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GRAZIA DELEDDA
ANNALENA BILSINI
ROMANZO
MILANO
FRATELLI TREVES EDITORI
1927
Per San Michele la famiglia Bilsini cambiò di casa ed anche di terra.
Era una famiglia numerosa: cinque figli maschi, la madre vedova, e uno zio di lei, che, sebbene mezzo paralitico e senza un soldo di suo, poteva dirsene il capo.
Appunto per i consigli dello zio Dionisio, i Bilsini avevano venduto la loro piccola proprietà per prendere in affitto un vasto fondo, già antico feudo gentilizio che, di decadenza in decadenza, acquistato in ultimo a vile prezzo da un fabbricante di scope, veniva da questi concesso a modestissime condizioni annuali: cento dieci lire la biolca,1 due capponi, quaranta uova d’inverno e un cestino d’uva da tavola d’estate.
Da anni questa terra giaceva in abbandono, eppure i Bilsini vi andavano come verso la Terra Promessa, o meglio come verso una miniera da sfruttare: poichè sapevano che solo laggiù la loro attività e la forza prorompente dalla loro giovinezza potevano esplicarsi e convertirsi in oro.
Uno dei figli, il secondo, faceva il servizio militare: il primo era già sposato e aveva due bambini. La moglie di lui ed il più giovane dei fratelli erano partiti la mattina presto per la nuova dimora con un primo carico di roba e gli attrezzi rurali. Adesso gli altri, con un carro di mobili, il biroccino, le biciclette, il cane, il gatto, la gabbia con dentro un merlo, imboccavano il ponte di chiatte sul Po, procedendo lentamente verso la loro meta. Sul carro, adagiati fra le materasse ed i cestini colmi di panni, stavano i due bambini, grassi, biondi e rossi come pesche mature: il padre, che sembrava ancora un ragazzo, biondo e colorito pure lui, badava maternamente a loro; e con loro ridevano e scherzavano anche gli altri due fratelli che viaggiavano in bicicletta, uno per parte del carro.
Seguiva il biroccino, con lo zio e la madre. Guidava lei, Annalena Bilsini, senza cessare un momento di osservare se tutto procedeva in ordine. Tutto procedeva in ordine: d’un tratto però la vecchia cavalla ancora ardimentosa, che tirava il biroccino, agitò le orecchie per segnalare un imminente pericolo; e le mani della donna, nodose come quelle di un contadino, strinsero forte le redini.
Il corteo si fermò, a sinistra del ponte, mentre un camion carico di sacchi di frumento, passava velocemente a destra. Tutto il ponte tremava come dovesse sfasciarsi; anche l’acqua, sotto, correva con una vertigine di spavento, mentre il conducente del camion, col viso che pareva di bronzo, illuminato dal sole, cantava a squarciagola accompagnando il fracasso di terremoto che destava il suo passaggio.
I giovani Bilsini lo inseguivano coi loro gridi di protesta, i bambini piangevano ed il cane abbaiava cupo; anche lo zio, dentro il biroccino, tirandosi con la mano sinistra la lunga barba grigia, mormorava:
— Quello lì va verso l’inferno. Sicuro!
Solo la donna, sporgendosi indietro, seguiva con uno sguardo benevolo il passaggio tempestoso del camion: i suoi occhi celesti, nel viso rosso quadrato, brillavano di gioia.
— Rassomiglia tutto al mio Pietro, — disse rallentando le redini; e parve voler prendere anche lei uno slancio impetuoso. Il brontolìo del vecchio la frenò.
— Bello, il tuo Pietro.
— Sicuro, è bello, il mio Pietro, — ella pensò, mentre il suo viso si ricomponeva nella sua solita durezza bruciata da una volontà senza concessioni: — bello, ma prepotente e malvagio. È la mia croce, l’unico ramo storto della famiglia, che ancora non ho saputo raddrizzare. Ma c’è tempo ancora.
— Zio Dionisio, — disse poi al vecchio, che del resto indovinava tutti i pensieri di lei, — Pietro mi ha scritto. Ho ricevuto la lettera mentre si caricava il carro: ve la farò poi leggere.
— Ho veduto il portalettere. Che dice, quel bel tipo?
— Dice che sta bene, che è grasso, che fa l’attendente presso un capitano scapolo, il quale lo manda a far passeggiare il suo cavallo ed a portare fiori e regali alla fidanzata. Dice dunque che è contento della vita militare e che pensa nientemeno di prendere la ferma.
— Ma benissimo, — esclamò il vecchio, soddisfatto, anzi sollevato dalla notizia: poi si rifece pensieroso: — e altro?
— E altro, come al solito, domanda denari.
— Benissimo, — egli ripetè, su un altro tono. E un grave silenzio seguì fra i due.
La madre pensava:
— Sì, tutto va bene, riguardo a Pietro. Di lui non si sa se desiderare o temere il ritorno. I fratelli non parlano mai di lui, e voi, zio, voi che ricordate la nostra famiglia andata a male causa gli zii poltronacci e viziosi, pensate che è bene lasciare che Pietro faccia il soldato. Se viene ancora la guerra, egli può distinguersi e far carriera, perchè non ha paura nemmeno delle cannonate. Io sola, povera me, desidero il suo ritorno. Il mio cuore è con te, Pietro, perchè sei la parte cattiva della mia vita, la piaga che bisogna curare, Pietro, amore mio.
Ella poteva abbandonarsi ai suoi pensieri di madre, perchè adesso si procedeva lentamente.
Il ponte era ingombro di veicoli e spesso ci si doveva fermare: passavano carri carichi di mele, che spandevano un forte profumo di frutteti; passavano carri di uva, di saggina, di vimini; calessini coi sensali smilzi dai lunghi baffi rossi a punta, di ritorno dai mercati; automobili con dentro semi-sdraiati grassi mercanti di maiali. Si sentiva, con quell’odore di frutta, di mosto, di erbe forti e di giunchi, l’odore stesso della pingue valle coltivata fino all’esasperazione, della terra davvero impregnata del sudore dell’uomo e che produce quindi con abbondanza divina.
I Bilsini, che per quell’anno possedevano a mala pena le sementi, il frumentone per sfamarsi ed una scarsa provvista di vino e di salumi, guardavano come veicoli sacri i carri carichi di derrate, e calcolavano il prezzo di ogni cosa, ma senza parlarne.
Ne parlavano invece la madre e lo zio, nel biroccino di famiglia che ricordava i viaggi fortunosi degli antenati mercanti e produttori: nelle soste forzate la donna però non sdegnava di guardare intorno l’ampio paesaggio fluviale e di lasciarsi prendere da un istinto nostalgico di ricordi e di rimpianti. Su quel ponte, su quello stesso biroccino leggero e stretto come un sedile a due, ella era passata tante volte, da ragazza e da sposa; e ogni volta la distesa sfavillante delle acque e dell’orizzonte, le lontananze boscose delle rive, coi campanili dalle cime lucenti come fari, le avevano destato un senso di stupore, e il desiderio che una delle barche del ponte, allora di legno, si staccasse e trasportasse lei e il suo veicolo giù, lontano, verso le terre ignoto dove il fiume andava.
Questo desiderio, di luoghi lontani e non conosciuti, nasceva forse in lei dal fatto ch’ella non aveva mai provato nè goduto l’amore.
Sposata per interesse, a sedici anni, ad un uomo già anziano, del matrimonio ella non aveva conosciuto che le ripugnanze, e il dolore e la gioia della maternità. Le rimaneva quindi nel sangue un pungiglione di desiderio, un germe ignoto a lei stessa di inquietudine e di tristezza. Ma la naturale allegria della razza, l’amore per i figli e l’ambizione di vederli un giorno ricchi e felici, riempivano il vuoto della sua vita.
Quando furono arrivati in cima al ponte, ed il carro coi bambini, il gatto, il merlo dai rotondi occhi idioti, le rosse materasse incendiate dal fuoco del tramonto, volse verso l’alto argine tutto verde e dorato, ella pensò dunque alla nuova grande casa dove c’era tanto da fare; e guardate un’ultima volta le acque splendenti del fiume dentro le quali cadeva e si scioglieva il sole, proseguì il viaggio con l’impressione di essere veramente approdata ad una riva della sua vita completamente opposta alla prima.
Lungo l’argine il transito fu più tranquillo.
I due giovani Bilsini, che rassomigliavano alla madre, sebbene uno fosse pallido, con gli occhi azzurri, di quell’azzurro freddo ma buono che rivela l’origine nordica, si slanciarono con le loro biciclette in corsa vertiginosa ed in breve sparvero all’orizzonte.
Lo zio Dionisio ripetè il solito suo verso misterioso e fatale:
— Vanno.... vanno....
Voleva significare: perchè questa furia? Vanno, corrono, e non capiscono che la loro fretta è inutile, poichè si finisce sempre col morire.
Questa volta però Annalena gli si ribellò apertamente, anzi se la prese con la cavalla che anche lei, cullata dalla musica monotona del suo sonaglio, andava piano e pareva fosse del parere del vecchio.
— E lasciateli correre, perdio! Se non corrono adesso, quando lo faranno? Quando avranno il bastone col laccio, come il vostro?
— Si arriva lo stesso.
— Non è vero. Si arriva tardi, quando si va piano. E poichè non siamo arrivati noi, lasciamo arrivare loro, almeno.
