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Atto primo
Scena seconda
Atto primo - Scena prima Atto primo - Choro

SCENA SECONDA


Aminta.          Tirsi.


Aminta
H
O visto al pianto mio

Risponder per pietate i sassi, e l’onde;
E sospirar le fronde
Ho visto al pianto mio;
Ma non hò visto mai,
Né spero di vedere
Compassion ne la crudele, e bella,
Che non sò s’io mi chiami ò donna ò fera,
Ma niega d’esser donna,
Poiche nega pietate
A chi non la negaro
Le cose inanimate.

Tirsi
Pasce l’agna l’herbette, il lupo l’agne,

Ma il crudo amor di lagrime si pasce,
Nè se ne mostra mai satollo. 'Aminta Ahi, lasso,
Ch’Amor satollo è del mio pianto homai,
E solo hà sete del mio sangue, e tosto
Voglio, ch’egli, e quest’empia il sangue mio
Bevan con gli occhi. Tirsi Ahi, Aminta, ahi, Aminta
Che parli? ò che vaneggi? hor ti conforta,
Ch’un’altra troverai, se ti disprezza
Questa crudele. Aminta Ohime, come poss’io
Altri trovar, se me trovar non posso?
Se perduto hò me stesso, quale acquisto
Farò mai, che mi piaccia? Tirsi O miserello,

Non disperar, ch’acquisterai costei.
La lunga etate insegna à l’huom di porre
Freno à i leoni, ed à le tigri Hircane.

Aminta
Ma il misero non puote à la sua morte

Indugio sostener di lungo tempo.

Tirsi
Sarà corto l’indugio: in breve spatio

S’adira, e in breve spatio anco si placa
Femina, cosa mobil per natura,
Più che fraschetta al vento, e più che cima
Di pieghevole spica. ma, ti prego,
Fa, ch’io sappia più à dentro de la tua
Dura condicione, e de l’amore;
Che, se ben confessato m’hai più volte
D’amare, mi tacesti però, dove
Fosse posto l’amore. Ed è ben degna
La fedele amicitia, ed il commune
Studio de le Muse, ch’à me scuopra
Ciò ch’à gli altri si cela. Aminta Io son contento,
Tirsi, à te dir ciò, che le selve, e i monti,
E i fiumi sanno, e gli huomini non sanno:
Ch’io sono homai si prossimo à la morte,
Ch’è ben ragion, ch’io lasci, chi ridica
La cagion del morire, e che l’incida
Ne la scorza d’un faggio, presso il luogo,
Dove sarà sepolto il corpo essangue;
Sì, che talhor, passandovi quell’empia,
Si goda di calcar l’ossa infelici
Co ’l piè superbo, e trà se dica, È questo
Pur mio trionfo, e goda di vedere,
Che nota sia la sua vittoria à tutti

Li pastor paesani, e pellegrini,
Che quivi il caso guidi: e forse (ahi, spero
Troppo alte cose) un giorno esser potrebbe,
Ch’ella, commossa da tarda pietate,
Piangesse morto, chi già vivo uccise,
Dicendo, O pur qui fosse, e fosse mio.
Hor odi. Tirsi Segui pur, ch’io t’ascolto,
E forse à miglior fin, che tu non pensi

Aminta
Essendo io fanciulletto, si che à pena

Giunger potea con la man pargoletta
A corre i frutti da i piegati rami
De gli arboscelli, intrinseco divenni
De la più vaga e cara Verginella,
Che mai spiegasse al vento chioma d’oro:
La figliuola conosci di Cidippe,
E di Montan ricchissimo d’armenti,
Silvia, honor de le selve, ardor de l’alme?
Di questa parlo, ahi lasso: vissi à questa
Così unito alcun tempo, che frà due
Tortorelle più fida compagnia
Non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
Ma più congiunti i cori:
Conforme era l’etate,
Ma ’l pensier più conforme:
Seco tendeva insidie con le reti
A i pesci, ed à gli augelli, e seguitava
I cervi seco, e le veloci dame,
E ’l diletto, e la preda era commune:
Ma, mentre io fea rapina d’animali,

Fui non so come à me stesso rapito.
A poco à poco nacque nel mio petto,
Non sò da qual radice,
Com’herba suol, che per se stessa germini,
Un’incognito affetto,
Che mi fea desiare
D’esser sempre presente
A la mia bella Silvia,
E bevea da’ suoi lumi
Un’estranea dolcezza,
Che lasciava nel fine
Un non so che d’amaro:
Sospirava sovente, e non sapeva
La cagion de’ sospiri.
Così fui prima Amante, ch’intendessi,
Che cosa fosse Amore.
Ben me n’accorsi al fin: ed, in qual modo,
Hora m’ascolta, e nota. Tirsi È da notare.

