< Alla scoperta dei letterati
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Giovanni Pascoli
Edmondo De Amicis Giovanni Marradi






















Livorno, settembre del ’94.


In una via eccentrica, lungi dalla romorosa vita spensierata dei bagnanti, in una casa piccola e linda, vive Giovanni Pascoli, il poeta gentile. E la sua casa ha un giardino breve, dove le due sorelle pazienti coltivano molti fiori e molte erbe odorose, e dove, in una lunga fila di gabbie diverse, cantano passeri, cincie, merli, fringuelli. In una grande stanza al primo piano, il dottissimo latinista — che anche quest’anno dall’internazionale Concorso di Amsterdam ha riportato a maggior vanto d’Italia la medaglia d’oro1 — studia presso un’ampia tavola ingombra di libri, di bozze, di carta; e davanti a lui, presso la finestra aperta, sul verde le due sorelle lavorano quiete, sollevando a tratti la testa verso il poeta.

Per lor ripresi il mio coraggio affranto
E mi detersi l’anima per loro:
Hanno un tetto, hanno un nido ora, mio vanto;
E l’amor mio le nutre e il mio lavoro.

Così, come leggendo le Myricae avevo pensato, io oggi ho trovato Giovanni Pascoli. Quanti in Italia lo ammirano? Io oserei anche domandare: Quanti in Italia lo conoscono? Senza brigare, senza gridar alto, egli, che è tra i due o tre sommi poeti nostri, da quattordici anni insegna letteratura in un liceo di provincia per più di venti ore alla settimana; e adesso, nelle vacanze estive, da mane a sera attende a un’edizione critica d’Orazio, e appena una volta la settimana si permette di escire a passeggio fuori della città, lontano, verso la macchia del Limone, sognando ed erborizzando con una cura di botanico dotto. E io, parlando con lui, vivendo con lui, come ho fatto in questi pochi giorni, se ho pensato che è veramente ingiustizia supina lasciare là in lotta con le necessità della vita un uomo come quello, mi sono involontariamente addolorato a supporlo lontano da quella sua quiete, da quel suo giardino dove fiorisce il dittamo e la cedrina, da quel suo stanzone semplice, dove dai libri si diffonde il pensiero, dal lavoro assiduo delle due donne la pace, dal cantar degli uccelli nelle gabbie la gioja purissima.



Giovanni Pascoli è un uomo di media statura e dall’aspetto robusto, ha poca barba rossiccia, occhi mutevoli, a volta quieti e dolci, a volta caldi di ironia un po’ amara. Veste semplicemente, e semplicemente affettuosamente parla. Con gli estranei è poco espansivo, come uomo amante della solitudine per aver bene conosciuto gli uomini. Quando parla dell’arte sua, comincia a passeggiare per lungo e per largo la stanza, così da obbligare allo stesso esercizio anche il suo interlocutore, se pur questi non preferisce un giramento di testa.

La sua poesia, come i lettori delle Myricæ ben sanno, è tutta semplice, sobria: su due argomenti vive principalmente, l’affetto che unisce le persone di una stessa famiglia, e il paesaggio campestre osservato con acume di poeta fino nelle minime luci e nelle minime ombre. M’han detto che il Pascoli abbia da giovine perduto il padre tragicamente; da pochi anni la madre lo ha seguito al camposanto, ch’egli invoca così:

O casa di mia gente, unica e mesta,
O casa di mio padre, ultima e muta,
Dove l’inonda e muove la tempesta...

E quelle tombe sinistramente dominano tutta la poesia sua a ogni foglio, a ogni anniversario, in mezzo a ogni visione gioconda. È dolorosissimo e, per la semplicità della espressione, talvolta terribile. Tra queste poesie di affetto così disperato egli insinua le sue brevi note campestri, umili, candide, dolcissime: un capannello di donne che guardano il treno passare; uno stelo che trema sotto una farfalla; una paglia che pende da un nido e sta per sparire col vento; un aratro abbandonato in mezzo alla maggese; un vaso di dittamo; un pezzente che presso alla alla fontana mangia il suo pane solo. E i particolari nella descrizione sono così sapientemente scelti, che la figurazione sentimentale immediatamente e necessamente deriva da quella sensoria.

Figuratevi, dopo quel che v’ho detto, come rimanessi io ad udir Giovanni Pascoli dirmi:

— Io sono socialista. Sono stato nel partito militante. Poi mi sono affievolito, da quel lato. E si intende. Sai ch’io sono un insegnante e per mangiare bisogna fare il proprio dovere. Veramente la parola socialismo, come la parola anarchia, ha preso dei significati così varii, a volta pusilli, a volta larghissimi: e non c’è da fidarcisi. Ma nel senso, diremo così, etimologico, io sono socialista. E in quello che scrivo, applico questo pensiero mio.

— E come?

— Io penso che le nostre condizioni sociali sieno in gran parte simili a quelle dell’impero romano. Il fastigio attinto da quella potenza mondiale ha forme egualissime a quelle dell’odierna società borghese trionfante: e fra le altre massimamente l’accentramento delle popolazioni nelle grandi città pel commercio e per le manifatture.

Allora Virgilio ed Orazio chiedevano e cantavano l’amore alla campagna, la diffusione della ricchezza, l’aurea mediocritas, invitavano i ricchi e i poveri a disertare o temporaneamente o per sempre la torbida vita cittadina per la quiete dei campi, ed essi pei primi ne davano l’esempio.

Questo io pure canto, questo — se potessi — io pure farei, e certo farò appena potrò.

— La poesia è divenuta solamente lirica. Credi tu che hai scritto i più brevi componimenti poetici della letteratura nostra, che la tenuità sia una qualità essenziale della poesia presente?

