< Alla scoperta dei letterati
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Federico de Roberto Enrico A. Butti






















Milano, agosto del ’94.1



Quando giunsi a Milano e domandai a qualche collega notizie di Cesare Cantù, nessuno me ne seppe dir nulla. Un editore (gli editori han fama di conoscere punto a punto il movimento letterario) mi rispose seriamente:

— Ma Cantù non è morto?

E pazientemente dovetti, innanzi tutto, scoprire l’indirizzo di lui. Poi, quando ebbi saputo che egli abitava in via Morigi, dovetti immaginare il miglior modo per penetrare fino a lui.

Per due giorni, alla sua porta, una domestica mi rispose che egli era in letto e, fino a nuovo ordine del suo medico, non si sarebbe alzato.

Ma non mi sono scoraggito e stamane finalmente l’ho veduto.

La casa ove egli abita è vecchia, e il cortile è oscuro e ha pilastri di pietra peperigna. Presso la scala al piano terreno è una piccola porta a vetri, su la quale nessun nome è indicato. La solita domestica mi ha aperto e mi ha ammesso in una piccola sala, dove ho atteso.

La sala ha su le mura ornate di carta verde scolorita molte incisioni vecchie, e tra le cornici di quelle incisioni e i vetri che le difendono, spuntano molte carte da visita fatte gialle e quasi illeggibili dal tempo. Ho visto carte, di Terenzio Mamiani, di Vincenzo Gioberti, di Pasquale Stanislao Mancini, del Lamartine, del Rossini, dell’Hugo. Sopra una carta del Lamartine è scritto con un carattere tremulo e pure rigido quale la penna d’oca o le prime penne d’acciaio davano: Je vous verrai dans l’après-midi... e il resto si perdeva sotto la cornice di legno. Rossini, sotto una sua carta ha scritto: con tanti ringraziamenti. Tutte hanno qualche motto.

A sinistra dell’entrata è un caminetto piccolo in marmo, e sopra, uno specchio allo stile dell’impero.

È tornata dopo pochi minuti la domestica e mi ha ammesso nello studio.

Son passato attraverso a un’altra stanza dalle pareti coperte di armadi, e sono entrato in uno studio largo pieno di mobilia diversissima. Non ho visto che due vetriate ampie fino a terra verso un giardino fiorito e ho cercato sùbito il Vecchio con lo sguardo. Dietro uno scrittoio alto l’ho visto: era sprofondato in una poltrona di cuoio e a stento volgeva il volto verso me, aguzzando gli occhi.



Cesare Cantù ha un piccolo viso pallida e rugoso, naso aquilino ed esili labbra; i capelli di un color bianco giallastro sono ancora folti sul sommo del capo e tutti accuratamente pettinati all’indietro così che su l’occipite sono lunghi ed eguali; i baffi ha piccoli e volti all’ingiù e dello stesso colore dei capelli. Tra gli occhi e le labbra errava un sorriso tra piacente ed ironico, come di chi si senta oggetto di meraviglia e ne rida, pure per cortesia dissimulandolo. Era vestito di un abito cenere, e la mano destra teneva insinuata nell’apertura della giacca così da mostrarne solo il polso fasciato di lana; la mano sinistra poggiava su la tavola, stanca, smunta, ossosa, quasi lignea.

Io gli venivo domandando notizie della sua salute.

— Sto benissimo, solamente son vecchio. È inutile parlarne. Qualche giorno mi alzo dal letto, come oggi; devo alzarmi, perchè io sono impiegato e ogni due giorni devo andare, o, meglio, devo esser condotto all’Archivio

— E scrive? — Non posso scrivere io — e mi mostrava la mano impedita — ma detto.

Allora ho veduto che su la tavola, intorno a una rivista aperta che egli certo leggeva prima che io entrassi, erano sparsi molti fogli scritti da una stessa mano, una mano giovine corrente che certo non era la mano di lui.

— Ma posso leggere. Del resto è inutile che io scriva. E, ditemi, voi scrivete?

Alla mia riposta affermativa, quel sorriso enigmatico tra gli occhi e le labbra è riapparso con maggior chiarezza, mentre egli soggiungeva come uomo che dall’alta riva parli a chi ancora combatte con l’onda:

— Eh, io non scrivo più! — e non c’era alcun rimpianto nella tenuissima voce. — Poche settimane fa ho offerto uno scritto mio a un editore di Milano e me lo ha rifiutato. Mi ha detto un amico che gli editori di Milano non vogliono scritti di milanesi. Io stupito non sapevo che rispondere.
— Certo è che pubblico ed editori vogliono roba nuova.

