriele d’Annunzio è Il Piacere. Gli altri non sono che derivazioni più o meno riescite.

— E il Giovanni Episcopo?

— Peggio. Quello è una derivazione pure, ma dall’opera di un altro.

— Sa di questo movimento neo-mistico che Matilde Serao, Antonio Fogazzaro, Enrico Panzacchi e altri minori vorrebbero iniziare? Alcuni di essi mi hanno detto che ciò avviene massimamente per reazione al naturalismo. Che ne pensa?

— Reazione al naturalismo? Ma l’abbiamo detto fin ora. Il naturalismo è un metodo, ora non si può in nome di un sentimento insorgere contro un metodo.

C’è ignoranza di termini. Il naturalismo è forma, il misticismo può essere sostanza di un romanzo. Intendo il metodo psicologico opposto contro il metodo naturalista; ma, il misticismo? E che c’entra? Si può benissimo fare un romanzo mistico con un metodo puramente naturalistico. Ah forse essi intendono che noi a furia di dir la verità abbiamo detto delle cose immorali! Oh se ci sono, che possiamo farci noi? Dobbiamo divenir ciechi e falsi? Mai. Del resto la mia vecchia opinione è che un romanzo del Feuillet è molto più immorale di un romanzo dello Zola. Lo ha detto anche lo Zola presso a poco così: j’estime que cette moralité est pleine d’immoralité; rien nest plus malsain pour les cœurs et pour les intelligences que l’hypocrisie de certaines atténuations et que le jésuitisme des passions contenues par les convenances. Per me, il Daniele Cortis del Fogazzaro è un volume immoralissimo. Dunque contro che cosa reagiscono questi cavalieri dello spirito come li ha chiamati la Serao? E sopra tutto sono sinceri? Perchè questa qualità nel caso loro è sine qua non. Il Fogazzaro forse, la Serao pure perchè è napoletana. Ma gli altri? Del resto essi si credono sinceri. A forza di battersi i fianchi, qualche cosa ne esce.

— Ma nel pubblico questo bisogno, secondo loro, esiste.

— Nel pubblico c’è un bisogno d’ideale e di al di là? Adesso? Io non lo vedo. Il pubblico ha da pensare ad altro. Insomma il misticismo è un nuovo genere di sport, la corsa all’al di là!

— Ella che scrive ora?

— A Catania ho terminato una commedia, La lupa, che è tolta da una mia novella.

— Ora ella scrive di preferenza pel teatro?

— Ho scritto pel teatro, ma non lo credo certamente una forma d’arte superiore al romanzo, anzi lo stimo una forma inferiore e primitiva, sopratutto per alcune ragioni che dirò meccaniche. Due massimamente: la necessità dell’intermediario tra autore e pubblico, dell’attore; la necessità di scrivere non per un lettore ideale come avviene nel romanzo, ma per un pubblico radunato a folla così da dover pensare a una media di intelligenza e di gusto, a un average reader, come dicono gli inglesi. E questa media ha tutto fuori che gusto e intelligenza; e se un poco ne ha, è variabilissima col tempo e col luogo.

E mentre egli mi narrava come aveva adattato la novella La lupa alla commedia, in fondo al giardinetto l’orchestra ripeteva l’aria:


Calpesta il mio cadavere
Ma salva il trovator!


Bell’accompagnamento alla narrazione d’un dramma siciliano!



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