Eppure anche lei frenò di nuovo la cavalla. Il sole era tramontato, e con esso sparvero i nuvoli di moscherini e di zanzare che molestavano i viandanti: adesso tutto era quieto; il cielo cremisi, fra i pioppi di là del fiume, faceva pensare ad un camino acceso in un bel crepuscolo invernale, mentre i prati verdissimi ed i giovani boschetti sospesi sullo specchio roseo dell’acqua corrente, davano l’impressione della primavera.
Poi d’un tratto il carro scese dall’argine per la strada in pendio che pareva affondarsi in una valle, e l’aria divenuta grigia, l’odore della saggina tagliata, il fumo di qualche comignolo, ricordarono di nuovo alla donna la casa, la terra ed il lavoro che l’aspettavano. Nel silenzio si udivano i due bambini sul carro questionare fra di loro: il più piccolo stringeva qualche cosa nel pugno e digrignava i denti per meglio difendersi:
— È mio, è mio; ti dico che è mio.
Ma poichè l’altro gli forzava ferocemente le dita, e lo morsicava per giunta, aprì il pugno e cominciò a piangere urlando. Anche il cane mugolò: Annalena fermò di botto la cavalla.
— Ma, figlio di un cane, — gridò al giovine padre; — perchè non li sculacci bene sul sedere nudo? Adesso lo faccio io.
Con agilità giovanile balzò dal biroccino, montò sulla ruota del carro, e afferrati e stesi uno dopo l’altro sulle materasse i due litiganti, scoprì loro le natiche grassoccie che per i colpi della mano di lei si colorirono come le guancie di un ubbriaco.
— Adesso meriteresti altrettanto tu, che non sai educare i tuoi figli, — disse al giovine, mentre i bambini si sollevavano tramortiti.
Lo zio Dionisio taceva; ma quando la donna risali sul biroccino e aizzò la cavalla col suo lungo ihù da carrettiere, egli si strinse la barba con la mano sana (l’altra la teneva sempre abbandonata di qua e di là come un peso inutile) e sentenziò:
— Se ne daranno, se camperanno.
— Perchè? I miei figli, da piccoli e da grandi, sono andati sempre d’accordo: così ho loro insegnato e così dev’essere. L’unione fa la forza.
— Ma bene! — egli esclamò: e pareva canzonasse la donna.
Quando arrivarono alla nuova dimora l’ultimo chiarore del tramonto illuminava il muro di cinta dell’aia, e i due alti platani uno per parte del grande portone d’ingresso, attraverso il quale si intravedeva la casa antica, coi muri scrostati e le persiane cadenti, ed a fianco una torretta presuntuosa, color cioccolata, dove la nuora Bilsini aveva già installato i piccioni.
Il luogo era quieto, forse anche melanconico, all’angolo fra due strade solitarie completamente ricoperte d’erba e fiancheggiate da siepi e fossi. Il chiarore del crepuscolo, infiltrandosi fra i tronchi dei platani, rivelava accanto al portone una nicchia nel muro e dentro dipintavi una Madonnina tutta gialla rossa e azzurra con in braccio un bambino che pareva una bambola.
Annalena notò che il lumicino della nicchia era spento; e quel bicchiere senz’olio, col lucignolo avvolto da una ragnatela, le diede l’impressione di quello che, senza l’arrivo di lei e della sua famiglia, era lo stato della casa e della terra intorno.
La prima cosa che fece, entrando nella grande cucina in trambusto, fu dunque quella di riempire d’olio il bicchiere; poi riaccese il lucignolo, e riparandolo con la mano riportò il lume nella nicchia.
Le parve che la Madonnina, distolta dalla sua fredda solitudine, le sorridesse. Allora si fece il segno della croce e strizzando l’occhio sinistro come verso un’antica conoscenza, disse ad alta voce:
— Sono qui. Madonnina; e tu proteggi l’anima mia e fa prosperare la mia famiglia.
Poi andò dall’uno all’altro dei platani, e ne toccò i tronchi che parevano di marmo serpentino: allacciava così, davanti al portone e alla nuova vita, una chiusura impenetrabile.
Dentro, nel cortile e nella casa, gli uomini scaricavano e mettevano giù la roba. Una fantastica confusione di mobili, di oggetti, di sacchi e di ceste era intorno; ma l’ampiezza medioevale dell’ingresso, della cucina e delle altre stanze, resa disagevole solo da scalini alti e bassi che dividevano gli ambienti, permetteva che vi si movesse liberamente lo stesso. La cucina sopratutto era vastissima, con due alte finestre sul cortile e un camino monumentale, sopra il quale un antico girarrosto in ferro battuto richiamava il ricordo dei signori del luogo e dei loro banchetti. Sotto la cappa del focolare ci si poteva sedere: su un ceppo, infatti, segato bene come uno sgabello, appoggiato all’interno dello stipite destro, aveva già preso posto Primo, il maggiore dei bambini, ed il fratello Secondo glielo contrastava; di modo che Annalena, quando rientrò, dovette ancora dividerli, mandandoli uno per parte della cucina.
Vedendosi trattati in modo eguale essi non protestarono; solo il piccolo, quando si trovò solo e sperduto nell’angolo dov’era stala collocata la madia, si mise a piangere di paura; ma il suo pianto non stonava, nella casa già piena del rumore della famiglia.
L’altro fratello invece si confortava a guardar la madre che faceva la polenta: già ella aveva appoggiato al paiuolo pendente dalla catena, per tenerlo fermo sul fondo del camino, un’asse, sulla quale premeva un ginocchio; e piegata, senza timore del fuoco, rivoltava la miscela bollente con un lungo cannello dalla punta inclinata. Dentro il paiuolo la polenta cominciò a sbuffare, accennando a staccarsi dalle pareti di rame lucente: la donna allora raddoppiò di forza, senza cessare un attimo di stare attenta all’evoluzione della pasta che pareva prendesse forma con dolore: e quando la vide tutta staccata e densa, con un uncino spiccò rapidamente il paiuolo dal gancio e d’un botto, con un’abilità che le permise di non sentire neppure il calore del recipiente, la vuotò sull’asse della madia.
Allora anche il piccolo Secondo si riconfortò: col viso teso sull’asse vedeva la madre aggiustare e lisciare la polenta col mestolo, in modo da formare una specie di torta rotonda e prominente: sopra, col taglio della mano, ella vi segnò una croce, ed al bambino che ne domandava con insistenza il perchè disse un po’ infastidita che la nonna voleva così.
— Perchè è la prima polenta che si fa in questa casa.
Poco soddisfatto il bambino cercò un’altra spiegazione: e non ottenendola dalla madre se la trovò per conto suo:
— È Gesù Cristo che vuole così.
La madre aveva altro da pensare: doveva apparecchiare, e gli oggetti necessari si facevano cercare e pescare qua e là nei punti più disparati. Sopra la tavola, lunga e imbevuta di vino come quelle delle osterie, una lampada a petrolio fumicava e non riusciva a vincere il chiarore del fuoco e l’ultimo barlume rosso delle finestre.
Quella luce calda ed ambigua confaceva alla figura alquanto enigmatica della giovine donna: alta e sottile ma un po’ dura, tutta vestita di nero per la morte del padre, bruna di capelli, di occhi, di pelle, con la bocca grande e carnosa, ella pareva una donna del sud, trapiantata fra la razza bianca e bionda dei Bilsini.
Quando parlava, il bianco dei suoi denti brillava azzurrognolo, come quello degli occhi; ma ella parlava poco e teneva sempre le palpebre abbassate: e sembrava triste, preoccupata da un suo pensiero segreto: cosa che però non le impediva di eseguire con cura, quasi con disciplina, le sue più minute faccende.
Stese la tovaglia, in modo che non facesse una piega, ripulì ancora una volta i piatti ed i bicchieri prima di metterli sulla mensa, tagliò a fette trasparenti il salame e sbattè senza fine le uova per la frittata: e fu lei che distribuì le fette della polenta, portandole calde sulla palma della mano come su un bel piatto vivo: prima allo zio Dionisio, poi alla madre, poi al marito ed ai cognati, in ultimo ai bambini.
Tutti si erano già seduti intorno alla mensa, nell’ordine che usavano nell’antica casa; solo la madre rimaneva in piedi, a capo tavola, di fronte allo zio; e disse con voce forte:
— Prima di toccare il cibo si dovrebbe recitare il pater nostro.
Uno dei figli, il pallido, rise, mentre gli altri rimanevano con le fette del salame sospese fra le dita: allora lo zio, dopo che si era appena seduto a stento, si alzò severo e disse in tono di comando:
— In piedi!
Tutti si alzarono, compreso il pallido, che anzi lo fece con esagerata prontezza; e le loro voci seguirono con diversi toni quella della madre che recitava con accento sonoro, come un prete in chiesa, la preghiera in latino. Anche i bambini, rappacificati e incuriositi dalla novità della scena, dorati e freschi come gli angioletti che accompagnano i santi nei quadri, rispondevano saltando le parole.
La scena era veramente grandiosa: in quello sfondo d’interno, reso più ampio dal chiaroscuro rossastro degli angoli, con le finestre ancora aperte nella notte glauca di settembre, i quattro fratelli Bilsini, intorno al vecchio barbone che pareva un tronco mezzo bruciato dal fulmine, rappresentavano la forza e la giovinezza dell’uomo.
I due più giovani, Baldo e Bardo, uno di sedici, l’altro di diciannove anni, erano i più alti di statura; il primo, coi capelli ricci e molli che ricordavano i viticci nuovi della vite, coi grandi occhi celesti attoniti e la bocca e le guancie come tinte col carminio, pareva scappasse da tutte le parti degli abiti usati, mentre l’altro vestiva con una certa ricercatezza, pallido del colore del pane, con un sorriso quasi maligno sulla bocca sottile dagli angoli tirati in su, e negli occhi di malachite.
