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Roma, gennajo del ’95.
Dopo le sue gite trionfali da Roma a Napoli 1 mi par difficile che qualcuno dei lettori miei non conosca Cesare Pascarella, e anche non lo abbia udito declamare i suoi sonetti. In ogni modo io devo per sincerità dire che il Pascarella veduto da quei pubblici plaudenti non è il vero, l’autentico Pascarella che noi per anni abbiamo conosciuto qui a Roma; da qualche anno egli si è venuto modificando mano a mano, si è venuto facendo elegante ed ha perduto in originalità di figura; oggi il cappello, domani la cravatta, dopodomani la sigaretta invece della pipa, dopo ancòra il pastrano invece del famoso scialle a quadri grigi, Pasca (come gli amici lo chiamano nell’intimità) non è più lui. In quell’altro costume più bohémien con la pipa, lo scialle svolazzante, le scarpe basse lunghissime acuminate, la giacca corta e larga, il cappello a cencio un po’ inclinato, io me lo rammento benissimo, sebbene fossi ancora bimbo e studiassi al ginnasio lo Schultz e il Curtius. Lo vedevo spesso al Circolo artistico dove, come a gran festa, accompagnavo mio padre, e dove egli recitava i sonetti; e per anni nella mia fantasia infantile ho tenuto quel gesto con che egli chiude Er morto de campagna
Pe' la macchia cantanno er miserere,
quel gesto lento, pauroso, largo come l’onde tristamente sonore del cantico dei morti, giù per la macchia umida.
Tutti da allora lo conoscevano, tutti: gli ebrei del ghetto e i popolani del Trastevere perchè tutti i giorni lo rivedevano fermo a qualche cantone o seduto su qualche scalino a disegnare una vecchia, una erbivendola, un carrettiere, un giudìo, un somaro, un acquavitaro; gli artisti che accorrevano a udirlo dire in insuperabile modo La serenata o Er morto de campagna o Er Polimo filosofo che erano allora i suoi cavalli di battaglia, come poi sono stati i venti sonetti di Villa Glori e poi i cinquanta del La scoperta dell’America; i signori della borghesia o dell’aristocrazia che, anche non intendendo l’ingegno potentissimo, lo ricercavano per curiosità, come si ricercano le curiosità paesane.
Egli entrò in quel tempo nel geniale circolo sommarughiano, dove Gabriele d’Annunzio, Edoardo Scarfoglio, Giulio Salvadori e altri minori escirono alla fama; poi, essendosi disperso quel circolo ed essendo egli tornato a viver solo, lentamente con gli anni (del resto ne ha pochi) ha perduto le sue caratteristiche esteriori, pur fortificando per un continuo consciente progresso le qualità dell’intelletto suo così italiano e così versatile.
In una più assolata mattina di quest’inverno, quasi sempre triste e nuvoloso, egli mi ha detto le cose seguenti, su nella terrazza che con amore di artista e di floricultore egli cura ed adorna. Non erano fiori nei vasi e nelle casse, e le canne attorno erano senza rose e senza campanule; le strane epigrafi attorno su i marmi dei parapetti parlavano sole. Il monte Pincio tutto verde nella leggera nebbia era prossimo in vista.
