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Roma, gennajo del ’95.
Nel suo villino di via Vicenza ho trovato Ruggero Bonghi in una piccola stanza colma di libri fino al soffitto, davanti a un tavolino carico di libri greci, correggendo le bozze di una nuova edizione del Fedone. Un grande scialle scuro gli avvolgeva le gambe ed egli appariva pallido e un po’ stanco, specialmente negli occhi.
— Tutto congiura — egli m’ha detto — contro questa povera letteratura italiana. Prima di tutto, le condizioni estrinseche le sono veramente mortali: essa non riesce a passare le Alpi che rarissimamente e recentissimamente, e in Italia il suo compenso pecuniario è minimo per povertà e ignoranza di editori e sopra tutto per scarsezza di pubblico. Il pubblico da noi è scarso e vario così che pochissimi autori hanno fama in tutta Italia anche perchè pochissimi riescono a scrivere in modo da essere intesi facilmente e universalmente; la ragione etnica della diversità delle razze italiane si ripercuote su la letteratura fatalmente, danneggiandola.
E proprio vero: oggi, nel fatto, la lingua italiana non esiste nelle opere stampate. Tra la prosa sciatta e frettolosa di certi giornalisti e la prosa preziosa e affettata di Gabriele d’Annunzio, non si sa trovare il giusto mezzo. Uno lo avrebbe trovato, Ferdinando Martini, ma non ha vigore e novità. E inutile (e questo bisognerebbe ripetere a voi giovani a voce altissima), la preziosa e innaturale lingua italiana che alcuni di voi dicono di aver trovata, o meglio ritrovata, accozzando parole difficili, delle quali esistono sinonimi facili, in frasi contorte e penose, non è la lingua che si possa leggere e intendere dal pubblico italiano. Esso da prima crederà modestamente di esser lui lo sciocco; leggerà una, due, tre pagine di quei tali libri, ripigliando fiato ogni dieci righe, e poi finirà per gettar via il libro. E non parlo alla fin fine del pubblico ignorante, parlo anche di me stesso che non riesco a leggere correntemente un libro del d’Annunzio.
Ma lasciamo la questione della forma e veniamo alle intrinseche cause della mediocrità della nostra letteratura odierna; intendo parlare degli argomenti delle opere dette Opere d’arte. Ormai in Italia non c’è più fede, non c’è più passione alcuna che ci spinga al bene o al male: ci diamo al bene o al male indifferentemente, stupidamente, spesso per ragion di moda. Noi ci siamo dati tutti alla politica superficiale, quotidiana, povera pettegola, pusilla, senza riuscire a muovere tutte le passioni più profonde, tutti i problemi che negli altri Stati ad essa convergono. E questa depressione politica ed economica ha portato la depressione di tutte le facoltà nostre, dalla fantasia alla forza fisica. Io ho fede e spero che ciò non durerà.
Vediamo la letteratura parte a parte. Il romanzo. A quelle cause che ho detto, qui si aggiunge anche la falsità del metodo che i più seguono ciecamente credendo alla infallibilità dei pontefici. Già, io leggo pochi libri nuovi. Almeno tre persone devono dirmi di leggere un libro della letteratura così detta amena, e... non le trovo mai. Pure ho letto Il trionfo della morte. Naturalismo? No? Voi mi fate cenno col capo che non è naturalismo. Oh che cos’è? Psicologismo? Io non so bene tutte le divisioni, amico mio, ma se lì dentro l’autore ha voluto mettere qualche cosa di naturale, io nego, nego per la forma e per la sostanza. Nego per la sostanza perchè non è davvero uno sforzo molto grande quello di crearsi prima un personaggio fittizio, molto complicato dalla vostra fantasia, presentarlo al pubblico come cosa viva e dire: — Badate che adesso ve lo spiego, badate che adesso io psicologo profondo ve ne mostro il meccanismo intimo, tutte le ruote, tutte le molle, tutti gli ingranaggi- — Ma non l’avete fatto voi? Questo è canzonare il pubblico, e il pubblico si presta a tutto meno che ad essere canzonato. Altrettanto dico della forma. Il gran numero dei romanzieri e dei novellieri scrivono in fretta e si scusano dicendo che la prima forma è la più semplice; e ciò è falsissimo. Altri pochi (forse uno solo) cominciano a tormentare la propria prosa, a snodarla e a riannodarla, a distenderla e a restringerla, e ve la presentano morta e fredda, uccisa dalla stessa buona volontà di chi l’ha scritta.
La poesia. Anche essa soggiace alle stesse cause: meno però del romanzo, è abbattuta dalle tristi condizioni economiche. Ma la mancanza di una lingua capace di parlare a tutti è fatale pure per essa. I francesi e gli inglesi hanno una lingua intendibile da tutti i lettori, anche dagli uditori analfabeti; certo anche fra loro vi sono i preziosi della frase come Tennyson e del pensiero come Swinburne o Browning, ma sono l’abiccì rispetto ai nostri poeti. In realtà (non in fantasia) chi legge il Carducci? Tutti dicono di leggerlo, in fondo han sentito leggere e ripetere una o due strofe di una o due odi più famose; io me ne stanco e non mi vergogno di confessarlo. Gabriele d’Annunzio poi non è originale e sopra tutto non è italiano, mai. E gli altri? Ce ne sono molti? Mario Rapisardi che è radicale, socialista, rivoluzionario (vorrei ben sapere quel che non è Mario Rapisardi) ha una forma davvero poco democratica; non dico che sia bella, ma per quel poco che può anch’egli fa di tutto per non farsi capire. L’altro giorno sul Fanfulla della domenica del nostro Carlo Segrè lessi una poesia di Antonio Fogazzaro. Che roba è? Che vuol dire? Sotto quella forma sciatta si vede che il sentimento informatore è incerto per lo stesso autore. Figuriamoci per i lettori! Insomma, torno a quel che vi dicevo al principio: manca la fede, manca la passione che scuota i raffinati frigidi e costringa i frettolosi all’opera paziente.
La religione è finita; veramente non ce ne siamo occupati mai, ma adesso la disdegniamo anche e mostriamo di non sapere nemmeno che essa abbia esistito altre volte. Voi mi dite che c’è un movimento mistico. Di chi? Del Fogazzaro? Non sarà mai un apostolo. Della Serao? Davvero? Di Matilde Serao? Eh via; ho scorso Gli amanti e Le amanti, sono ben mediocri, malgrado quei titoli... mistici. Bisogna sentire per far sentire. Tutti costoro che sentono? Amico mio, non c’è più fede in nulla e in nessuno. Su questi dormigliosi, fastidiosi, indifferenti regna Crispi. Almeno egli è un pazzo! —
E si chinò nuovamente a confrontare i due testi del Fedone.