Osca, il maggiore, seduto ridente fra i suoi bambini, e Giovanni che serviva pensieroso e taciturno il vecchio zio, rassomigliavano alla madre anche nella statura media, robusta nella sua apparente agilità.
La luce rossastra e circolare della lampada chiudeva come in un’aureola la mensa e dava toni di rame ai capelli dei giovani e dei bambini: quando Annalena sollevava gli occhi dal suo piatto credeva di intravedere ancora, nel colore dei suoi figli, i campi di saggina e di frumentone ed i frutti imbevuti di sole. La terra benedetta da Dio si rifletteva in loro; e Dio non avrebbe mancato di mandare nella nuova casa, per opera delle loro braccia, il pane quotidiano moltiplicato all’infinito.
Quando li vide ben rifocillati disse:
— E domani alzarsi presto. Le robe in casa le rimetteremo a posto noi donne: voi andate fuori e cominciate a lavorare nel campo verso il fosso.
Bardo tentò di ribellarsi.
— Domani io voglio dormire: almeno il primo giorno....
— Tu invece sarai il primo ad alzarti; non c’è nè primo nè secondo giorno.
Ma lo smorto, come lo chiamavano i fratelli, insistè con ironia:
— Io poi, domani, appunto per festeggiare il primo giorno, voglio andare a messa.
Allora tutti, compreso lo zio, si misero a ridere ed a sbeffeggiarlo: egli tentò di sostenere la partita:
— Sì, cari, voglio andarci, anche per farmi vedere dalle ragazze del luogo e dire loro: eccoci, siamo qui. Attente.
— Ma se la messa è alle sei! Ci saranno le vecchie centenarie. Va là, caro fratello, è meglio che vieni nel campo verso il fosso.
Era Giovanni che parlava, con accento serio, ed a lui era difficile replicare: unica vendetta di Bardo fu quella di scolare tutta per sè la bottiglia di vino che doveva dividere col fratello.
Poi fu la volta di Osca. Dopo aver servito i bambini, che teneva uno per parte ben stretti a sè, sbirciò la moglie e fu contento nel vederla per niente stanca dopo la lunga giornata di fatica. Ella non sedeva a tavola: aveva abilmente preparato la frittata, e adesso la deponeva sulla mensa, entro un largo vassoio turchino, grande e gialla come la luna piena sorgente. Col coltello affilato che le serviva per tutti gli usi, cominciò a dividerla e distribuirla, nel solito ordine; attenta e con le lunghe ciglia nere abbassate sugli occhi d’animale notturno: d’improvviso però quelle ciglia s’aprirono in cerchio, come raggi, e gli occhi rifulsero quasi dorati da un riflesso lontano che era invece una luce interna, di sdegno e di dolore. Poichè il marito, scherzoso ma crudele, parlava come fosse ancora scapolo.
— Mentre si passava sul ponte di chiatte, avete veduto, zio Dionisio, quella ragazza vestita di rosso, a cui s’era sgonfiata la bicicletta? Stava lì, tutta mortificata, e quasi piangeva. Bella ragazza, porco cane! Dico: vuoi venire, che porto te e la bicicletta sul carro? E lei sapete che mi dice? Se si fosse noi due soli, sì!
— Potevi buttare a fiume i tuoi bambini, — disse Bardo, mentre la moglie, riabbassate le palpebre, continuava a distribuire la frittata.
— E come mi guardava! Se non si era in fretta mi fermavo davvero con lei. Ma forse non mancherà occasione. Che ne dici, Gina?
— Rispondo io per tua moglie, — disse allora la madre; — e ti dico che faresti bene ad accorgerti che è tempo di finire di essere scemo.
I fratelli, specialmente lo smorto, sghignazzarono.
— Ebbene, e che c’è di male fermarsi a parlare con una bella ragazza? Lo abbiamo già fatto altre volte.
— Tu non puoi più fermarti con nessuno: tu sei sequestrato.
— Quella ragazza poi guardava me, non lui, — riprese Bardo con sicurezza. — Mi chiese persino se avevo la pompa per la bicicletta.
Allora fu Osca a sghignazzare.
— La pompa, ah, la pompa! Voleva la tua pompa. Ma quale? Quella da soffiarti ancora il naso?
E la disputa avrebbe preso un colore serio senza l’intervento dello zio barbone. Mentre con la mano sinistra s’ingegnava a tagliare la sua porzione di frittata, senza sollevare gli occhi, disse:
— Che state a questionare? Quella ragazza guardava me, non voi.
E una risata generale rimise d’accordo le parti.
— C’è poco da ridere, — egli riprese, parlando, come sempre, con lieve difficoltà; e pareva lo facesse apposta per rendere più burlevoli le sue parole: — non sono scapolo anch’io? E se lo sono non è perchè le donne non mi abbiano guardato. Annalena vostra madre, qui presente, può dirlo. Io forse non ho avuto che l’imbarazzo della scelta: per questo sono rimasto senza moglie. Ma sono sempre a tempo. Solo che sono di difficile contentatura. Sicuro.
Gina, che si era seduta nell’angolo accanto alla madia e profittando della penombra si confortava anche lei delle parole del marito col rosicchiare tutti gli avanzi della cena, guardava ed ascoltava lo zio e finalmente sorrideva. Annalena invece, sebbene rimbrottasse sovente il vecchio per il suo modo tetro di vedere le cose, adesso sembrava scontenta per il parlare di lui: ma era una sera eccezionale, quella, e bisognava aver pazienza.
Baldo disse:
— Dovreste raccontarci, zio, com’è andata quella volta, con la moglie del mercantino.
Era una storia saputa e risaputa: a Baldo piaceva straordinariamente perchè la prima volta che l’aveva sentita, ancora bambino, gli era parsa una fiaba: adesso anche i due piccoli biondini si disponevano ad ascoltare, e lo stesso cane, appoggiata sulle ginocchia di Annalena la grossa testa mite e lanosa come quella di una pecora, guardò il vecchio coi suoi occhi verdi e buoni, aspettando la storia.
— Ah, quella volta? Dunque, c’era la moglie del mercantino.... Ma bisogna raccontare tutto, dal principio e con ordine. Dunque, voi sapete, ragazzi, che la nostra famiglia era ricca. Case e campi possedeva, e mucche, cavalli, maiali. Mio padre, Giovannon, come lo chiamavano, perchè era grande e grosso, ed i suoi fratelli, cinque in tutto, come voi, non erano però ben guidati. La madre era morta ed il padre si ubbriacava e giocava. Il cattivo esempio rovina le famiglie: è come uno specchio dove ci si vede brutto e storto. E allora uno dice: poichè il Signore Gesù mi ha creato così, ed io sarò così: vuol dire che andrò all’inferno e mi divertirò coi diavoli.
Così, — riprese il vecchio, dopo aver bevuto un sorso di acqua, poichè di vino, con suo cocente dispiacere, non poteva berne più, — le cose andavano male. Dei fratelli chi giocava e fumava, chi beveva, chi andava a donne. In casa sempre un disordine da stordire, e strilli, sacramenti, bastonate. Due soli dei giovani andavano relativamente bene, mio padre Giovannon ed il fratello Alessandro. Ed erano quelli che le pigliavano, perchè non reagivano. Lo zio Alessandro se ne scappò per la disperazione e andò soldato coi tedeschi. Mio padre si sposò e portò la sposa in casa: e si nacque noi due, io e la vostra nonna Lena. La nostra infanzia non fu allegra; a furia di bere, il nonno era diventato stupido e vaneggiava sempre. Gli zii sempre in bagordi: ed i campi diminuivano, uno dopo l’altro, come rosicchiati pezzo per pezzo dalle volpi. Le cattive volpi erano loro, i tre fratelli. Non che, in fondo, fossero malvagi, che, per esempio, erano incapaci di rubare neppure un uovo, ma non amavano il lavoro, e chi si sottrae al lavoro è doppiamente maledetto dal Signore Iddio. (Ogni volta che nominava il Signore, il vecchio si faceva un piccolo e rapido segno di croce con la mano sinistra.) Or dunque, come dicevo, la terra intorno mancava; e si dava un bel da fare, la madre nostra, per tirare avanti la baracca; cominciavano a mancare pure i viveri; finchè un bel giorno lo zio Alessandro annunziò il suo ritorno. Egli aveva fatto per otto anni il servizio militare coi tedeschi, e vi dico io che se di botte ne aveva preso più da loro che dai fratelli, pure da loro aveva imparato a dominare sè stesso e gli altri. Il suo cuore tuttavia rimaneva generoso; tanto che egli arrivò a casa con una ragazzina da lui trovata sperduta a mendicare lungo le strade prima del confine, poichè era tornato a piedi, e questi piedi, quando arrivò, mi ricordo, li aveva gonfi e scorticati. I primi giorni dopo il suo arrivo furono lieti: tutti si andava d’accordo; anzi i fratelli avevano soggezione di lui ed ascoltavano i suoi racconti come voi adesso quelli del povero zio Dionisio. La ragazzina fu accolta bene: uno di più, uno di meno, nella nostra tavola, sebbene in ristrettezze, il posto per gli ospiti c’era sempre.
