< Alla scoperta dei letterati
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Edmondo De Amicis
Enrico A. Butti Giovanni Pascoli






















Biella, settembre del ’94.        


La valle del Cervo che da Biella sale fino ad Andorno e più su fino alla Balma e a Campiglia distante appena tre ore di mulo da Gressoney, è forse la più quieta e la più libera delle valli Biellesi. Dopo Biella gli alti camini delle manifatture scompaiono, e appena sotto Andorno riappariscono più rari tra le robinie, i pioppi e i faggi; dopo Andorno il tramway corre in una gola stretta ora dalle rocce e dalle acque cadenti, ora da brevi prati verdissimi, eguali, tonduti come in un parco, vigilati da pioppi altissimi pallidi nel tronco e nelle fronde. Raramente, si scorge qualche donna intenta a raccogliere erba o legna, o a lavare panni genuflessa su la roccia verso l’acqua limpida. Una serie continua di paesaggi alpestri verdi, quietissimi, che hanno per isfondo i monti e in alto in alto un arco di cielo chiaro.

E si desidera per tutta la via ardentemente di escire dal piccolo tramway sconnesso e sbuffante per poter liberamente «udire il silenzio» che quasi fa sacre tutte quelle fresche solitudini alpestri.

Alla stazione della Balma, che è l’ultima, trovai Edmondo De Amicis, coi suoi due figli, due ragazzi alti e validi come il padre loro. Il capitan cortese ha l’aspetto ancora giovine e salutevole, e non mostra affatto in sembiante quella stanchezza e quella incerta salute da cui tutti derivano il ritardo nella pubblicazione del Primo maggio. Ha i baffi grigi, folti, corti, rilevati, la fronte ampia, le ciglia lunghe e gli occhi assai placidi e benigni. Portava un largo cappello di paglia e vestiva a lutto.

Ci incamminammo verso Campiglia discorrendo.



— Ella m’interroga su questioni di letteratura. Ma io di letteratura non mi occupo più da tanto tempo. Non mi do che agli studii delle scienze sociali, trascurando tutto il resto, con l’ardore dei neofiti.

Io osai insistere, per giovarmi di tutto il poco tempo che avevo fino al prossimo treno. Egli mi disse:

— La letteratura italiana oggi è povera, poverissima. E anche le altre letterature si trovano negli stessi cenci. Perchè? Perché sfuggono sia coscientemente, sia per insipienza tutto il pensiero che occupa il pubblico. I letterati si ritirano in eremi, lontani dal romore del mondo, e il mondo non li sa e non li vede. Ma le ragioni economiche riaddurranno i letterati sul retto sentiero. Essi dovranno pure aprire gli occhi a quello che si pensa intorno a loro, e, sia lottando in favore, sia lottando contro, dovranno occuparsi dei nuovi ideali sociali. Nuovamente interruppi:

— Ella non crede più alla letteratura pura?

— Io ci credo, anzi, e fermamente. Ma per due cause essa andrà affinandosi, così da escludere ogni mediocrità. E la prima causa è: la cultura si diffonderà anche prima dell’avvento del socialismo, e i lettori fatti più intelligenti non saranno più così facilmente contentabili. E la seconda causa, del resto concomitante a quella, è: la letteratura sociale, la letteratura che ha un pensiero, si farà così diffusa e avrà tali vittorie che l’altra dovrà o cadere se debole, o bene armarsi e invigorirsi se atta a resistere.

Tutt’intorno dai pioppi, dalle robinie e dalle siepi basse era un grande cantar di cicale.

— Quale forma letteraria sarà più atta a giovarsi di questa cura idroterapica? Scusi la similitudine suggerita dai luoghi.