— Tu hai ragione a dire la poesia attuale essenzialmente lirica e soggettiva. Il Carducci, cui è stata data lode di essere oggettivo, non lo è mai. Nell’ode Alle fonti del Clitumno, ad esempio, quando egli canta del rosso Galileo e delle vicende della sua religione, è oggettivo? E poi in tutti i carmi sabaudi è oggettivo? Del resto, dal lato formale io non credo che il poemetto in forma epica sarebbe disdegnato dall’età nostra; ma bisognerebbe che fosse, secondo me, di soggetto umile, spesso campestre. Ed esempi sommi recenti ce ne darebbe il Tennyson con l’Enoc Arden, e La figlia del mugnaio; e con lui altri inglesi minori e qualche scandinavo. Ma, come ben ha saputo fare il Tennyson, bisognerebbe evitare ogni pastorelleria d’arcadia, bisognerebbe essere semplici, sinceri, umili, bisognerebbe adattarsi al soggetto...

— Ne tenterai?

— Forse, non per ora. Anzi ti dirò una cosa che ti potrà sembrare strana. Io vedo che nel teatro comincia a penetrare il pensiero, l’idea che serva di scheletro al dramma: non la tesi, intendimi, che è morte dell’arte. Quanto più il pensiero vivificherà il teatro, tanto più esso tenderà alla poesia, e torneremo alla poesia drammatica a mò di Shakespeare, non dei tragici nostri. E il primo passaggio potrebbe essere l’endecasillabo nostro, che ha forme così varie e così belle, ma lo si dovrebbe disporre in forma prosastica, un verso dopo l’altro, così da dare un periodo musicalissimo: questo fa in Belgio Maeterlink nelle sue fiabe, con il verso alessandrino. Ma questi son sogni. Il teatro, come è adesso, sopra tutto quello che hanno chiamato il teatro naturalista, è una forma d’arte povera ed inferiore.

— Della poesia italiana così com’è adesso che pensi?

— Penso che da molto tempo non era così fiorente. E a prova chiarissima darò il fatto che da molto tempo essa non era così sincera. Prova a guardarti addietro di qualche anno, di pochi anni, e fa il confronto! La retorica, che anche nelle poesie del Carducci è stata magna pars, ora scompare lentamente. E il più sincero tra i sinceri — ti sembrerà strano — è, per me, Gabriele d’Annunzio. Egli è il primo poeta d’Italia, adesso che Carducci non scrive più versi; e non solo è il primo poeta d’Italia, ma pochi all’estero reggono al confronto. Egli, anche nel periodo primo dell’imitazione polizianesca era sincero, perchè, essendo di temperamento molto sensuale, aveva scelto maestri di forma vivi della stessa vita sua; e li aveva scelti conscientemente e non aveva ancora venticinque anni. Del resto lo stesso studio della forma non è una forma di sensualismo estetico? Io ti dirò di più: credo che il sensualismo, lasciando da parte qualche fenomeno morboso, sia un carattere precipuo della lirica erotica italiana, così come lo è stato della latina. La sovrapposizione del cristianesimo lo ha, per via di contrasto, tenuto vivo.

— Così anche il romanzo?...

— Sì, sì, anche il romanzo erotico di Gabriele d’Annunzio non accogliendo il sentimento che come stanchezza del senso, è sotto quel punto di vista opera veramente italiana.

— La lingua e lo stile adoperati dal d’Annunzio sono da te accettati senza critica?

— Lo stile di Gabriele è ottimo, e, come stile narrativo, nuovo ed italianissimo, non — come alcuni milanesi che non sanno scrivere, vorrebbero dire — foggiato su lo stile francese. Del resto non comprendo questo continuo spavento del contagio francese; ma le due lingue son così simili che certi scambi devono fatalmente avvenire, anzi è bene che avvengano. I nostri antichissimi poeti non avevano timore di prendere parole dal provenzale. Ora siamo diventati schifiltosi. Quanto al vocabolario di Gabriele, io ti dirò che lo credo ottimo; solo vorrei vedere vivificato quel suo carattere aulico da qualche buona infusione di dialetto. A studiar bene i classici nostri, si vede che noi abbiamo delle parole che ora sono credute dialettali, e invece sono state e sono vivissime ed italianissime. E questo avviene massimamente nei nomi che significano cose campestri, piante, animali, strumenti, paesaggi. E qui mi permetto di fare un’osservazione, e mi pare di averne il diritto!

E rideva bonariamente.

— La campagna è stata per troppo tempo dai nostri poeti descritta convenzionalmente sopra un tipo fatto; per troppo tempo gli uccelli sono stati sempre rondini ed usignoli, e per troppo tempo i fiori dei mazzolini sono stati rose e viole. Si studia tanto la psicologia che un po’ di botanica e di zoologia non farebbe male. Il primo è stato Gabriele il quale però molte volte usa a denominare le erbe e le piante il nome latino italianizzato, mentre abbiamo dei nomi italiani meravigliosi e poeticissimi. Ma anche lui, anche lui! Oh non mi è andato a far nidificare, non so più dove, gli usignoli sui cipressi?

E rideva, rideva festosamente come chi raramente ride.



Poi seguitammo ad andare attorno pel piccolo giardino guardando gli uccelli e i fiori.

E io m’auguro che il grande voto di Giovanni Pascoli sia tra pochi anni esaudito così che egli possa vivere quieto e solo in una piccola villetta in Toscana o nella sua Romagna natale, seguitando a scrivere e a studiare, vivo di quella fiamma che pochi hanno così intensa come egli ha, e che si chiama Poesia.



  1. Io scrivevo nei 1894 queste linee; e anche in quest’anno, 1895, Giovanni Pascoli ha vinto allo stesso concorso un’altra medaglia d’oro.
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