Era una biondina anche lei, bellina, ma puzzava come una pecora, tanto era sporca e coi capelli aggrovigliati e pieni di pidocchi. La mamma disse che bisognava metterla in bucato; ed infatti la lavò con l’acqua calda e le rase i capelli: così parve un maschietto, nera di faccia, con gli occhi verdastri ed i piedi grandi. Doveva essere una zingara. Non sapeva una parola d’italiano, eppure capiva tutto: lo zio Alessandro, che conosceva il tedesco, la istruiva. Aveva la mia età, circa otto anni, più alta, però, e più forte di me. Nei primi giorni, quasi avesse paura di noi tutti, cercava sempre di nascondersi; ma quando in famiglia ricominciarono i guai poichè lo zio Alessandro dichiarò ai fratelli che chi voleva mangiare doveva lavorarselo, ed essi si ribellarono, ed egli ne cacciò via uno, promettendo di fare altrettanto con gli altri due, ella prese coraggio, come trovandosi bene nella confusione, e apparve qua e là, giocò con noi bambini, fece amicizia con nostra madre, e sopratutto col nonno.
Il nonno, — continuò il vecchio, dopo aver bevuto un altro sorso d’acqua, mentre uno per parte Giovanni e Baldo lo ascoltavano rivolti a lui come incantati, — stava sempre seduto in fondo all’atrio, con le mani appoggiate al bastone, e non si alzava se non aiutato: non era paralitico, ma era ebete, e non prendeva più parte alle questioni di famiglia. Il medico aveva assolutamente proibito di dargli da bere vino, ed egli, perduto l’unico scopo della sua vita, era caduto in melanconia. Non badava neppure più a me, che un tempo ero stato il suo preferito; e quindi la gelosia mi rôse quando invece vidi entrare nelle sue buone grazie la zingara. La compagnia di lei pareva lo rianimasse; egli le dava qualche soldo, la mandava a fare commissioni segrete, le insegnava certi giuochi col refe e filastrocche senza senso ch’ella imparava subito. Avvenne così ch’ella prendesse padronanza in casa. Cominciò col picchiare la piccola Lena, e poichè io difendevo la sorellina, si gettò anche su di me e mi morsicò. Il curioso è che la nostra mamma le voleva bene e la difendeva. È una povera orfana, diceva, lontana dalla sua terra; è una figlia del buon Dio e bisogna aiutarla. Ma non basta; anche gli zii, i contadini, i vicini di casa, tutti erano affezionati a lei. Solo io le tenevo il broncio; e lei mi veniva sempre appresso e mi beccava come una cornacchia. E se parlava, col suo linguaggio proprio da zingari, ed io stentavo a capirla, mi sbeffeggiava e mi assaliva. Due anni passò in casa nostra; non apprendeva a lavorare, ma non stava mai ferma: a volte spariva per giornate intere e nessuno riusciva a sapere dove andasse. I capelli le erano cresciuti, ricci e crespi; urlava, quando la mamma glieli pettinava, poi scappava nei campi come le avessero fatto una grave offesa. Un giorno si spogliò tutta e si buttò nel fosso, diguazzandovisi con le anatre. La mamma diceva che le mancava qualche vite dal cervello; però cominciò ad impressionarsi anche lei quando un giorno si accorse che le uova diminuivano straordinariamente dalla cesta dove le galline le facevano. Dapprima fui incolpato io. Io? Porco diavolo, — imprecò lo zio Dionisio ancora offeso dal ricordo; — io che non avrei dato tale dispiacere alla mamma neppure se la fame mi ci avesse costretto. Allora mi nascosi nel pagliaio e vidi che era proprio lei, Betta la zingara, a fare la bella sottrazione. Eppure ella negò, recisamente, anzi mi accusò di calunniarla e minacciò di scappare. Poi mi accorsi di un’altra bella faccenda. Quando gli zii e la mamma erano nel campo a lavorare, ella forniva il nonno di vino; a volte riusciva a prenderlo in cantina, a volte andava a comprarglielo: ecco perchè lui la preferiva.
Io la denunziai. Ella negò fieramente, ed il nonno si alzò col bastone sollevato contro di me.
Qui l’uomo tacque un momento e si fece pensieroso: la bocca un po’ storta per la paralisi facciale parve si rifiutasse a continuare nella fatica di parlare; poi egli si scosse e riprese:
— Il giorno dopo questo fatto, Betta scomparve. La colpa ne fu data a me, s’intende, ed i pugni e le botte mi fioccarono da tutte le parti. Riguardo al nonno, poi, bisognava che passassi molto al largo dal tiro del suo bastone. Lena piangeva, perchè Betta se l’era mangiata il lupo; e pure la mamma piangeva perchè la figlia del buon Dio non era più in casa nostra a rubare le uova. Gli zii batterono la campagna per ritrovarla; qualcuno disse di averla veduta con una compagnia di zingari, qualche altro che si era buttata nel fiume. Fatto sta che non ricomparve se non qualche anno dopo, sposa ad un merciaio ambulante, oriundo del nostro paese. Misero su una botteguccia, dove lei vendeva aghi e bottoni, mentre lo sposo girava per i paesi a vendere stoffe e maglie. Ella venne a trovarci, come se niente fosse, e rise nel sentire le versioni date alla sua fuga.
— Sono stata sempre a Milano, — disse, nel più bel dialetto di quella città. — Ci sono andata a piedi: mi fermavo nelle masserie fuori mano, dicendo che andavo a trovare la mia mamma moribonda all’ospedale: e tutti mi davano da mangiare e denari per il viaggio. A Milano ho chiesto l’elemosina, finchè la polizia non mi acciuffò: fui messa in un ospizio, e poi mandata a servizio. Una vita che non mi andava a genio. Ho subito però incontrato il mio Martino, mi sono fatta sposare e l’ho persuaso a tornarcene qui. Non ho fatto bene?
Era diventata una bella figliuola, corpo del diavolo, — esclamò il vecchio, con gli occhi riaccesi dal lontano ricordo. — Ma quando rideva, scuotendo all’indictro i capelli sempre corti, mi dava l’idea di una leonessa come l’avevo veduta in un circo di saltimbanchi a Mantova. Appena se ne fu andata, la mamma disse:
— La non mi va e la non mi va! È meglio che stia lontana da casa nostra. — E proibì alla Lena di andare nella bottega di Martino detto il mercantino.
Il vecchio bevette un altro sorso d’acqua ed esitò prima di riprendere il racconto: poichè il ricordo di quanto gli rimaneva da dire, sebbene tante volte ripetuto, gli destava sempre un senso misto di piacere, di rancore, di vergogna, ed anche lo scrupolo di far cosa dannosa ai giovani. Infatti li vedeva rivolti a lui con attenzione maliziosa: ma anche questa volta li deluse, sorvolando su certi particolari.
— A me, però, non le venne in mente di proibirmelo. E male fece. Io ci andai. Avevo diciotto anni e ancora non m’ero fatta l’amorosa. Ci andai, e lei mi accolse bene.
Come un fratello, diceva. E nei primi tempi tutto andò bene. Lei scherzava con me, come del resto scherzava con tutti: quando non vendeva le sue cianfrusaglie stava nella strada, appoggiata al muro, fra altre donne sfaccendate, e rideva e scherzava. Era allegra, ed a me questo, abituato com’ero alla serietà della mamma e di Lena, faceva piacere.
Un giorno nella botteguccia trovo un mio amico, più anziano di me: un negoziante di scope che guadagnava assai. La sua fidanzata lo aveva tradito, ed egli quel giorno se ne lamentava con Betta; diceva!
— Io l’amore in vita mia non lo faccio più, incontrassi la più bella donna del mondo. No, una volta scottato....
— La seconda ci si soffia su, — disse Betta, burlandosi di lui.
Trovai altre volte il giovanotto presso di lei, e ne divenni geloso: poichè, voi lo sapete già, io ero innamorato di lei: cotto ma proprio cotto, come una mela al forno.
Quando glielo dissi, ella mi guardò male, rinfacciandomi le mie persecuzioni di ragazzo.
— Se tu non facevi così, io non scappavo, e ti avrei voluto bene: e forse ci si sposava.
Un’altra pausa fece qui lo zio Dionisio; e il suo sguardo vagò lontano, verso l’ultimo barlume della finestra, e più lontano ancora, come s’egli volesse percorrere il tempo all’indietro per indovinare quale sarebbe stato l’avvenire suo e di Betta s’ella non avesse rubato le uova e comprato il vino al nonno.
— Però non mi scacciò. Solo mi proibì di parlarle d’amore; e questo, si capisce, rinfocolò la mia passione. Così passò un anno. Io dimagrivo, e non mi curavo di nascondere la mia pena: anche in casa lo sapevano, e un po’ si burlavano di me, un po’ se ne preoccupavano. La mamma mi diceva: va là, ti ha dato da bere qualche intruglio, la zingara; ma come te ne ha dato uno per ammaliarti, te ne darà un altro per farti guarire.
E così fu infatti, — notò il vecchio, con un grande sospiro, in parte vero, in parte finto. — Bisogna però osservare che nessuno in casa mi proibiva di andare dalla Betta: ed io ci andavo, non solo, ma le portavo regali, di nascosto: roba, s’intende, che rubavo in casa. Noi si stava di nuovo discretamente bene; il nonno morto, due zii emigrati in America; gli altri si lavorava tutti, e poichè io non avevo altro compenso mi credevo in diritto di portar via di casa qualche bottiglia e qualche gallina. Così pensavo, allora, accecato dall’amore; e Betta non faceva complimenti, per ricevere i regali. Era nata zingara, e zingara rimaneva. Un giorno le portai un’anatra. Era il giorno di San Martino, ed in quell’occasione tutti devono mangiare l’anatra. Il marito, sebbene fosse la sua festa, era in giro, col suo metro in mano: povero pantalone!
