< Alla scoperta dei letterati
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Ferdinando Martini Cesare Pascarella



















Roma, ottobre del ’94.


Quelli che lo conoscono da molto tempo mi dicono che venti anni fa egli aveva il medesimo aspetto: calvo, coi baffi bianchi non folti, roseo, un poco obeso, con una espressione dolce di lavoratore serio e solitario. Le molte battaglie anche maligne, contro lui e contro l’opera sua combattute non hanno mutato il suo sorriso e il suo colorito. Egli abita nel cuore della vecchia Roma, a via in Arcione, alle falde del Quirinale, e lavora in una stanza grande, ariosa, con quattro finestre e con molti eleganti scaffali dove molti libri, tutti sotto una bella veste di pergamena candida, sono allineati.

In quella camera egli mi ricevette con la cordialità consueta; le quattro finestre erano aperte sul mite cielo d’ottobre e davano a quella stanza l’ampiezza di una veranda; dall’architrave di una finestra pendeva una gabbia d’uccelli, e nessun romore saliva giù dalla vecchia strada stretta. Una pace grande ottima, propiziatrice al lavoro. Da una porta aperta intravedevo in una stanza contigua tutto un armamentario fotografico: macchine diverse, bacinelle, scatole di lastre, bocce, boccette.

Così pensai che Luigi Capuana in quella quiete non potesse essere che un ottimista, e non mi ingannai.

— Quelli che vivono lontani da noi che scriviamo hanno tutte le ragioni per piangere su la misera sorte della nostra letteratura, che in fondo il pubblico nostro scarso di lettori giudica più che dai libri letti, da quel che si dice dei libri e specialmente da quel che se ne dice sui giornali. Ma guardi un po’ i tempi di Sommaruga! Quanti belli ingegni son fioriti allora e come il pubblico li ha accolti e li ha sentiti! Adesso, silenzio mortale. E pure gli stessi che allora menavano gran romor di fama con opere minori, scrivono ancora e scrivono meglio. Le do un esempio solo: Gabriele d’Annunzio, che nella poesia e nel romanzo ha tanto progredito da essere un altro uomo. I giornali politici che soli sono letti, si astengono dal parlare di letteratura come si asterrebbero da un crimine; e, quando ci dicono su qualche sciocchezza, si atteggiano a pessimisti pel presente e pel futuro e anche pel passato. Per due ragioni ciò avviene: perché i giornalisti non leggono mai nulla di quel che noi scriviamo e ci considerano inutili lavoratori; e perchè essi, abituati a veder nero in politica, vogliono veder nero anche in letteratura. È molto comodo rispondere: «Se ci occupassimo d’arte, il pubblico si stancherebbe.» Già ciò è falso, perchè bisognerebbe trovare il modo per parlare col pubblico di certe cose; e poi quel ragionamento è un giro vizioso, perchè il pubblico si allontana dall’arte appunto perchè essi non ne parlano, trattano il pubblico da bimbo, per strenna gli donano dei giocattoli e dei gingilli invece di donargli dei belli e buoni e dilettevoli libri, e il pubblico docile rimane bimbo. Ci portano l’esempio della Francia, ma io per bacco, ho visto tempo fa sul Temps parecchi articoli di sopra Hegel e gli hegeliani! Così noi produciamo meno. È naturale. Quei pochi pazzi che si occupano di letteratura che guadagnano? Danari? Treves che è tra i più ricchi editori (se pure non è il più ricco) dà al massimo duemila lire per un grosso romanzo di un autore già ben noto. Gloria? Mi rammento che una volta Telemaco Signorini in una gita presso Firenze presentò a signore toscane Neri Tanfucio, credendo di farle felici e di udire subito esclamazioni di ammirazione e di complimento; siccome esse tacevano quasi mostrando di udir quel nome la prima volta, il Signorini ripetè il nome traducendolo in Renato Fucini; e le signore aprivano gli occhi meravigliate che quel signore ignoto avesse due nomi. E proprio a quell’anno il Fucini era salito in fama pei suoi sonetti in dialetto pisano. Insomma, lavora, lavora e lavora, si finisce per fare, come faccio io all’età mia, la vita da studente, in due camere al terzo piano, tra i libri. E pure si seguita a lavorare, e, come le dicevo, se noi produciamo meno, produciamo meglio.

Io non credo che tra i romanzi di Emilio Zola ce ne sia uno che valga, per verità e per impersonalità, I Malavoglia o Mastro don Gesualdo.

— E i giornali letterarii?

— Quali? Que’ pochi che vivono stentatamente, fanno l’articoletto o amichevole o maligno all’uscir del libro, e poi... zitti! Mai uno studio largo, complesso, intero, comparato.