— Ed ella ne legge nulla? — ho domandato

— È inutile, almeno per me. Io nei libri che leggo sono abituato a conoscer l’autore, a intender — senza saperne la persona — i suoi gusti, la sua mente, i suoi sogni. Nei libri vostri questo non è. Tutto vi è fuorché l’autore. L’autore fa i libri non secondo i suoi gusti, ma secondo i gusti del pubblico, o anche secondo i gusti che egli vorrebbe avere. È inutile. Io non li leggo. Conoscete la massima tedesca «Quel che è sì, è no, e quel che è no, è sì»? Questa sarà nella storia la divisa della età vostra. Del resto piace questo al vostro pubblico? E si serva. Io non me ne occupo più.

Solo a questo punto io ho letto negli occhi reclini un rimpianto dispettoso. Egli si è scosso e si è frenato:

— Io, come vedete, sto sempre qui quando sono in casa e non sono in letto.
— E non va mai in campagna?

— Mai, eppure ho una bella campagna, e non è lontana. Ma... mi contento del mio giardinetto. Volete venire in giardino?

La domestica che attendeva nella stanza precedente è entrata e ha fatto scorrere su le rotelle la poltrona del vecchio, e, aprendo una delle due vetriate, lo ha spinto in giardino.



Io intanto esaminavo la stanza. Due specchi macchiati pendevano dalle pareti alte, molti armadi pieni di libri erano tutt’attorno, e i libri erano tutti rilegati variamente ed esattamente e nessuno aveva colore nuovo.

Sul marmo del caminetto, sopra un’altra tavola erano molti fiori finti scoloriti sotto campane di vetro; sopra la tavola sorgevano due candelieri di metallo a molti bracci, e ogni candela aveva sul lucignolo spento un cappuccetto di lana o rosso o verde. Anche su lo scrittoio erano molti di quei fiori artificiali, e intorno altri ninnoli vecchi esalanti per Lui chi sa che intenso profumo di memorie.

E siamo passati nel giardino. Lì abbiamo discorso di qualche comune amico romano, specialmente del conte Paolo di Campello, che è legato a Cesare Cantù da antichissima devozione. Egli ha soggiunto:

— Mi rincresce che non vi sia il sole. Nell’aria calda pesavano le nuvole e una luce livida avviliva i fiori del giardino intorno al pallido vegliardo reclino. Tutto era pallido intorno, anche le foglie più verdi e i fiori più ardenti quasi per una tangibile atmosfera che li velasse.

— Vedete. Io qui ho tutte le frutta: susine, ciliegie, albicocche. Io qui ho tanti fiori, tanti fiori rossi.

— Preferisce i fiori rossi?

— Mi piacciono tanto.

Ed egli volgeva lentamente attorno il capo stanchissimo. E tutto era pallido intorno, quasi da lui presente derivasse il pallore.

Un ricordo mi occupava. Ferdinando Martini una sera dell’ultimo inverno mi aveva narrato un suo estremo colloquio con Aleardo Aleardi pochi mesi prima della morte del poeta, una notte a Venezia, su la Riva degli Schiavoni. Diceva il poeta:

— Tutto, tutto è mutato. Io, io solo non so mutare.

Non significava questo appunto il sorriso dello storico illustre tra quei fiori nel giardino constretto dalle muri grigie? Oh morte nella vita, oh terrore dell’agonia cosciente! Chi piange il morire dell’anima o della mente quando vive ancora il corpo?



Poco dopo io mi sono congedato, temendo di stancare il Superstite. Egli è rientrato nello studio. Io, attendendo la domestica che mi doveva ricondurre, mi sono aggirato per il giardino. In qualche profonda sera d’estate non pensa egli mai tra quelle piante Margherita Pasterla e i tristi amori? Ho colto un fiore, in memoria.

Uscendo son passato davanti alla vetriata che era presso alla sua scrivania e, dall’aperto, ho visto lui dietro i vetri allo scrittoio col capo chino sui fogli, la destra nell’apertura della giacca e la sinistra su la tavola, rigido e immobile come una starna, dentro la camera piena di libri morti e di mobilia disusata. M’è sembrato di vedere a traverso a quella teca di vetri la reliquia di un altro mondo, certo la reliquia di un’altra età tutta scomparsa.

Mentre la domestica mi accompagnava all’uscita, io la interrogavo:

— Ma egli è solo, sempre così solo?

— Sempre.

— Non ha parenti? Persone affezionate? E la domestica con un sorriso indefinibile ha soggiunto:

Ghe n’a avuu, ma i’a minga sposaa!

E anche io ho sorriso e ho rammentato i fiori rossi ardenti nel giardino rinchiuso.


  1. La morte dell’illustre storiografo avvenuta all’11 di marzo del 1895 mi obbligherebbe a togliere dal libro queste pagine o a mutarne qualche passo. Io, per conservare alla raccolta unità di sembiante, preferisco ripetere qui parola per parola l’articolo che nello scorso agosto pubblicai su la Sera di Milano.
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