Io, per completare la festa, porto anche due bottiglie di vino vecchio. Si fece baldoria, nella cucina attigua alla botteguccia. Si fece baldoria, — egli ripetè, d’un tratto rosso in viso come ancora invaso dall’antico calore; — e poi avvenne il patatrac!
Qui i ragazzi si misero a ridere: rossi in viso anche loro, con gli occhi, i denti, le labbra lucenti, ricordavano le belle melagrane mature quando si spaccano sulla pianta dorata e lasciano vedere le perle granate dei loro chicchi. Ridevano anche i bambini, per il riflesso dell’allegria dei grandi, ed una luce di letizia schiariva gli occhi severi della madre e quelli melanconici della sposa.
Egli solo, il vecchio, non rideva; anzi l’ilarità degli altri pareva gli desse ombra: riprese, un po’ infastidito e come stanco di parlare:
— Dopo quel giorno divenni l’amico di Betta. A dire la verità, me ne vergognavo, e avevo compassione del povero Martino; ma pareva che davvero la donna mi avesse dato un filtro; senza di lei non potevo vivere. Ella d’altronde mi dava ad intendere di essere stata innamorata di me fin da bambina, e che il suo vero sposo ero io, fedeli l’uno all’altro a vicenda fino alla morte. Amen.
Or ecco una sera capito d’improvviso da lei. Il povero Martino è via, con le sue tele ed il suo metro e so che ella, se vuole, mi può ricevere impunemente. La finestra della cucina è illuminata: io busso e non ricevo risposta: busso ancora, e finalmente lei si degna di aprire. La tavola è apparecchiata per due, e dalla padella sul focolare vien fuori un buon odore di pollo in umido.
— Forse stasera arriva Martino, — dice lei, per spiegarmi quei preparativi. — Capirai, devo ben dargli da mangiare, poveraccio. — E mi accoglie molto fredda, come un semplice amico di famiglia, tendendo sempre l’orecchio se mai si sente fuori il passo del marito. Io però sentivo la finzione, ed avevo il dubbio ch’ella aspettasse qualche altro; quindi non mi movevo, e neppure mi mossi quando davvero qualcuno battè alla porta e alle domande di lei: chi è, chi è? rispose la voce di Martino.
Pallida come una morta, senza parlare, ella mi prese per un braccio e con gesti concitati mi costrinse ad entrare in un bugigattolo buio attiguo alla cucina: poi ne chiuse subito l’uscio ritirandone la chiave.
Fu il momento più terribile e ridicolo della mia vita, quello che d’allora in poi mi fece apparire la donna come una creatura infernale. Perchè, ragazzi, all’aprirsi ch’ella aveva fatto dell’uscio, dentro il camerino illuminato d’improvviso dalla luce della cucina, io avevo veduto un uomo. Era l’uomo col quale ella stava al momento del mio arrivo e col quale doveva cenare e passare la notte. E poco male fosse stato un uomo semplicemente: il terribile è che era mascherato: aveva un lungo cappotto nero col cappuccio ed una bautta nera sul viso.
Quando io dunque lo vidi, dritto lungo nell’angolo del camerino, mi parve il diavolo; tanto che l’emozione ed il terrore, nel primo momento, m’impedirono di sentire le menzogne con le quali la zingara spiegava al marito i preparativi della cena; poi a poco a poco ripresi animo, e spiegando a mia volta a me stesso il contegno di lei nel ricevermi, cominciai a fare le più amare riflessioni sul conto mio e suo. E provavo soggezione e paura di quell’altro, che certo mi aveva riconosciuto e si beffava di me: però infine pensai: — piano, col beffare! Siamo tutti e due, i beffati, compare: e nulla mi costa di saltarti addosso e strangolarti.
Sì, ragazzi, — disse lo zio Dionisio, alzando la voce ancora sdegnata; — tanto il sangue mi saliva alla testa, per il dolore e la rabbia, che per vendicarmi fui sul punto di assalire l’uomo mascherato. E lui doveva pensarla egualmente, perchè d’un tratto me lo sento piombare addosso, come un uccellacelo da preda; riesco però ad afferrargli le mani, che mi pare di sentire ancora avvinghiate alle mie, calde tutte quattro come carboni accesi; e la Betta, che deve tendere le sue fini orecchie di volpe, forse sente il fruscio della nostra lotta silenziosa perchè con la sua voce alta e le sue parole ci ferma e ci salva.
— Martino mio, — diceva, — dove hai messo la rivoltella?
— La tengo in tasca, — dice lui, mentre già mangiava beatamente il pollo. — Perchè?
— No, così, perchè credevo l’avessi dimenticata in qualche posto.
Egli replicò qualche cosa che la fece ridere; poi rise anche lui: si sentì lo scoppio di una bottiglia sturata, ed infine quel povero Cristo di marito disse:
— Questa notte, sì, dormiremo bene! brava, mogliettina, che mi tratti così.
Noi, dentro, ci slacciammo: si scoppiava dalla voglia di ridere, ma era una voglia amara, vi assicuro io, ragazzi miei: e non si respirò bene se non quando la zingara, convinto il marito ad andarsene a letto, non aprì la porta di fuori e poi l’uscio della nostra infame prigione, e tenendosi nascosta dietro di questo, non ci lasciò andar via quatti quatti come pecore tosate. Una pecora tosata mi parve infatti il mio rivale, quando per strada si tolse la maschera ed il mantello. Era il mio amico, il mercante di scope. Soffiandosi sulle dita, egli disse solo queste parole!
— E dire che il pollo e la bottiglia li avevo portati io!
Qui cominciarono i commenti, e persino i bambini ci misero il becco.
— Ma perchè il povero Martino non vi voleva a mangiare con lui? — domandò il più grandetto; e poichè nessuno gli rispondeva, intenti tutti a discutere fra di loro, ripetè più forte la domanda, con insistenza, finchè la nonna non gli rispose!
— Perchè voleva mangiarsi tutto lui.
Lo smorto faceva considerazioni scettiche, mettendo in dubbio anche l’autenticità del fatto; cosa che rincrudì nello zio Dionisio l’amarezza del ricordo. Osea cercò di mettere a posto il fratello!
— A te, certo, queste avventure non possono accadere, perchè neppure le zingare ti guardano; e poi sei troppo prudente....
Gli altri fratelli ricominciarono a sghignazzare; poichè si sapeva di uno scacco amoroso di Bardo, al quale una sera una ragazza aveva dato appuntamento mandandoci poi il padre per chiedergli che intenzioni aveva: e mortificato e deluso egli aveva risposto che non aspettava nessuno e che le sue intenzioni erano semplicemente quelle di pigliarsi un po’ di fresco.
L’allusione di Osca lo ferì quindi: rosso in viso e sdegnato più che lo zio al ricordo della sua avventura, gridò:
— Lasciatemi crescere ancora di qualche centimetro e poi ne riparleremo.
— Una volta scottati, la seconda ci si soffia su, — replicò Osca: e tutti, fra grandi risate, cominciarono a soffiarsi sulle dita.
Solo il vecchio era ricaduto nella sua solita tristezza distratta: fu visto tendere la mano verso un bicchiere a metà colmo di vino, ma poi ritrarla e afferrare sospirando il suo bicchiere d’acqua.
Il vino se lo bevettero tutto i giovani, ed anche le donne non rifiutarono la loro parte. In ultimo una lieve allegria li rendeva tutti espansivi: Baldo aveva gettato il braccio sul collo di Bardo, e gli si strofinava addosso come quando erano bambini, mentre i veri bambini, i due fratellini ricciuti, adesso riprendevano a contrastarsi il posto sotto la cappa del camino, finchè la nonna non li acciuffò energicamente e li condusse a letto.
Le camere da letto erano al piano di sopra, e vi si saliva per una scala di pietra nera liscia e come levigata dal tempo, tutta di una rampa che a guardarla dall’alto dava le vertigini: e poichè non c'era ringhiera nè appoggiatoio di sorta, sulle pareti un tempo tinte con la calce ma divenute grigie, si vedevano le impronte di mani grandi e piccole. Anche i bambini, aizzati dalla nonna come puledrini indomiti, salirono appoggiandosi al muro, mentre lei, tirandosi in su il davanti della sottana, andava su dritta e rigida nel mezzo degli scalini. Il lume ch’ella reggeva in mano illuminava la vôlta della scala, e su in alto, sopra il pianerottolo, il lucernario col tetto di vetri rotti dove filtrava il chiarore della luna.
Ella pensava che occorreva rinnovare tutto, da cima a fondo; e naturalmente rimpiangeva la sua vecchia casa, dove si viveva al pianterreno e tutto, sebbene povero, era più bello che in quest’abitazione di antichi signorotti selvatici che amavano le asprezze perchè aspra era l’anima loro: ma cercava di non pensarci molto, e di superare anche lei con fierezza la fatica della scala: tanto, bisognava abituarsi; e salire, in tutto, con forte volontà, si doveva salire.
Sul pianerottolo, lastricato pur esso di pietre connesse fra loro in modo che pareva ne formassero una sola, si aprivano gli usci delle camere: usci grandi, a due battenti, di legno forte venuto certo di lontano, forse dalle foreste del nord, per difendere meglio il sonno dei signorotti della valle: le serrature doppie, solide, i catenacci ed i lucchetti davano loro un aspetto di guardiani armati.
Annalena entrò nella camera destinata al figlio Osca ed alla moglie, e dovette alzare alquanto il braccio per deporre il lume sulla mensola del camino. Tutto intorno era ancora in disordine; ma anche lassù la vastità della stanza permetteva di muoversi liberamente.