— Io credo che il romanzo sia la grande forza di battaglia e di propaganda, perché l’autore può meglio mostrarvisi difeso da tutti gli argomenti della intelligenza e del sentimento. Ma non intendo che il romanzo abbia una tesi, il romanzo narrerà dei fatti coordinati a un’idea, ma la conclusione deve essere fatta dal lettore, non dall’autore. Mai. L’arte se vuole esser arte, non deve predicare, ma deve avere uno scopo. Ecco le due parole che danno nettamente la differenza: scopo, non tesi nel romanzo.

— Non crederebbe che il teatro, per la sua più diretta azione sul pubblico, sarebbe secondo quest’ordine di idee, più efficace?

— No, chè le masse riunite sono più resistenti e diffidenti. La conversione, la persuasione è più facile sopra un individuo solo, per mezzo di un libro letto e ponderato nei momenti di buona volontà. Tante cose rendono l’alea del teatro così incerta e pericolosa. Si potrebbe a volta fare un danno, invece di un bene. In ogni modo per un’azione così diretta e palese sul pubblico riunito a folla, i tempi non sono maturi. Io non credo, adesso, a un teatro sociale e tanto meno a un teatro socialista.

— E la poesia?

— Tanto meno.

— Oltre quello che ella intende fare in futuro, ella vede in Italia qualche accenno alla realizzazione di questi suoi ideali letterarii?

— Certamente, ma non voglio far nomi. In ogni modo il pensiero, magari lontano dall’idea delle mutazioni sociali, magari avverso al socialismo, si infiltra già in molta letteratura, e la vivifica. Presto ella vedrà che tutti gli scrittori se ne occuperanno e gli altri cadranno per anemia. Questo avverrebbe anche prima se molti pregiudizii sul socialismo cadessero.

— Per esempio?

— Per esempio, quello di esaminare il socialismo come una costruzione architettonica salda, immutabile, fissa, sognata così e così applicata. Il socialismo è una méta che forse, così come la pensiamo, non sarà raggiunta mai. Ora i più che non sanno e non vogliono sapere, lo concepiscono come una immane fabbrica e si mettono innanzi a quella fabbrica deridendoci e domandandoci: — Oh! per dove si entra? — E chi lo sa? E lo vedremo! Lentamente ci metteremo su la buona strada e cammineremo. Dove arriveremo? Certo all’intera applicazione del collettivismo non arriveremo mai.

— Ma anche quelli che studiano scienze sociali con amore e profondità, mettono una pregiudiziale, e dicono che il socialismo è contrario all’arte.

— Contrario all’arte? E perché? Come fonte di inspirazioni, mi pare che il socialismo sia prezioso. Quale avvenimento moderno genera altrettante emozioni che la minacciata temuta maledetta lotta di classe? Quale? Dopo il patriottismo e la letteratura patriottica in Italia non abbiamo avuto alcuna forma di letteratura vitale. Il socialismo ce la darà. Ma gli artisti, i letterati discutono, come tutti i borghesi, con i loro interessi personali davanti agli occhi. Ora non è così possibile alcuna parvenza di discussione. Bisogna cominciare dal rifiutare deliberatamente uno a uno tutti questi interessi personali, bisogna soffrire, come ho sofferto io a vedere amici cari allontanarsi da me come da un pazzo, e bisogna soffrire a vedere la pervicacia con che quelli amici nella loro cecità negano la verità conosciuta. Quelli sono dolori che purificano e snebbiano la vista per giudicar nettamente. Io li ho veduti ostinati davanti alle prove più patenti, ostinati a gridarmi sul viso: — No no: due e due cinque!

E nella passione il De Amicis si era fermato in mezzo alla strada e tracciava quelle cifre col bastone su la polvere, l’una sotto l’altra a mo’ di addizione.

— Sissignore! Due e due fa cinque.

