Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Marco Praga | Cesare Cantù | ► |
Milano, agosto del ’94.
È un giovane di appena trent’anni, bruno, elegante, ha il monocolo. Parla con accento siciliano, e nel valido manipolo dei romanzieri siciliani, sebbene così giovane viene terzo, subito dopo il Capuana e il Verga. In questo mio soggiorno egli è stato uno dei tre o quattro compagni più cortesi e più cari e più assidui, così che quello che qui riassumo a mo’ di intervista è stato invece argomento di discussioni lunghe, diverse, appassionate.
Il de Roberto non ha alcuna fiducia nel buon successo della letteratura italiana, o almeno lo differisce ad anni molto lontani ancora. E due sono le ragioni precipue di questa sentenza; e molte le secondarie. E le due ragioni sono la mancanza di un soggetto nuovo piacevole al pubblico, e la mancanza della lingua atta ad esprimere interamente quel possibile soggetto. Egli dice:
— Il soggetto: i modernissimi con la scusa che ogni vero è buon argomento d’arte non se ne preoccupano. Pure, siccome noi scriviamo pel pubblico oltre che per noi stessi, dobbiamo trovare un soggetto che per se attiri il pubblico. Ora venti anni di naturalismo e di psicologia han dato fondo a molti soggetti. Il lettore che apre un libro per leggerlo e non per anatomizzarlo e criticarlo, in tutti i moderni romanzi, specialmente nei romanzi così detti psicologici, ritrova sempre presso a poco la stessa cucina, lo stesso tema, e se ne annoja: e dal suo punto di vista ha ragione. Quindi io credo che non vi sia salvezza che nel romanzo di costume e il romanzo che sto per pubblicare è un romanzo di costume: I Viceré.
— E in futuro pensi qualche altro romanzo che, come questo, studii tutto un ambiente, tutta una classe? — Sì. Già ho passato parecchi mesi a Roma a bellaposta. Ho in mente un romanzo di vita parlamentare. Ma... vedremo.
— E tra I Viceré e questo libro?
— Pubblicherò un lungo studio fisiopsicologico su L’Amore, al quale attendo da molto tempo. Ma torniamo a noi. Come ti dicevo, la seconda ragione del mio pessimismo, è la mancanza di una lingua agile e sicura. Tra la lingua nobile aulica che Gabriele d’Annunzio predica e a volte usa, e la lingua comune parlata viva e vivace, che c’è? O meglio abbiamo una lingua che le comprenda tutte e due? Perché quella prima sarà adatta a formulare precisamente un’analisi psicologica o a descrivere uno stato d’animo o un paesaggio fine e poetico; questa seconda (e il Manzoni l’ha adoperata) è più borghese, serve a nominare gli oggetti e gli uomini tra cui viviamo ogni giorno, serve a parlare e a intenderci nella vita comune. Il romanzo che vorrà riunire il romanzo puramente psichico col romanzo di costume (e questo sarà il Romanzo futuro) che istromento adopererà? Ci vorranno anni e anni perché quest’istromento sia limato e solido. Prima d’allora accuseranno il Verga di non scrivere in italiano; e dall’altro lato il D’Annunzio per necessità, senza addarsene, userà — come gli è avvenuto nel Trionfo della morte — dei francesismi e delle forma di periodare tutte straniere. E questa è la massima prova di quel ch’io ti ho affermato. La letteratura italiana oggi non esiste; sia per la lingua che per l’argomento ancora non può esistere. Ritorno ai due nomi che ti ho detti poco fa. Il Verga dai Carbonari della montagna, uno strano romanzo di avventure inverosimili scritto nel 1861, fino alle ultime novelle ha progredito nella italianità della lingua. Il D’Annunzio dal Piacere al Trionfo è decaduto; in pochi anni.
— Ma tu che difendi tanto il romanzo di costume non hai scritto Illusione, un libro di psicologia?
— Sì. Io non ho un sistema determinato, non appartengo in eterno a una scuola. Io tento i varii indirizzi; adatto sopratutto all’argomento il metodo. Se mi fermassi a una sola foggia di romanzo, e contro la mia indole a ogni costo contro ogni tentazione le restassi fedele, non sarei più sincero. Forse col tempo... Ma chi lo sa?
— Credi alla possibile fioritura di un neo-misticismo nel romanzo italiano?
— No. E un fenomeno passeggero, gli stessi predicatori non sono tutti sinceri. Non bisogna dargli peso, è una prurigine dell’anima che sparirà prestissimo.
— Non scriverai mai pel teatro?
— Mai. Credo il teatro una forma inferiore. Il romanzo è la vera forma ancóra perfettibile. Il romanzo si matura, si compone, si evolve verso il poema.
— In principio tu hai accennato a cause secondarie del pessimismo tuo?
— Sì, le condizioni economiche prima di tutto. La letteratura è anch’essa una professione: pure, se ci si domanda che cosa siamo, abbiamo quasi vergogna di rispondere la parola fatale «letterati». Nè questo stato sarà passeggero. Io non mi occupo di socialismo, non ho potuto studiarlo ancora per quanto ne abbia un intenso desiderio; ma credo che molto tempo e molte vicende dovranno passare prima di rialzare le condizioni economiche della letteratura italiana. Anche perchè il giornalismo quotidiano, il giornalismo politico, diffuso, potente non si occupa di letteratura o di letterati; dice che ciò non interessa il pubblico, laddove il pubblico non se ne interessa appunto perché i giornali non gliene parlano. I giornalisti sorridono di compassione parlando di noi letterati e, per quanto noi li paghiamo con egual moneta, il peggior danno è il nostro. Nessuna nazione come l’Italia, ha in questo senso una stampa altrettanto indotta e codina. E questa è un’altra delle ragioni che confortano il mio pessimismo.