Quanto grande era la camera altrettanto piccole erano le finestre, a levante ed a mezzogiorno; quasi due feritoie, per affacciarsi alle quali bisognava salire su uno scalino che serviva anche da sedile: nel vano di una di esse, ancora aperta, appariva la luna, ed il suo chiarore, più che quello del lume, rischiarava i fitti travicelli gialli che sostenevano il soffitto.
I vecchi mobili dei Bilsini stonavano, e ne parevano umiliati, in quell’ambiente quasi di castello primordiale: solo il letto era ampio, con una coltre rossa che dominava prepotente su gli smorti colori intorno e faceva caldo a vederla: letto di contadini che pensano solo a godersi la moglie, la terra, la numerosa figliuolanza.
I bambini si guardavano attorno fra curiosi e spauriti, ed il maggiore tentava di sottrarsi alla tirannia della nonna che già lo spogliava per metterlo a letto.
— Ho paura, Mammalena; ci saranno i sorgòn.
— Ma va là, i grossi sorci sono nei fossi, non nelle case: e tu, che non hai paura di andare dentro i fossi, hai paura qui. E poi quando si sono dette le preghiere non si ha più timore di niente. Up, là!
D’un balzo il bambino si trovò a letto; e si mise a ridere, nascondendosi sotto il lenzuolo, mentr’ella rimboccava la coperta.
L’altro dormiva ancora in una grande culla di noce, scolpita ruvidamente: culla di famiglia, dove uno dopo l’altro erano passati gli avi, i nonni, i padri ed i figli Bilsini. Era più larga che lunga, quasi rotonda, come un nido: e l’uncino per attaccarvi il velo pareva davvero il becco di un pellicano ripiegato sul lungo collo del bastone, pronto a strapparsi il petto se altro nutrimento non poteva procurare ai suoi piccoli.
Quando tutti e due i bambini furono sistemati bene, Annalena fece far loro il segno della croce e recitare le orazioni. Fra le altre ce n’era una per lo zio Pietro.
— Signore, Angelo custode, fate che lo zio Pietro soldato si conservi sano, obbediente ai superiori, e torni a casa buono e virtuoso. Amen.
La preghiera che più loro piaceva, che recitavano con gioia, sorbendola come un dolce, la nonna la serbava per ultimo.
Gesù bellin bellino, |
Ma quella sera erano tanto stanchi e storditi che rispondevano a stento, anche perchè la nonna, invece di star ferma accanto a loro, andava qua e là per la camera ricercando qualche oggetto, ed infine chiudeva le finestre.
— Gesù mio donami il cuore.
— Gesù mio....
— Su, — ella disse dall’alto dello scalino della finestra a levante, attardandosi a guardare di fuori, — donami il cuore.
Solo il maggiore, con una vocina lontana e beata rispose: — donami.... donami.... — poi sbadigliò, ed il cuore se lo bevette col primo sonno. L’altro dormiva già profondamente.
Allora lei, col viso inargentato dalla luna, guardò il grande cielo azzurro velato, dove le stelle pareva s’annegassero con voluttà innocente, come gli occhi dei bambini nel primo sonno, poi guardò i campi che oramai dovevano come servi obbedire alla sua volontà.
Questi campi, non come di solito rettangolari, ma semicircolari, convergevano tutti verso la casa: era insomma come un ventaglio aperto, il cui pernio era l’abitazione dei padroni e l’anello il recinto dell’aia. Un’alta siepe li circondava, preceduta da un fosso lungo il quale i salici, i pioppi, i platani, trasandati e inselvatichiti, parevano un principio di foresta.
Oltre la siepe nulla si vedeva, nè la donna altro cercava di vedere: tutto il suo mondo era lì, adesso: le voci dei figli, giù nella cucina e nell’aia, il respiro beato dei bambini nella camera, l’ombra stessa della culla che prometteva altre generazioni, rappresentavano per lei l’intera umanità: ed il cielo azzurro con la pupilla d’oro della luna le pareva l’occhio stesso di Dio intento solo a guardare la nuova patria della famiglia Bilsini.
Poi andò ad ispezionare le altre camere: si rassomigliavano tutte, tutte con grandi letti matrimoniali. In una dormivano lo zio e Giovanni che lo aiutava a vestirsi e spogliarsi, in un’altra i due figli più giovani; e comunicante con questa la sua. Così, come nella vecchia casa, ella avrebbe potuto lasciar l’uscio socchiuso per sorvegliarli anche nella notte.
Invano essi avevano tentato di sottrarsi, col cambiamento di casa, alla tutela materna: non c’era da fare altro che continuare a rientrare scalzi, quando facevano tardi la sera: del resto ella sentiva lo stesso, anche nel sonno, ed il giorno dopo assegnava loro, per castigo, una doppia razione di lavoro.
Per quella sera però si fece eccezione: i ragazzi perlustravano i dintorni del podere, e lo zio e gli altri si attardavano a chiacchierare nella cucina: ella andò a letto, stanca; e sognò di continuare la giornata: rimetteva in ordine la nuova casa, ma gli oggetti le si movevano ed ammucchiavano attorno, con strane inversioni; nel paiuolo per la polenta bolliva del vino, la caffettiera era piena di noci, i bambini avevano portato nell’aia le posate e giocavano con esse. E dai sacchi bucati scappavano rivoletti di grano e saltavano i chicchi d’ambra del frumentone, alcuni dei quali camminavano come insetti.
Eppure lei non si sgomentava: anche nel sonno sapeva che tutto doveva rientrare in ordine.
— Si sa, — pensò svegliandosi; — la fatica e le preoccupazioni dànno i cattivi sogni.
Guardò alle finestre e vide ch’era buio ancora: presto quindi per chiamare i figli. Lei però a letto senza dormire non poteva starci; quindi si alzò, scese giù e accese il fuoco.
La nuora aveva già messo in ordine la cucina; tuttavia Annalena ispezionò gli armadi ad angolo, lavò la tavola e vi rimise bene intorno le sedie: infine andò ad attingere l’acqua dal pozzo e si lavò nella conca di pietra che vi stava accanto.
L’alba sorgeva rapida sul cielo e nella prima luce liquida e fresca la grande aia pareva una piccola piazza, coi reparti lastricati per stendervi a seccare le granaglie, e lo spazio terroso per le galline: e la donna si compiacque a guardare intorno sognando i giorni della raccolta. Poi rientrò in casa e si pettinò. Aveva ancora dei bellissimi capelli, d’un color castaneo acceso, e quando ella se li avvolse stretti e lisci intorno al capo luccicarono come una cuffia di raso dorato: sopra, ella vi stese e legò dietro sulla nuca il fazzoletto nero. Anche le sue carni erano bianche e giovanili; ella lo sapeva, ma non se ne curava, anzi cercava di coprirsi, di camuffarsi da vecchia, per imporre più rispetto ai suoi figli e forse di sè a sè stessa.
Così indossò la sua blusa nera di fatica, e dopo aver preparato il caffè e messo ad abbrustolire una lunga fila di fette di polenta, andò a svegliare i ragazzi. Poichè i suoi figli erano sempre ragazzi, per lei, a cominciare da Osca; ed il primo ad essere chiamato era lui, anche perchè Gina, propensa ai buoni sonni del mattino, sentisse la sveglia. Quando infatti sentì bussare all’uscio, ella aprì gli occhi spaventata; ricordò a stento, sembrandole di essere ancora nell’altra casa, e sospirò quasi con angoscia: ma vinse subito il sonno che la riprendeva con insidia voluttuosa e si buttò dal letto come fuggendo un luogo di pericolo.
La madre intanto continuava l’appello: entrò in punta di piedi nella camera dello zio, per non svegliarlo, e senza parlare scosse Giovanni. Anche Giovanni aprì gli occhi smarrito: vide il giorno, prima che nella finestra, negli occhi chiari di lei, e senz’altro cacciò fuori dalle coperte una gamba rossa muscolosa e tese in su le braccia stirandosi tutto come per provare le sue forze ringagliardite dal sonno.
Il difficile veniva adesso, coi due ragazzi dormiglioni e pigri. Con loro la madre non faceva complimenti; ogni volta che si trattava di svegliarli o spronarli al lavoro, per smorzare la sua tenerezza naturale ella ricordava il cattivo risultato dei suoi prozii materni e del suo stesso figlio Pietro che qualche cosa aveva ereditato da essi.
Entrò dunque nella loro camera e saltò sullo scalino della finestra per aprire gli scurini che i due birboni avevano accuratamente chiuso. La luce cristallina d’oriente illuminò il grande letto in disordine, dove da un lato appariva il corpo nudo e bianco di Bardo, steso bocconi con la testa sotto il guanciale, e dall’altro Baldo dormiva tutto coperto e avvoltolato nelle lenzuola, come per nascondersi al richiamo della madre.
E quello che più spronò lei a questo richiamo fu il vedere un giornale per terra, e la candela stearica consumata. Ah, dunque, il piccolo sornione, che non parlava mai, sempre a bocca aperta come un uccellino di nido, ma che faceva sempre il piacer suo, aveva letto fino a tarda sera, nonostante il divieto di lei, e s’era forse addormentato col lume acceso. Apposta ella aveva trovato l’uscio di comunicazione chiuso, sebbene lo avesse lasciato aperto.
Diede dunque un’autentica sculacciata a Bardo, e tirò giù la voluminosa guaina nella quale l’altro si sprofondava. I due fratelli però non si mossero: anche nel sonno conoscevano le maniere di lei e non se ne stupivano.