— I poeti dialettali sono innumerevoli, specialmente a Roma. Quando un giovane è stato rimandato da tutte le scuole, ha ben mostrato di non sapere o di non volere far nulla, i genitori in extremis lo mandano all’Istituto di belle arti a studiar pittura. Così avviene per i letterati: quando non hanno volontà di studiare, quando non hanno tempo o possibilità di capire l’arte, si danno alla poesia dialettale, e.... salute a loro! Del resto, cominciamo dall’affermare che la lingua parlata del popolano romanesco non è un dialetto nel senso in che si chiamano dialetti i linguaggi del popolo di Milano, di Venezia o di Napoli. Esso è la stessa lingua italiana pronunciata differentemente. E aggiungi a queste differenze puramente foniche una grande superiorità della nostra lingua dialettale su quella italiana. Essa è più propria perchè è più concreta, perchè non è stata per secoli da sublimi menti adoperata a speculazioni metafisiche e ogni parola dà immediatamente l’idea della cosa da essa figurata senza che altre rappresentazioni vengano a indebolirne la sicurezza. Ma questo fatto dà a chi usa quel dialetto l’obbligo di una cura maggiore. E qui ti dovrei narrare tutto quel ch’io pensi su la metrica dialettale. Io credo che il sonetto sia la forma strofica più corrispondente (anche in una serie di molti componimenti simili) a quella precisa chiarezza della lingua; e il sonetto costantemente costruito con lo stesso rinvio delle rime. Io feci la prima prova nel comporre sopra un argomento unico una serie di sonetti quasi strofe di poema col Morto de campagna e da allora non ho più abbandonato quel sistema. Così, riunendo la precisione della forma metrica alla precisione del linguaggio, io ho potuto fare un’opera che è stata intesa parte a parte (e io lo so, perchè recitando i miei sonetti vedo in volto i miei uditori) a Napoli come a Roma, e sarà intesa parte a parte a Milano come a Venezia.
Ma su la Scoperta de l’America ho lavorato quasi otto anni!
— Chi stimi tu essere il sommo dei poeti dialettali oggi morti?
— Il Porta, certamente, e la La Ninetta del Verzee (è un po’ pericoloso dirlo), è il suo capolavoro; lì non v’ha oscenità, ma sana, forte, libera riproduzione del vero, quale nessuno dei naturalisti francesi o italiani venuti dopo lui ha saputo fare.
Dopo il Porta, sùbito il Belli il quale è geniale, vivo, spontaneo, multiforme, ma qua e là fa sempre trapelare un po’ dell’avvocato.... Adesso poi gli doveva capitare tra capo e collo la disgrazia di quella certa edizione fatta dal signor Morandi! Ora, vedi: uno dei canoni fondamentali per far della poesia dialettale, secondo me, è quello di far parlare il popolano; altrimenti la naturalezza, la verosimiglianza, che è la prima condizione di vita di quella poesia, manca. E questo dico sopra tutto per i poeti romaneschi, che a Roma, fuori del popolo, non si parla in dialetto, ma in una lingua incerta, ingannevole, letterariamente falsa. Il popolano, il popolano deve parlare; lui, in prima persona! Deve descrivere, deve narrare, deve commovere ma con le parole sue, con i pensieri suoi, con i gesti suoi, parlando a’ suoi pari. E io non ho mai in un sol sonetto sconfessata questa regola. Ma di questo popolano nostro non si devono scegliere le passioni più rozze e più brute col pretesto che esse sono in lui più caratteristiche. L’oscenità sembra divenuta regola nella poesia romanesca; e questo è falso, nel fatto speciale perchè il nostro popolano ha belle e forti e nobili qualità, e nel principio estetico generale perchè solo le opere d’arte che sono sane e franche e nobili rimangono. Io sono pagano e, anche, cattolico perchè nessuno è stato più pagano dei papi del nostro risorgimento; ma non sono cristiano per niente affatto. La contemplazione delle brutte cose e delle brutte azioni, il compiacimento e anche il terrore dei pensieri oscenamente dolorosi, non sono per me. Il cristianesimo ci ha regalato tutti questi disgusti, tutte queste oscenità, tutti questi terrori. Io, ti ripeto, sono pagano e sono cattolico....
E qui la discussione, accompagnata da un fiasco di vino nero, oltrepassò i limiti letterarii, e Cesare Pascarella, il romano vero, cominciò a parlare dell’arte pagana e della grandezza pagana con quel suo linguaggio incisivo, imaginoso, a volta dialettale, che è la suprema attrattiva della sua conversazione e forse la prima qualità de’ suoi versi.
- ↑ Cesare Pascarella in quest’anno 1895 è andato a recitare i suoi sonetti a Milano, a Venezia, a Bologna e altrove, sempre tra il plauso del pubblico e dei critici.