— Ma una cosa irrita massimamente col solo suono del suo nome gli artisti, ed è l’eguaglianza. — L’eguaglianza? Già lo so. Il signor Marco Praga dice che è ridicola. Ma che intendono per eguaglianza? L’eguaglianza davanti alla legge? Ma quella c’è mi pare, per diritto costituzionale. L’eguaglianza morale o intellettuale? Ma quella sarà sempre impossibile, e anche fuori dei letterati ci saranno sempre degli asini accanto agli uomini di ingegno, dei noiosi accanto agli uomini di spirito, come ci saranno degli uomini belli accanto a quelli brutti. Eguaglianza economica? E chi ve l’ha detto? Ve l’ha detto il socialismo posticcio che vi fate voi: vi sarà sempre per ogni opera il valor di consumo, il valore di utilità della collettività. Ah essi protestano che il giorno in cui fossero ricompensati come i garzoni di un farmacista, non potrebbero più lavorare? Bella letteratura, bell’arte, la loro. E Cossa era ricompensato più lautamente di un attuale garzone di farmacista? Ma qualche volta si sarebbe augurato uno stipendio simile, povero Cossa! Poi confrontate un po’ il guadagno di un romanziere col guadagno fatto sul suo libro dal suo editore! Se sapesse ragionare, certa gente finirebbe per accettare il socialismo a suo miglior vantaggio.

— Ella crede che un forte vantaggio economico non sia una causa di sviluppo dell’arte?

— Niente affatto. La letteratura, tutta l’arte attuale decade per quello, ora. Ma non guardiamo le arti della pittura, della scultura dove basta pensare agli artefici del nostro risorgimento per dare ragione a me. Guardiamo alla letteratura solamente. Sainte-Beuve ha ben notato come questa preoccupazione del maggior guadagno nous pousse à la ligne, à la colonne, à la page, au volume inesorabilmente, uccidendo il principio estetico inspiratore. Se Zola dopo l’Assomoir che gli ha dato da vivere per otto anni, non avesse scritto subito Une page d’amour che è un cattivo romanzo, che danno ne avrebbe risentito l’arte francese? Proprio tutta questa produzione farraginosa, impensata, ansante passerà ai posteri? Che importa a me che il signor Verga, o il signor Praga, o il signor d’Annunzio che sono contrarii al socialismo, invece di guadagnare centomila lire ne guadagneranno solo mille? Purché vivano così da poter lavorare... Del resto per i lamenti dei loro offesi interessi personali non si arresterà il socialismo. È ridicolo... L’uguaglianza sconcia è quella di adesso. Uno di quei letterati con un’opera degna e travagliata guadagnerà dieci, ventimila lire; un borsista in un’ora con un coup-de-tête guadagna un milione.

Bella eguaglianza...

E nuovamente tornammo a parlare dei dolori che la sua improvvisa conversione gli aveva procurati. Egli mi domandò tante cose sul Björnson che era stato a Roma nell’inverno ultimo e che, per una sua simile conversione avvenuta in età già matura, ha tutta la simpatia fraterna del De Amicis.

E le cicale cantavano.




Passammo accanto a un ponte di legno verniciato a nero, sospeso sul torrente scoglioso.

Era scritto a capo del ponte: «Il proprietario del ponte non garantisce le disgrazie.»

Il campanile bianco di Campiglia sorgeva di tra i pioppi, presso il torrente. Dopo un’ora lasciai il piacevole interlocutore per tornare alla stazione della Balma. Prima della stazione la costa del monte si apriva, come ferita, per lasciar precipitare un ruscello d’acqua chiara. Nella ferita le rocce, tagliate dalle acque invernali più copiose ed irruenti, facevano cumuli bizzarri; una, grande e giallognola pareva sospesa nel vuoto, pronta a rotolare giù nel burrone, frantumando le altre rupi, schiantando gli alberi e gli arbusti. Un bimbo al mio passaggio apparve su l’alto delle rocce e cominciò a chiamarmi ridendo.

Per un attimo mi parve che il bambino inconsciamente spingesse con quei suoi salti scomposti la roccia a cadere.

E mi allontanai, meditando quel che avevo visto, quasi avesse un valor di parabola.







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