— Adesso,— mormorò Bardo, di sotto il guanciale. Ella però sapeva che quell’adesso significava: uscite fuor della camera, mamma e noi dormiremo ancora per una mezz’oretta: — quindi tolse anche il guanciale e disse con voce forte:
— Su, su, è tardi.
E non ebbe pace finchè i due pigroni, uno per parte del letto, nudi e pallidi, ancora ad occhi chiusi, non cominciarono sbadigliando e facendo smorfie a grattarsi le spalle, e poi a vestirsi, angosciati come se andassero verso la morte.
Anche lo zio, nell’altra camera, si era svegliato e non intendeva di starsene a letto: bene o male s’infilò da sè e si abbottonò i pantaloni e si mise le grosse calze di cotone: per il resto fu amorosamente aiutato da Giovanni, sulla cui tiepida testa egli, come sempre, posava la mano, quasi in atto di benedizione.
— Va là, Giovannòn, ti lascerò i miei milioni.
Giovanni sorrise, come se la promessa avesse fondamento: poichè del resto sapeva che il vecchio gli avrebbe lasciato l’eredità del suo buon senso, della sua onestà e dell’amore al lavoro.
Furono loro due i primi a scendere nella cucina ed a scegliersi le più larghe rosee fette della polenta abbrustolita; ed il giovine, nel versare il latte per lo zio, vi fece scivolare anche il velo grasso della panna; poi, mentre gli altri fratelli irrompevano già chiassosi e litigiosi nella stanza, essi uscirono nei campi.
Bellissimo era il mattino di settembre: sull’argento dorato dell’orizzonte i salici dai molti rami sottili tutti dipartentisi dalla estremità alta del tronco, con le foglie già colorate dall’autunno, parevano grandi ceste colme di frutta e di fiori; sull’erba e sulla siepe brillavano i vapori lasciati dalla notte, e l’acqua dei fossi aveva il colore liquido dello smeraldo.
I due contadini però badavano piuttosto alla desolazione dei campi mangiati dalla gramigna e invasi dai rovi, ed alla melanconia dei pergolati dove la vite non era stata potata, e dava quindi, fra i molti pampini malaticci e rognosi, dei piccoli grappoli che parevano d’uva selvatica.
I Bilsini erano già d’intesa che si doveva cominciare col cogliere l’uva, e poichè così infelice com’era non si poteva venderla, di pigiarla per conto loro: in pari tempo si dovevano arare i due campi centrali, per la semina del frumento.
Osca dunque venne fuori con l’antico aratro di famiglia, tirato dalle due sole coppie di bovi di loro proprietà: grandi bestie già anziane ma ancora possenti, i cui occhi tristi e smorti parvero illuminarsi per la gioia del lavoro.
Duro lavoro, però, poichè la terra, quasi cristallizzata dal lungo riposo, pareva non volesse più smuoversi: il vomere di metallo doveva scavarla e tagliarla come un coltello, in grandi blocchi scuri come la pozzolana: finito il solco, nel ritornare in su, le zampe dei buoi aiutavano a stritolarla, ma le bestie ansavano e sudavano peggio che nei giorni d’estate.
Anche Osca faticava come non mai, aizzandole senza mai maltrattarle; il sudore gli scorreva sul viso, fino al petto nudo, ed egli se lo sentiva sgorgare anche dalle ascelle, come l’acqua dalla conca della fontana, e inumidirgli tutto il corpo. Quando la terra si rifiutava ad aprirsi, simile alla donna che resiste all’atto di amore, egli se la pigliava con l’aratro, rivolgendogli le più schifose ingiurie; poi lo percuoteva con un suo frustino, aiutandolo però a procedere nella sua opera.
— Bisogna alzarsi più presto. Ha ragione la mamma. Eccola.
La madre veniva a vedere i figli al lavoro; e invero quello che più le premeva era lui, lo scavatore della terra, che, piccolo e solo in mezzo a quel rivolgimento dell’immenso campo, fra le erbe travolte ed i cespugli abbattuti, pareva un guerriero che distruggesse tutto un vecchio mondo per riedificarlo.
Più lieve ed allegra era la fatica degli altri. I due fratelli minori, sopraggiunti con delle ceste grandi come culle, aizzati anch’essi da Giovanni, vendemmiavano.
La prima raccolta fu per loro: e Bardo anzi si divertiva a mangiare l’uva dalla pianta, allungando il collo e mordendo i grappoli come faceva la cavalla coi pampini. Sopraggiunsero presto anche i bambini col cane. Il vecchio guardava, tendendosi anche lui a fare qualche cosa con la mano viva dal cui polso pendeva il bastone col laccio. La sua presenza bastava per animare i giovani, specialmente il prediletto Giovanni, ed egli lo sentiva e se ne confortava.
Quando il sole fu sopra la siepe, e grande e pieno inondò di oro i campi incolti, ed anche gli umili fiori del radicchio e della malva parvero fiori di giardino, Osea aveva già scavato parecchi solchi e le ceste erano piene d’uva bianca: Annalena dunque ripercorse il sentiero centrale del podere e rientrò in casa per aiutare la nuora.
La nuora, anche lei, se non era sorvegliata, si attardava nelle faccende e volentieri si appoggiava ai davanzali delle finestre o si metteva a sedere, sognando. Nessuno sapeva di questi suoi sogni e neppure lei cercava di approfondirli: adesso, per esempio, mentre la suocera rientrava dai campi, ella stava seduta accanto alla madia, rosicchiando di mala voglia una fetta di polenta abbrustolita, e contava i travicelli del soffitto.
Ventiquattro erano i travicelli che come figliuoli affezionati si attaccavano alle due grandi travi principali, tutti assieme sostenendo il peso del soffitto.
— Ventiquattro sono pure i tuoi anni, Gina Bilsini, — ella diceva a sè stessa, — e già ti senti più vecchia e stanca di tua suocera. A che serve la mia vita? Lei, almeno, mia suocera, ha uno scopo: quello di far diventare ricchi i figli ed i nipoti. Io me ne rido, delle ricchezze: non servono a niente. Anche la mia mamma è ricca, ma tiene nascosti i denari, e per aumentarli vive di cipolle e di croste di pane. Quando lei morrà, io e Bellina mia sorella saremo già vecchie e non potremo goderci la nostra fortuna. Ed allora è come essere poveri in canna. Quello che c’è di veramente bello, nel mondo, è l’amore: ma anch’esso spesse volte è come la ricchezza; non serve a niente. Quando Osca venne a cercarmi e mi propose di fuggire con lui se mia madre si opponeva al nostro matrimonio, ho creduto di trovare l’amore; ed avrei voluto che la mamma si opponesse, per dare al mio Osca una prova di passione. Invece a lei non parve vero, di mandarmi via di casa, per non mantenermi più a sue spese: ed il solo patto che mise fu di non sborsare un centesimo di dote. E così ci siamo sposati. Fin dalla prima notte sono stata disillusa, perchè l’amore, come lo intendono gli uomini, è una gran brutta e sporca roba. Poi vengono i figli. Si soffre, si ha voglia di vomitare, ed il parto è peggio della morte: poi bisogna allattare, e i figli te li porta via la suocera e tu non sei neppure padrona di tirarli su a modo tuo. E poi bisogna lavorare; tutti i santi giorni rifare i letti degli uomini, scopare, lavare, cucire: e quest’accidente di polenta tutte le sere, tutte le sere, tutte quante Dio ne ha create! Io odio queste cose; e per di più Osca mi fa arrabbiare con le sue storie di altre donne. Ma lo capisco anch’io. Lui è stufo di me come io sono stufa di lui. Trovarne un altro! Un altro che mi amasse davvero per l’anima mia e non per il mio corpo: un giovine alto e bello, coi capelli come ali di corvo e gli occhi neri profondi! Uscir fuori, la notte, quando tutti dormono e la luna illumina le strade; e trovarlo che da lungo tempo mi aspetta, e con le mani intrecciate andare lungo il fosso, all’ombra dei salici. Lui mi dice: — sei il mio tesoro, sei la mia vita, la mia adorata. La mia adorata!
Nel pensare qucst’ultima parola, della quale non capiva bene il significato, ma il cui suono interno le dava l’impressione come di una nota musicale intraducibile con un suono esterno, ella chiudeva gli occhi e si sentiva svenire.
Il passo della suocera la richiamò alla dura realtà. Balzò e cominciò a raschiare dall’asse della madia i rimasugli della polenta.
Fino ai primi di novembre il tempo aiutò i volonterosi contadini. Non pioveva, ma l’umidità della notte e quella dei fossi ancora colmi di acqua rendeva alquanto malleabile la terra: Osca seminò il frumento, mentre gli altri fratelli potavano i salici, traendone i pali nuovi per la vite, e pigiavano l’uva. Ne venne un vinetto chiaro ed aspro che pareva di bacche selvatiche, ma che appunto per questo destò nei giovani, quando per San Martino fu assaggiato, le più divertenti osservazioni. Per conto suo Bardo lo sputò, aprendo poi le braccia e reclinando la testa, con un viso di Cristo abbeverato d’aceto.
Coi residui della vendita dell’antica casa, Annalena comprò alcune anatre, due oche alte come struzzi, un maialino vivo e metà di un maiale morto. Fu confezionato il salame e preparato il lardo per l’inverno; e tutto, con l’aiuto di Dio, prometteva bene.
