< Alla scoperta dei letterati
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Giovanni Verga Federico de Roberto






















Milano, agosto del ’94.


L’ho incontrato al Savini. Parla poco, anzi gli amici intimi mi han detto che non ama parlare d’arte. È alto, biondo, esile, ben elegante e... per chi se ne occupa, è un ciclista appassionato. Ho voluto «intervistarlo» perchè egli ha fama di essere stato un innovatore nel teatro italiano, ma certo non ho trovato in lui l’entusiasmo dell’apostolo. Per scuotere una sua apparente indifferenza alla discussione, ho attaccato il suo ultimo dramma direttamente così:

— Perchè hai scritto L’Erede? Ha avuto una causa estetica questo ritorno all’antico, tanto più strano in te che tra gli altri eri stimato modernissimo?

— No. Ho scritto L’Erede per una ragione sola: mi occorrevano dodicimila lire, e L’Erede fedelmente me le ha date.

— Allora, risalendo alle tue prime opere quali ragioni d’arte t’hanno spinto a far con Le Vergini opera di ribelle?

— Di ribelle? Io non l’ho saputo che quando me l’hanno detto. Nella creazione di quel dramma io fui incosciente. Ero un ragioniere impiegato in un’opera pia, poco andavo a teatro, sapevo di letteratura quel tanto che la compagnia. di mio padre e dei suoi amici mi aveva messo nelle orecchie. Una sola antipatia istintiva, allora irragionata, avevo: ed era per Paolo Ferrari. Frequentavo la casa delle sorelle di una donna fatta celebre dagli amori di un re. L’ambiente mi parve strano: a forza di osservarlo, scrissi un dramma che intitolai Le Vergini e che, se non altro pel titolo, credevo interessante. Avevo ventitrè anni, ora ne ho trentadue. Qualcuno lesse quel dramma e il dramma fu rappresentato. La mattina dopo dai giornali appresi che io ero un innovatore, un ribelle, dio sa che cosa! Così diventai drammaturgo. Da allora ho scritto una commedia all’anno perché mi occorre per vivere.

— Ma il successo pecuniario del L’Erede non ti indurrà a mitigare la crudezza del dramma naturalista con una qualche parvenza d’intreccio atto a piacere al pubblico?

— Certo. Il pubblico è parte essenziale nella concezione di un dramma. E io aggiungerò qualche lieve trama alle fila rigide del dramma verista, ma solo tanto quanto sia compatibile con la realtà.

— Il dramma, come tu lo intendi, cioè la nuda e cruda riproduzione della verità senza un’Idea primaria che ne regga le parti, non ti pare inutile?

— No. Io odio Ibsen e gli Ibseniani. Io voglio che l’arte sia fine a sé stessa. Basta il Vero nitidamente còlto. Un nostro amico, un milanese tende all’Ibsen: è Enrico Butti, ma, come vedi, malgrado il suo ingegno egli è caduto. Dopo aver guardato la verità che io pongo sul palcoscenico, il pubblico dedurrà la sua idea. Ma egli se la deve trovare da sè; non è compito mio indicargliela.

— Ma l’arte che è fine a sè stessa, è vera arte?

— Sì; del resto non è arte inutile che io con quest’arte educo il gusto del pubblico. Ma comprendimi bene: io odio Ibsen, forse non lo intendo, forse non lo imito perchè non so imitarlo. Io non ho cultura e forse occorrerebbe per amare e imitare Ibsen un ingegno differente e una cultura maggiore della mia.

— Vedi un risveglio nella produzione teatrale e, in genere, in tutta la produzione letteraria italiana?

— Non vedo nessun risveglio nel teatro italiano. Vi sono altri tre o quattro giovani d’ingegno: io stimo molto Federico Mariani, l’autore di Una Coscienza; egli andrà lontano. C’è il Rovetta che non è nato pel teatro, ma con I Disonesti ha fatto opera rispettabile. C’è il Butti, di cui ti ho parlato. Non c’è nessun altro, mi pare se pur non vogliamo ficcar l’arte anche in quello che scrive Camillo Antona-Traversi. Quanto alla letteratura rimanente, io non leggo mai versi, io non leggo che qualche romanzo francese e non vedo mai romanzi italiani. Pure avrei una curiosità; vorrei veder rappresentato un dramma scritto da Gabriele d’Annunzio.

— Questo nome mi suggerisce una domanda. Tu sei stato accusato di trascurare nelle tue commedie la lingua. Accetti la accusa?

— Ma non è un’accusa. Vorrei vedere un dramma scritto col dialogo che leggo nei romanzi di Gabriele d’Annunzio. La lingua che io scrivo è quella che si parla. Del resto la purezza della lingua non è parte essenziale della bellezza di un dramma. Guarda Goldoni. Col tempo però si potrà venire a un certo accordo tra le due tendenze.

— Tu disdegni i romanzi italiani?

— In genere disdegno il romanzo. E una forma inferiore al dramma che è più difficile a farsi ed è più efficace sul pubblico. Questo non toglie che io abbia scritto La Biondina e che stia preparando un altro libro Sul Palcoscenico.

— Ah! E pel teatro?

— Sto scrivendo un dramma Il bell’Apollo. Come ti ho detto, io devo scrivere un dramma all’anno per vivere. Quando il pubblico non ne vorrà più sapere di me — e qui il Praga alzava le spalle e si tormentava i capelli su la fronte - metterò su bottega.

— E di che cosa, se è lecito?

— Di commedie. Mi si porteranno gli argomenti e io in ventiquattr’ore li sceneggerò su misura. E si rise tutti. E così ci lasciammo mentre io cercavo di sperdere quell’ultimo augurio, a miglior vantaggio non solo del Praga, ma anche dei possibili committenti!



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