Aminta
A l’ombra d’un bel faggio Silvia, e Filli

Sedean’ un giorno, ed io con loro insieme,
Quando un’Ape ingegnosa, che cogliendo
Sen’ giva il mel per que’ prati fioriti,
A le guancie di Fillide volando,
A le guancie vermiglie, come rosa,
Le morse, e le rimorse avidamente,
Ch’à la similitudine ingannata
Forse un fior le credette. allhora Filli
Comincio lamentarsi, impatiente
De l’acuta puntura:
Ma la mia bella Silvia disse, Taci,

Taci, non ti lagnar, Filli, perch’io
Con parole d’incanti leverotti
Il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
La saggia Aresia, e n’hebbe per mercede
Quel mio corno d’Avolio ornato d’oro.
Così dicendo, avvicinò le labra
De la sua bella, e dolcissima bocca
A la guancia rimorsa, e con soave
Susurro mormorò non sò che versi.
O mirabili effetti. Sentì tosto
Cessar la doglia, ò fosse la virtute
Di que’ magici detti, ò, com’io credo,
La virtù de la bocca,
Che sana ciò che tocca.
Io, che sino à quel punto altro non volsi,
Che ’l soave splendor de gli occhi belli,
E le dolci parole, assai più dolci,
Che ’l mormorar d’un lento fiumicello,
Che rompa il corso frà minuti sassi,
O che ’l garrir de l’aura infrà le frondi,
Allhor sentij nel cor novo desire
D’appressare à la sua questa mia bocca.
E, fatto non so come astuto, e scaltro
Più de l’usato, (guarda, quanto Amore
Aguzza l’intelletto) mi sovvenne
D’un inganno gentile, co ’l qual’io
Recar potessi à fine il mio talento:
Che, fingendo, ch’un’ape havesse morso
Il mio labro di sotto, incominciai

A lamentarmi di cotal maniera,
Che quella medicina, che la lingua
Non richiedeva, il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,
Pietosa del mio male,
S’offrì di dar aita
A la finta ferita, ahi lasso, e fece
Più cupa, e più mortale
La mia piaga verace,
Quando le labra sue
Giunse à le labra mie.
Né l’Api d’alcun fiore
Coglion sì dolce il mel, ch’allhora io colsi
Da quelle fresche rose,
Se ben gli ardenti baci,
Che spingeva il desire à inhumidirsi,
Raffrenò la temenza,
E la vergogna, ò felli
Più lenti, e meno audaci:
Ma, mentre al cor scendeva
Quella dolcezza mista
D’un secreto veleno,
Tal diletto n’havea,
Che, fingendo, ch’ancor non mi passasse
Il dolor di quel morso,
Fei sì, ch’ella più volte
Vi replicò l’incanto.
Da indi in quà andò in guisa crescendo
Il desire, e l’affanno impatiente,
Che, non potendo più capir nel petto,

Fù forza, che scoppiasse; ed una volta,
Che in cerchio sedevam Ninfe, e Pastori,
E facevamo alcuni nostri giuochi,
Che ciascun ne l’orecchio del vicino
Mormorando diceva un suo secreto,
Silvia, le dissi, io per te ardo, e certo
Morrò se non m’aiti. A quel parlare
Chinò ella il bel volto, e fuor le venne
Un’improviso, insolito rossore,
Che diede segno di vergogna, e d’ira;
Né hebbi altra risposta, che un silentio,
Un silentio turbato, e pien di dure
Minaccie. indi si tolse, e più non volle
Né vedermi, né udirmi, e già tre volte
Ha il nudo metitor tronche le spighe,
Et altrettante il verno ha scossi i boschi
Di loro verdi chiome, ed ogni cosa
Tentata hò per placarla, fuor che Morte.
Mi resta sol, che, per placarla, io mora,
E morrò volontier, pur ch’io sia certo,
Ch’ella ò se ne compiaccìa, ò se ne doglia;
Né sò di tai due cose, qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
A la mia fede, e maggior ricompensa
A la mia morte: ma bramar non deggio
Cosa, che turbi il bel lume sereno
A gli occhi cari, e affanni quel bel petto.

Tirsi
È possibil però, che, s’ella un giorno

Udisse tai parole, non t’amasse?

Aminta
Non sò, né ’l credo, ma fugge i miei detti

Come l’aspe l’incanto. Tirsi Hor ti confida,
Ch’à me dà il cuor di far, ch’ella t’ascolti.

Aminta
O nulla impetrerai, ò, se tu impetri,

Ch’io parli, io nulla impetrerò parlando.

Tirsi
Perche disperi sì? Aminta Giusta cagione

Hò del mio disperar, che il saggio Mopso
Mi predisse la mia cruda ventura,
Mopso, ch’intende il parlar de gli augelli,
E la virtù de l’herbe, e de le fonti.

