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Cerro, agosto del ’94.
Da Laveno (sul lago Maggiore) giunsi la mattina per barca a Cerro. Enrico Butti al timone, Luciano Zuccoli ed io ai remi. Non rammento una mattinata più fresca e più gioconda: il cielo tutto sereno, il lago (noi costeggiando eravamo nell’ombra) verso Pallanza tutto d’argento abbagliante, le rive verdi qua e là macchiate di rupi grigie o di case bianche, la istessa barca nostra tutta nuova fiammante coi cuscini rossi e il legno giallo, i nostri animi giovini festosi fiduciosi.
Tutto il giorno, sedendo sotto il bel pergolato della villa o passeggiando giù per la spiaggia pietrosa o salendo verso una fonte limpida su pel monte nel bosco, noi tre parlammo d’arte. Né io rammento d’aver mai parlato d’altro con Enrico Butti.
Ma verso sera seduti sotto il muro d’un orto, guardando il lago aperto e nebbioso di tra i pioppi fruscianti, noi due soli avemmo il colloquio più ordinato. Era il lago nebbioso come sempre è sotto il crepuscolo; i monti in faccia non avevano alcuna apparenza di solidità, ma si ergevano come grandi scenarii piatti, di un bel cobalto fluido; scintillavano senza irraggiamento i lumi bassi d’Intra e di Stresa; l’apertura del golfo di Pallanza era invisibile; sotto il cielo ancora vivido d’oro il lago placidissimo aveva lunghe strie color di zaffiro e color di topazio, come una immensa serica stoffa opaca. Ed Enrico Butti che è magro e pallido e ha i baffi fieramente rialzati e una lunga barba castagna rettangolare, così diceva:
— Io sono un ottimista e spero nel risorgimento della letteratura nostra non solo, ma anche d’ogni altra funzione artistica e sociale d’Italia. E una ragione etnica e storica (specialmente per quanto riguarda l’arte) pone l’Italia, nel confronto con le altre razze latine, in una condizione più favorevole a questo risorgimento che avrà senza dubbio un carattere di vera universalità; essa è stata per troppi anni occupata da stranieri diversi, specialmente da Tedeschi, perchè la sua nativa latinità non ne sia stata a suo vantaggio commossa e modificata. Da queste occupazioni di razze nordiche ella ha sopratutto derivato un’idealità che manca in generale alla Francia e alla Spagna. Ma intendiamoci bene: questo risorgimento sta per sorgere e diffondersi; ora come ora, non ne vedo che i sintomi e non ne so che le cause possibili. Dopo Alessandro Manzoni, la nostra produzione letteraria è veramente giaciuta in letargo. Se ne togli due o tre poeti ottimi — tra i quali primo e sommo il Carducci — e molti piccoli imitatori di questi o degli stranieri, se togli il Fogazzaro novellatore e romanziere di grande indegno, altro di bene io non scorgo in essa. Che cosa ci hanno dato infatti questi cinquant’anni ultimi? I manzoniani e i veristi. I primi sono già morti, ed è bene lasciarli dormire in santa pace; i secondi non furono che piccoli imitatori dei naturalisti francesi; ma, mentre questi con Emilio Zola assurgevano a una intensità simbolica potentissima, i nostri non facevano che le novelle paesane o rusticane, e fotografavano a caso gli angoli delle vie; Giovanni Verga stesso, benché sia riuscito a dare alle sue fotografie un colore e un’ampiezza di linee notevoli, non seppe creare che opere incompiute in cui sarebbe vano ricercare una qualunque sintesi o un insegnamento utile di qualsiasi genere. Né questo letargo fu per depressione economica: poco più, poco meno (e lo dico perché conosco ormai le condizioni di tutti quelli che lavorano oggi di letteratura in Italia) lo stato economico degli scrittori non è mutato. Le cause vere furono politiche: il patriottismo prima — e questo fu bene, — il parlamentarismo poi — e questo fu male — assorbirono in Italia quasi tutte le attività intellettive. Il primo segno del risorgimento, che sta ora per fiorire, lo si ebbe dieci o quindici anni sono. Come sempre, esso si preannunziò con un gran battagliare di discussioni e di critiche, con una ripresa gagliarda della smania d’erudizione, con una messe disordinata di opere destinate al successo d’un giorno, scritte per iscopo di satira o di polemica piuttosto che per puro ed elevato intento d’arte. La lirica di Lorenzo Stecchetti è il saggio migliore e più significativo di questa messe preparatoria. Fu in proporzioni assai più modeste un movimento consimile a quello degli Umanisti su lo scorcio del secolo quindicesimo, movimento che preludiò l’epoca d’oro del Rinascimento. Perchè non dovremmo dunque in oggi sperare una nuova rinascenza della nostra letteratura? Ormai gli spiriti polemici si sono acquetati; ormai in Italia si studia meglio e di più, sopra tutto da coloro che s’occupano dello scrivere; omai anche le condizioni politiche permettono, anzi consigliano una tregua salutare agli animi. Per queste considerazioni mi sembra propriamente maturo il tempo in che gli artisti italiani tutti concordi potranno cercare e forse trovare una formula d’espressione estetica che sia unica ed italiana pur rispondendo alla universalità del pubblico.