— Dunque ella crede che il romanzo italiano sia sopra una via ascendente?

— Certamente. In quest’anno abbiamo avuto dei buoni libri. Ne cito tre: L’Anima di Enrico Butti, il Trionfo di Gabriele d’Annunzio, I Viceré di Federico de Roberto.

Tre libri saldi, nuovi, vitali.

— Di Gabriele d’Annunzio ella che pensa?

— Penso che è un grande poeta, ma che nel romanzo, per ora, è troppo uniforme. Il Piacere, L’Innocente, Il Trionfo mostrano tre faccie d’una stessa persona. Solo nel Giovanni Episcopo egli s’è innovato, ma ci si sente troppo Dostojewski e Krotkai. Del resto l’osservazione psichica, l’introispezione, come egli dice, diviene in lui esagerata, spesso ostentata e inutile allo svolgimento del romanzo. Ma il d’Annunzio è giovane, ha grandissimo ingegno e non ha ancóra detto la sua ultima parola.

— Ella con molta fortuna ha scritto parecchi libri per bimbi. Mi dica qualche caso della letteratura infantile.

— Le prime mie fiabe furono scritte così. Ero a Mineo, in Sicilia, nella casa paterna, e i miei nipotini (che adesso sono grandi e grossi) una sera mi chiesero una favola. La mattina dopo ne avevo scritto una: e così via, una per giorno, per dodici giorni. Le riunii in un volume del Treves, riédito poi dal Paggi-Bemporad di Firenze. Vidi che la letteratura infantile era davvero la più remunerativa, e anche questo mi incitò a fare un secondo volume di fiabe, il Racconta-fiabe. Ultimamente poi son venuto pubblicando sul mio giornaletto La Cenerentola parecchi racconti, che non son fiabe, ma presentano semplicemente osservazioni di psicologia infantile, le quali a volta possono interessare anche gli adulti. Questi racconti radunerò in un volume del Voghera, col titolo Il Drago.

— Ella ha un romanzo già da molti anni annunciato.

— Sì, Il marchese di Roccaverdina. Ma del concetto primitivo ormai resta solo il titolo, che tutto è mutato. In esso cercherò di contemperare i due metodi del naturalismo fisiologico e psicologico. È la vita di un nobile siciliano che commette un delitto e resta impunito.

— Mi dica qualche cosa sul teatro, che ella ha tentato con la Giacinta e con Malia.

— Qui mi pare che il progresso sia anche più potente. Ma i giovani sono troppo preoccupati o da una tesi o dall’effetto di una singola scena, cui tutto il resto del dramma è sottomesso. Bisogna, scrivendo pel teatro, prescindere dall’applauso. Esso verrà se verrà. Mutate le qualità estrinseche, bisogna scrivere un dramma come si scriverebbe un romanzo, liberamente, senza la tesi che monchi la verità, senza l’ossessione di una sola scena bella che forse avrà gli applausi.

— Il Fogazzaro, la Serao e altri mi hanno parlato con entusiasmo che par sincero, di un misticismo che va pervadendo l’arte e la letteratura odierna come un fluido. Molti danno a questo fenomeno nuovissimo una causa estrinseca, ciò è «gli abusi di vero» fatti dal naturalismo. Ella che col Verga è stato a capo del movimento verista in Italia, che risponde?

— Rispondo accettando anche l’opera dei neomistici. È fatale. Io, vede, da studente ero ateo, adesso sono un credente. La scienza non è bastata, e in ogni modo appaga soltanto l’intelletto, e non sempre. Alla religione adesso che si può sostituire? Il dovere? Parola incerta, senza sanzione. E della religione la forma maggiore è certo il cattolicesimo. Io studio volentieri gli scrittori di dottrine religiose. Vede là? Swedenborg, Vacherot, Lefèvre, Tolstoi... Mi occupo anche di spiritismo e tanto da formarmi intorno a questi fenomeni una convinzione spassionata. Questi che adesso parlano di indurre nell’arte nostra il misticismo sono sinceri? Io ne conosco uno, Giulio Salvadori. Egli è convinto e convince. Rammento una nostra convinzione viva di affetto una sera su la sua terrazza, larga, aperta su la vista di Roma... E l’arguto novellatore parlò, parlò a lungo di quell’amico, di quel colloquio, di quel sentimento nuovo... Che miracolo è questo che stupisce i migliori e i più forti di noi, e fuor dalla luce li induce a guardar nelle tenebre, ansiosi, temendo o sperando? Che aspettano essi? Che vedono?




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