Tirsi
Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso,

C’hà ne la lingua melate parole,
E nelle labra un’amichevol ghigno,
E la fraude nel seno, ed il rasoio
Tien sotto il manto? Hor sù, sta di bon core,
Che i sciaurati pronostichi infelici,
Ch’ei vende à mal accorti, con quel grave
Suo supercilio, non han mai effetto:
E per prova so io ciò che ti dico;
Anzi da questo sol, ch’ei t’hà predetto,
Mi giova di sperar felice fine
A l’Amor tuo. Aminta Se sai cosa per prova,
Che conforti mia speme, non tacerla.

Tirsi
Dirolla volontieri. Allhor, che prima

Mia sorte mi condusse in queste selve,
Costui conobbi, e lo stimava io tale,
Qual tu lo stimi: intanto un dì mi venne
E bisogno, e talento d’irne dove
Siede la gran Cittade in ripa al fiume,
Et à costui ne feci motto. ed egli
Così mi disse: Andrai ne la gran Terra,

Ove gli astuti, e scaltri Cittadini,
E i cortegian malvagi molte volte
Prendonsi à gabbo, e fanno brutti scherni
Di noi rustici incauti. Però, figlio,
Và su l’avviso, e non t’appressar troppo
Ove sian drappi colorati, e d’oro,
E pennacchi, e divise, e foggie nove:
Ma sopra tutto guarda, che mal fato,
O giovenil vaghezza non ti meni
Al magazino de le ciancie. ah fuggi,
Fuggi quell’incantato alloggiamento.
Che luogo è questo? io chiesi. ed ei soggiunse,
Quivi habitan le maghe, che incantando
Fan traveder, e traudir ciascuno.
Ciò che Diamante sembra, ed oro fino,
È vetro, e rame, e quelle arche d’argento,
Che stimeresti piene di thesoro,
Sporte son piene di vesciche bugge;
Quivi le mura son fatte con arte,
Che parlano, e rispondono à i parlanti,
Né già rispondon la parola mozza,
Com’Echo suole ne le nostre selve,
Ma la replican tutta intiera intiera,
Con giunta anco di quel, ch’altri non disse.
I trespidi, le tavole, e le panche,
Le scranne, le lettiere, le cortine,
E gli arnesi di camera, e di sala,
Han tutti lingua, e voce, e gridan sempre.
Quivi le ciancie in forma di bambine
Vanno trescando, e, se un muto v’entrasse,

Un muto ciancerebbe à suo dispetto,
Ma questo è ’l minor mal, che ti potesse
Incontrar: tu potresti indi restarne
Converso in salce, in fera, in acqua, ò in foco,
Acqua di pianto, e foco di sospiri.
Così diss’egli. & io n’andai con questo
Fallace antiveder ne la Cittade;
Et, come volse il Ciel benigno, à caso
Passai per là dov’è ’l felice albergo.
Quindi uscian fuor voci canore, e dolci,
E di Cigni, e di Ninfe, e di Sirene,
Di Sirene celesti, e n’uscian suoni
Soavi, e chiari, e tanto altro diletto,
Ch’attonito godendo, ed ammirando
Mi fermai buona pezza. Era su l’uscio
Quasi per guardia de le cose belle
Huom’ d’aspetto magnanimo, e robusto,
Di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi,
S’egli sia miglior DVCE, ò Cavaliero,
Che con fronte benigna insieme, e grave,
Con regal cortesia, invitò dentro,
Ei grande, e ’n pregio, me negletto, e basso,
Oh che sentij? che vidi allhora? I vidi
Celesti Dee, Ninfe leggiadre, e belle,
Nuovi lumi, ed Orfei, ed altre ancora
Senza vel, senza nube, e quale, e quanta
A gl’immortali appar vergine Aurora
Sparger d’argento, e d’or rugiade, e raggi,
E fecondando illuminar d’intorno
Vidi Febo, e le Muse, e frà le Muse

Elpin seder accolto, ed in quel punto
Sentij me far di me stesso maggiore,
Pien di nova virtù, pieno di nova
Deitade, e cantai guerre, ed heroi,
Sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi (come altrui piacque) feci
Ritorno à queste selve, io pur ritenni
Parte di quello spirto; né già suona
La mia sampogna humil come soleva;
Ma di voce più altera, e più sonora,
Emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia; e con maligno
Guardo mirando affascinommi; ond’io
Roco divenni, e poi gran tempo tacqui:
Quando i Pastor credean, ch’io fossi stato
Visto dal Lupo, e ’l Lupo era costui.
Questo t’hò detto, acciò che sappi, quanto
Il parlar di costui di fede è degno:
E dei bene sperar, sol perche ei vuole,
Che nulla speri. Aminta Piacemi d’udire
Quanto mi narri. à te dunque rimetto
La cura di mia vita. Tirsi Io n’havrò cura.
Tu frà mez’hora qui trovar ti lassa.


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