— Secondo te, dunque, uno dei caratteri del nuovo Risorgimento sarà l’universalità. Ne avrà altri distinti?
— Sì, un altro specialmente: l’Idealismo. Come la parola è divenuta ambigua per il soverchio uso, mi spiego. Non intendo per idealismo quella sentimentalità umida e fantasiosa, che impronta, ad esempio, quasi tutte le produzioni femminili nel nostro paese e che è stata per molti anni il più gradito condimento di romanzi e di drammi lacrimevoli. Non intendo neppure per idealismo ciò che intendono i così detti Cavalieri dello spirito, cantati senza rima da Matilde Serao; questo non è che un misticismo querulo e retrivo, una inopportuna risurrezione delle dottrine di Cristo fatta per debolezza di mente o per ismania di finzione e d’imitazione. Io credo a questo proposito nulla essere più vacuo e più stridulo nell’accordo dei tempi nostri che l’idea e il sentimento cristiani; essi ripugnano ormai a qualunque spirito veramente moderno, e potrebbero essere una tremenda sciagura sociale e morale, quando riuscissero ad avere, sia pure per un sol giorno, una forte influenza su le anime. Il nostro dovere è dunque di combatterle ad oltranza, come si combattono quelle malattie spaventose che si comunicano per contagio e minacciano l’esistenza d’una intera popolazione. Io adopero la parola idealismo a significare due fatti: la coscienza e la curiosità che l’artista creatore ha dell’Inconoscibile, cioè di quanto s’agita oscuramente dietro le semplici apparenze; la necessità che a centro dell’opera creata sia posta un’idea eccelsa. Le preoccupazioni dello scrittore idealista io le formulerei dunque in queste massime: non considerare mai i fenomeni della vita soltanto nelle loro esteriorità sensibili, ma altresì nella loro significazione ideale, nella loro essenza intima e profonda; non arrestarsi mai nella descrizione d’uno di quei fenomeni quando le sue apparenze si spengono, ma piuttosto quando i suoi effetti morali risultino chiari ed evidenti; scegliere possibilmente dei soggetti che, pure essendo strettamente veri, compendiino in sè una moltitudine di fatti singoli atti ad essere raggruppati sotto una denominazione comune, così che dalla narrazione d’uno solo fra essi emerga per necessità logica un’idea generale, eterna, immanente, quasi direi: un assioma di vita individuale o sociale. Il fatto narrato diverrebbe per tal modo un simbolo, e precisamente il simbolo d’un’idea.
— E quale forma letteraria sarà l’indice di questa mutazione?
— Il Romanzo, ma non quale è stato finora inteso dalla maggioranza dei romanzieri: cioè un’arte da dilettanti, con lo scopo di ricreare una data classe, d'occupare gli ozii poco intellettuali dalle signore e degli sfaccendati. Il teatro è la forma di letteratura più adatta a un siffatto scopo; e può servire anche il romanzo nelle sue meno nobili espressioni. Ma non è di questo ch’io intendo discorrere. Io accenno in vece al «romanzo opera d’arte». Esso racchiuderà a volta a volta anche le altre forme letterarie; il dramma, l’epopea, la lirica, e la satira. Avrà del dramma la parte dialogata e la parte rappresentativa, che dovrà esser viva, evidente, inspirata direttamente alla realtà; avrà dell’epopea le linee robuste e solenni, la concettosità finale, la elevatezza dello stile, e potrà anche in avvenire assumerne gli argomenti; avrà a tratti della lirica e della satira le movenze, gli intenti, la forza, le suggestioni.
— Ma il teatro non potrà anche accogliere a sua maggior forza le massime che tu hai formulate per il romanzo?
