< Aminta < Atto quinto
Questo testo è stato riletto e controllato.
Atto quinto
Scena prima
Atto quarto - Scena seconda Atto quinto - Choro


ATTO QUINTO.


SCENA PRIMA.


Elpino. Choro.


Elpino
V
Eramente la legge, con che Amore

Il suo imperio governa eternamente,
Non è dura, nè obliqua, e l’opre sue
Piene di providenza, e di mistero,
Altri à torto condanna. ò con quant’arte,

E per che ignote strade egli conduce
L’huom ad esser beato, e frà le gioie
Del suo amoroso Paradiso il pone,
Quando ei più crede al fondo esser de’ mali.
Ecco, precipitando, Aminta ascende
Al colmo, al sommo d’ogni contentezza.
O fortunato Aminta, ò te felice
Tanto più, quanto misero più fosti.
Hor co’l tuo essempio à me lice sperare,
Quando che sia, che quella bella, et empia,
Che sotto il riso di pietà ricopre
Il mortal ferro di sua feritate,
Sani le piaghe mie con pietà vera,
Che con finta pietate al cor mi fece.

Choro
Quel, che qui viene, è il saggio Elpino, e parla

Così d’Aminta, come vivo ei fosse,
Chiamandolo felice, e fortunato.
Dura condicione de gli Amanti.
Forse egli stima fortunato Amante
Chi muore, e morto al fin pietà ritrova
Nel cor de la sua Ninfa, e questo chiama
Paradiso d’Amore, e questo spera.
Di che lieve mercé l’alato Dio
I suoi servi contenta? Elpin, tu dunque
In sì misero stato sei, che chiami
Fortunata la morte miserabile
De l’infelice Aminta? e un simil fine
Sortir vorresti? Elpino Amici, state allegri,
Che falso è quel romor, che à voi pervenne
De la sua morte.

Choro
O che ci narri, e quanto

Ci racconsoli: e non è dunque il vero
Che si precipitasse? Elpino Anzi è pur vero,
Ma fù felice il precipitio; e sotto
Una dolente imagine di morte
Gli recò vita, e gioia. egli hor si giace
Nel seno accolto de l’amata Ninfa,
Quanto spietata già, tanto hor pietosa;
E le rasciuga da begli occhi il pianto
Con la sua bocca. Io à trovar ne vado
Montano, di lei padre, et à condurlo
Colà dov’essi stanno; e solo il suo
Volere è quel, che manca, e che prolunga
Il concorde voler d’ambidue loro.

Choro
Pari è l’età, la gentilezza, è pari,

E concorde il desio: e’l buon Montano
Vago è d’haver nipoti, e di munire
Di si dolce presidio la vecchiaia.
Si che farà del lor voler il suo.
Ma tu deh, Elpin, narra, qual Dio, qual sorte.
Nel periglioso precipitio Aminta
Habbia salvato? Elpino Io son contento: udite,
Udite, quel, che con quest’occhi hò visto.
Io ero anzi il mio speco, che si giace
Presso la valle, e quasi à pie del colle,
Dove la costa face di se grembo:
Quivi con Tirsi ragionando andava
Pur di colei, che ne l’istessa rete
Lui prima, e me dapoi ravvolse, e strinse;
E proponendo à la sua fuga, al suo
Libero stato, il mio dolce servigio;

Quando ci trasse gli occhi ad alto un grido:
E’l veder rovinar un’huom dal sommo,
E’l vederlo cader sovra una macchia,
Fù tutto un punto. Sporgea fuor del colle
Poco di sopra à noi d’herbe, e di spini,
E d’altri rami strettamente giunti,
E quasi in un tessuti, un fascio grande.
Quivi, prima che urtasse in altro luogo,
A cader venne: e, bench’egli co’l peso
Lo sfondasse, e più in giuso indi cadesse,
Quasi su’ nostri piedi, quel ritegno
Tanto d’impeto tolse à la caduta,
Ch’ella non fù mortal; fù nondimeno
Grave così, ch’ei giacque un’hora, e piue,
Stordito affatto, e di se stesso fuori.
Noi muti, di pietate, e di stupore,
Restammo à lo spettacolo improviso,
Riconoscendo lui: ma, conoscendo,
Ch’egli morto non era, e che non era
Per morir forse, mitighiam l’affanno.
All’hor Tirsi mi diè notizia intiera
De’ suoi secreti, et angosciosi amori.
Ma, mentre procuriam di ravvivarlo
Con diversi argomenti, havendo in tanto
Già mandato à chiamar Alfesibeo,
A cui Febo insegnò la Medica arte,
Allhor che diede à me la cetra, e’l plettro,
Sopragiunsero insieme Dafne, e Silvia,
Che (come intesi poi) givan cercando
Quel corpo, che credean di vita privo.

Ma, come Silvia il riconobbe, e vide
Le belle guancie tenere d’Aminta
Iscolorite in sì leggiadri modi,
Che Viola non è che impallidisca
Sì dolcemente, e lui languir sì fatto,
Che parea già ne gli ultimi sospiri
Essalar l’alma, in guisa di Baccante
Gridando, e percotendosi il bel petto,
Lasciò cadersi in su’l giacente corpo,
E giunse viso à viso, e bocca à bocca.

Choro
Hor non ritenne adunque la vergogna

Lei, ch’è tanto severa, e schiva tanto?

Elpino
La vergogna ritien debile amore;

Ma debil freno è di potente Amore:
Poi, si come ne gli occhi havesse un fonte,
Inaffiar cominciò co’l pianto suo
Il colui freddo viso, e fù quell’acqua
Di cotanta virtù, ch’egli rivenne;
E gli occhi aprendo, un doloroso Ohime
Spinse dal petto interno;
Ma quell’Ohime, ch’amaro
Così dal cor partissi,
S’incontrò ne lo spirto
De la sua cara Silvia, e fù raccolto
Da la soave bocca: e tutto quivi
Subito raddolcissi.
Hor, chi potrebbe dir, come in quel punto
Rimanessero entrambi, fatto certo
Ciascun de l’altrui vita, e fatto certo
Aminta de l’Amor de la sua Ninfa?

E vistosi con lei congiunto, e stretto?
Chi è servo d’Amor, per se lo stimi.
Ma non si può stimar, non che ridire.

Choro
Aminta è sano sì, ch’egli sia fuori

Del rischio de la vita? Elpino Aminta è sano,
Se non ch’alquanto pur graffiat’ha ’l viso,
Et alquanto dirotta la persona;
Ma sarà nulla, et ei per nulla il tiene.
Felice lui, che sì gran segno hà dato
D’Amore, e de l’Amor il dolce hor gusta,
A cui gli affanni scorsi, et i perigli
Fanno soave, e dolce condimento:
Ma restate con Dio, ch’io vò seguire
Il mio viaggio, e ritrovar Montano.



{
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.