— Se per teatro intendi l’opera d’arte che deve essere rappresentata, io ti dichiaro subito che non lo credo e non lo spero. Ha tali necessità meccaniche che non si può mettere alto nella scala estetica; e poi è e sarà sempre umiliato dal suo giudice naturale, che è la folla. Questa non si divertirà mai all’infuori che ai drammi sanguinosi e alle farse più scipite; i suoi gusti sono assai simili ai gusti del selvaggio; ad essa piace di commuoversi o di ridere, e non ha commozioni se non al conspetto di fatti grossolani, di spettacoli enormi e violenti. La critica teatrale non vale molto di più della folla, da cui attinge quasi sempre impressioni e criteri: è fatta (salvo le solite eccezioni) da gente ottusa, incolta, acida, che scrive per guadagnarsi il pane, e se lo guadagna a dispetto dell’arte e del buon senso. Come vuoi che il teatro, giudicato dalla folla e dal giornalismo (da questo implacabile nemico della letteratura) possa competere col romanzo il primato delle opere estetiche?
— Ma tu hai pur fatto anche del teatro? — Sì, per farmi conoscere. Ma sono stati dei tentativi ai quali il gran pubblico è mantenuto prudentemente estraneo. Quando poi ho voluto scrivere in forma drammatica un’opera d’arte, sono stato frainteso, vilipeso, deriso ed accusato perfino di plagiare Enrico Ibsen! La colpa del resto è stata mia, avendo voluto prostituire alla folla e ai giornalisti un lavoro scritto per i pochi che leggono e intendono.
— E la poesia?
— Sarà in gran parte assorbita dal romanzo. L’epopea non esiste già più, perchè la democrazia l’ha uccisa. Un avvenimento troppo complesso, troppo disperso e troppo basso tiene il posto di onore nella storia contemporanea: la Rivoluzione francese. Questa non si presta a divenire materia epica se non in una minima parte, che il Carducci ha già tentato di sfruttare col suo Ça-ira. Per discuterla e per ridurla alle sue giuste proporzioni, come fece il Taine, occorre un filosofo e non un poeta. E per magnificarla bastano i retori e i demagoghi, e son già di troppo. Ci sarebbe forse la gran figura del Bonaparte atta ad essere il perno d’un’epopea; ma noi siamo troppo vicini ai tempi suoi per poterla considerare nelle sue linee poetiche, e d’altra parte ora è in dominio della storia, che ci lavora intorno con troppa lena e la precisa con soverchia pazienza, togliendole ogni aureola di superumanità. Della poesia, resisterà ancora la forma lirica, in componimenti frammentari, d’indole soggettiva, scritti dagli artisti più per sè medesimi che per il pubblico.
— Ma per il romanzo che tu elevi a tanta altezza esiste la lingua adatta? Voi, milanesi, non date certo in generale bell’esempio di scrivere.
— Questo è ormai divenuto un luogo comune ed è falso in sostanza. Noi milanesi non scriviamo peggio dei romani, dei napoletani e dei siciliani; alcuni di noi scrivono anzi meglio di questi e di quelli. Il guajo si è che la lingua italiana adatta al romanzo si sta formando adesso. Il romanzo deve avere al suo servigio anche la lingua parlata, non la sola lingua aulica, e una lingua parlata veramente capace d’esprimere il pensiero moderno con le sue sottigliezze e le sue sfumature non c'è ancora in Italia. Bisogna perciò studiare i testi e diffondere il vocabolario, di cui una gran parte è inerte e sconosciuta; bisogna liberarci di tutti i neologismi esotici e sostituire ad essi i vocaboli indigeni, quasi sempre più esatti e più espressivi. Solo dopo questo studio potremo permetterci di assumere una forma di periodare più libera e più sciolta che non sia quella tramandataci dai modelli antichi e consacrata dagli academici, senza pericolo di scrivere in prosa dialettale, come si è fatto per molti anni e si fa tuttora anche da letterati, — o in una illeggibile prosa aulica, zeppa di leziosaggini e di circonlocuzioni viziose. Gabriele d’Annunzio ha dato nei suoi libri ultimi un saggio eccellente di quanto si possa adattare al pensiero contemporaneo la nostra lingua; la via dunque è già stata indicata. A noi resta di seguirla.
Alcuni fanciulli facevano un grande chiasso giù su la spiaggia bassa e sul prato acquidoso tra i pioppi. Nelle pause del nostro colloquio non udivamo che il brusio dei pioppi e quelle strida acute dei ragazzi che correvano presso l’acqua, — strida che pareva traversassero come freccie splendide l’aria nebbiosa e silenziosa.
Io insistei sopra una domanda:
— Queste idee immanenti e somme cui dovrebbero vivificarsi le nostre prose sono così lontane dal mondo che mai fra esse apparirà la questione sociale?
— Anzi! Tutt’altro. La questione sociale domina i tempi nostri e ne informa tutte le manifestazioni e le idee. Essa pende minacciosa su le nostre teste e può da un momento all’altro schiacchiarci o deformarci: bisogna vigilare perchè ciò non accada. L’artista non può e non deve rimanere estraneo ad essa, rinchiudersi nel suo studio e sognare, mentre all’aperto la realtà lo vuole spettatore e, fors’anche, attore del dramma immenso. Ogni forza viva sottratta al combattimento può pregiudicare l’esito d’una battaglia; e tutte le nostre convenienze più care e più vivaci richiedono che la vittoria non penda dalla parti a noi avversa. — Una bufera di volgarità si è riversata dalla fine del secolo scorso su la società civile, e ne minaccia le basi e tenta di capovolgerne sempre più gli ordini e le autorità. L’organismo sociale è oggigiorno affetto da una terribile nevrastenia, che è il feticismo per le plebi: dalle idee morali di Cristo, che esaltavano fino alla deificazione gli umili, i deboli e gli imbecilli, si è, per cause molteplici, giunti a nuove idee non meno innaturali che vorrebbero chiamare indistintamente tutti gli uomini — solo perchè uomini — alla suprema dignità di legislatori, di governanti e di giudici; — che vorrebbero largire la felicità ad ogni essere umano, mediante, il principio grottesco che ognuno deve essere remunerato secondo i proprii bisogni e non secondo i proprii meriti. — Non parlo del Socialismo, che ora è soltanto una teoria poco precisa e poco convincente, ma che in un’età indefinita potrà forse divenire una realtà buona e salutare; parlo della Democrazia in generale, di quel complesso d’idee, di volontà e di instituzioni che tentano di sconvolgere la società civile in onta alle leggi della natura, alla logica della vita, alle deduzioni più salde della scienza.
— Tu hai detto che il Socialismo potrebbe divenire una realtà buona e salutare? Spiègati meglio.
— Non intendo certo il Socialismo della piazza, che è un prodotto velenoso della Democrazia e non ha di Socialismo altro che il nome. Non intendo nemmeno il Socialismo politico, che è finora una burletta o, peggio, una speculazione; né il Socialismo umanitario, concezione nebulosa e patetica d’alcune menti troppo sensibili. Il Socialismo vero è un puro sistema d’ordinamento economico, in cui la distribuzione delle ricchezze sia fatta in un modo più equo e più logico che ora non sia. Per il Socialismo, così strettamente inteso, io non ho un’aperta avversione: può essere un’utopia, ma è una graziosa utopia che si pensa volontieri e non disturba i sonni e l’appetito. Molto più che un tal sistema, in caso di possibile realizzazione, dovrà essere organizzato e retto da una forte Aristocrazia.
— Nella lotta presente qual’è dunque il posto che tu assegni all’artista?
— Egli dovrà essere conservatore, finché almeno le democrazie si arrogheranno il monopolio delle innovazioni sociali. L’arte non ha molto da sperare da una società dove le idee democratiche non sieno più platoniche affermazioni parlamentari o retoriche divagazioni giornalistiche. L’arte ha tutto da temere da un prossimo trionfo del Socialismo rivoluzionario; per questo noi, nelle nostre opere più ideali e più alte, dobbiamo sempre tendere indirettamente o direttamente a combattere l’avvento dei rozzi e degli ignoranti. L’ presa non sarà affatto inutile come potrebbe a certuni sembrare. Noi, con le nostre opere ci rivolgiamo alle classi nobili, colte e facoltose: gli interessi vitali di queste classi sono i nostri medesimi.
Pur troppo esse se ne sono dimenticate, o hanno paura di ricordarselo! Il nostro esempio e i nostri avvertimenti potranno forse richiamare queste classi ai loro doveri ed ai loro diritti. Un’aristocrazia sarà così ricostituita e stretta in falange; un’aristocrazia che farà una terribile resistenza con la forza dell’ingegno, delle tradizioni e del censo, a quelli che non hanno altro per sé che la forza del numero. Non sarebbe questo un risultato splendido e memorabile per l’arte contemporanea, oltre i suoi trionfi estetici?
La notte era scesa tra quella nebbia con tanta prestezza, che nel grande silenzio sembrava paurosa. Era il silenzio tanto grande su la spiaggia sassosa che nella bruma oscura il lago emanava un senso d’immensità quasi che fosse un mare.