Ma fu un inverno eccezionale. Dal caldo ottobre si passò ad un rigidissimo novembre; tanto che le foglie non ingiallirono completamente, ma si staccarono, seccate dal freddo, e caddero nere ed accartocciate come dopo un incendio.
La terra si spaccava, gelata; e di gelare minacciavano anche le viti ed il grano. Il cielo, certe mattine, era verde, di una serenità crudele, e pareva si allontanasse dalla terra. Annalena lo guardava ogni tanto, spiando, come dopo una lunga siccità estiva, se qualche nuvola sbocciava all’orizzonte. Nulla. Veniva il vento, dal nord, e come un fiume di ghiaccio attraversava di continuo l’aria: invano il sole gli opponeva il suo splendore esasperato; anche il sole pareva si raffreddasse e si allontanasse sempre più dalla terra e dagli uomini.
Ed anche questi avevano un aspetto strano, di esuli, o meglio di profughi venuti contro loro volontà da un paese felice, e sofferenti per la nuova atmosfera e l’incertezza terribile del domani.
I fratelli Bilsini tentavano di proseguire i lavori cominciati, ma era una lotta impari, come contro la forza inesorabile della morte: e della morte le cose tutte avevano la rigidezza ed il gelo. Il primo a rientrare a casa fu Osca, con un dolore al fianco che atterrì le donne. La madre corse allora a richiamare gli altri; furono accatastati nell’atrio i pali vecchi tolti alle viti, e Giovanni ed i fratelli minori cominciarono a rifarne la punta marcia. Ogni tanto uno di loro si alzava, pestava i piedi e correva al focolare per scaldarsi la punta delle dita violacee.
Lo zio Dionisio sedeva davanti al camino, coi due bambini aggrappati alle ginocchia; e pareva invero l’immagine dell’inverno che cova la lontana primavera: ogni tanto scuoteva la grande barba, dove, quando egli usciva nell’ingresso, il fiato si gelava come la nebbia sulla siepe; e pensava che, se il tempo continuava così, era inutile anche rifare la punta ai pali, poichè la vite sarebbe morta.
— Ai miei tempi, — diceva, — queste cose non succedevano, poichè si provvedeva a seppellire la vite quando ancora la terra poteva smuoversi: adesso siamo diventati poltroni e imprevidenti: si aspetta sempre l’aiuto di Dio, ma Dio dice: chi si aiuta il ciel l’aiuta.
— Ufh, — sbuffò Bardo, soffiandosi sulle mani gonfie di geloni; — non basta crepare dal freddo, dobbiamo anche sorbirci le prediche.
Ma Giovanni, sempre pronto a schierarsi con lo zio, rincalzò con aria austera:
— Questo inverno era predetto fin dagli antichi tempi: le bestie selvatiche verranno fino alle case degli uomini e ci mangeranno vivi.
— Buon pro loro faccia, — disse il magro Baldino, — credo però che a masticar me facciano fatica.
— Ufh, basta con questi discorsi: sarebbe quasi meglio dire il rosario.
— Sarebbe meglio sicuro, — disse la madre, dall’uscio della cucina.
Solo nella cucina si stava bene; una fiammata alta sventolava nel camino le sue ali di oro rosso, come un uccello di fuoco al quale volavano e rinascevano continuamente le piume: i bambini, lasciato il vecchio, sedevano entrambi sul ceppo sotto la cappa, ed il colore dei loro capelli si confondeva con quello della fiamma. La loro madre gramolava la pasta per le tagliatelle e la nonna già friggeva il lardo per condirle. A completare il quadro non mancava il cane, che sonnecchiava sotto la tavola col gatto distesogli sopra con ammirabile amicizia.
Fin verso Natale il tempo continuò così.
Per fortuna il dottore dichiarò che il dolore al fianco di Osca era una semplice forma reumatica; la madre quindi respirò e ringraziò Dio. Finchè c’era la salute dei figli, tutto il resto si poteva vincere. Era la prima volta, però, ch’ella si rassegnava all’inclemenza delle stagioni; e Dio la premiò.
Venne una mattina il primo velo di nuvole; la scomparsa del sole, sebbene il freddo divenisse così intenso che quasi non lo si sentiva più, fu salutata come quella di un flagello.
Le nuvole si fecero basse, nere, e diedero alla terra un aspetto sinistro; ma con l’alzarsi del sole si alzavano anch’esse e s’imbiancavano; e gli occhi di tutti, anche quelli dei bambini dritti sullo scalino della finestra, si sollevavano lucidi di speranza.
— Verrà la neve. Finalmente verrà.
Verrà la neve, ed il suo coltrone bianco coprirà la vite ed il grano, salvandoli dalla loro lenta morte: salverà la vite ed il grano, il sangue e la carne della terra, i termini che ci uniscono a Dio.
Alla notte, però, le nuvole se ne andavano, furtive come ragazze che di nascosto si recassero al ballo: stelle mai vedute, di uno splendore quasi terribile, illuminavano il cielo di cristallo livido; poi all’alba, quando i rumori anche più lontani risonavano chiari e metallici, le nuvole tornavano, scure e cupe come le donne disilluse dal ballo.
Solo la sera della Vigilia esse rimasero alte e candide sul cielo.
— Questa notte viene certo. Viene.
Prima della neve, annunziatrice certo di lei, venne Pinòn il mendicante. Lui e Vica la gobba erano i soli mendicanti dei dintorni; ma mentre la donna, ladra e vagabonda, veniva scacciata dalle case, Pinon godeva la simpatia di tutti. Non che fosse un vecchio decaduto o un uomo saggio, chè anzi aveva fatto il mendicante fin da bambino, ed era mezzo scemo; ma, non si sapeva perchè, la sua presenza portava una certa allegria, e si diceva, anche fortuna.
Le famiglie quasi se lo contendevano; e sapendo di questa sua forza egli si distribuiva a turno, parcamente, contentandosi di poco. Quella sera, dunque, toccava ai Bilsini.
Quando Annalena andò ad aprirgli, ne sentì l’odore anche attraverso la serratura del portone; odore selvatico di uomo che vive a contatto con la terra e le bestie e considera le sue vesti come quelle il loro vello. Era infatti coperto di stracci, di pezzi di pelle, con le punte delle scarpe aperte come due grandi bocche dove le unghie dei piedi sporchi parevano denti di qualche bestia sconosciuta.
— Che hai fatto delle scarpe che ti ho dato l’altra settimana? — gli domandò severa la donna.
Egli le aveva vendute, per una bottiglia di lambrusco dolce, ma affermò recisamente che erano quelle che calzava.
— Si cammina, — disse, accennando una lunga strada con la mano fasciata di stracci.
Quando entrò nell’ingresso, i giovani lo circondarono, irridendolo ma senza cattiveria.
— Oh, chi si vede! Sembri Tom quando torna dalle sue scorribande primaverili.
E tutti risero; poichè Tom era il cane, che tutti gli anni, di maggio, spariva per tre o quattro giorni, in cerca di femmine, e poi tornava mogio mogio a casa.
Pinon sorrise beato; capiva il sottinteso, e nonchè offendersene gli pareva davvero di aversi, nei giorni precedenti, goduto l’amore di una bella donna. E perchè no?
Egli non era brutto, anzi il suo viso era bello, in un certo senso: scarno e bruno, con venature rosse, con gli occhi grandi, incavati, di uno splendore liquido indefinibile, come di acqua che riflette i colori esterni, rassomigliava perfettamente a quello del San Francesco della parrocchia. Ed era per questo, forse, che egli destava un senso di gioia intorno alla sua puzzante miseria.
Fingendo una tragica serietà, Bardo gli disse:
— Meriteresti di essere cacciato via a morire dal freddo, donnaiuolo vizioso che altro non sei; ma per questa volta ti perdoniamo. Passa.
Lo fecero entrare nella cucina, ed i bambini, un po’ spauriti, gli cedettero il posto del ceppo sotto la cappa del camino. Allora la sua figura campeggiò davvero, sullo sfondo del fuoco, come quella di un santo in una nicchia d’oro; ed a poco a poco, mentre si scaldava, egli ritrovò bene l’uso della lingua.
Era una lingua affilata. Egli parlava male di tutti, ma con la semplicità sciocca di chi dice la verità con perfetto disinteresse personale; ed era anche per questo che veniva accolto bene, specialmente dalle donne.
Le Bilsini, anzi, cominciarono a stuzzicarlo. Che si faceva dai Maresca? Era vero che la loro figlia maggiore era incinta senza neppure avere il fidanzato? Era vero il fallimento del negoziante Fantini? E come era andato lo scandalo dei fratelli Bosconi, che per ragioni d’interesse si erano accoltellati per strada?
Ma la storiella più divertente e boccaccesca fu quella di una moglie nascosta dentro un camino dal quale saltò fuori per sorprendere il marito ed una sua cara amica in intimo colloquio: e presa per i capelli la rivale la trasse nuda dal letto, riducendola poi, a furia di pugni e calci, in deplorevole stato.
Finita ogni narrazione il mendicante si fregava le mani, pareva per contentezza ma in realtà per scaldarsi meglio; poi diceva:
— Non importa: verrà una buona annata.
Più che i guai altrui, questa promessa interessava i giovani contadini, tanto più che a rinforzarla già le prime falde di neve si sbattevano ai vetri come farfalle attirate dal chiarore della cucina.
— Come sai che l’annata sarà buona?
— Lo sento qui, — egli disse, inspirato, toccandosi il petto.
— Ed io lo sento dal freddo ai piedi, — affermò senza ironia lo zio Dionisio. — È tempo di neve.
Annalena, pentita di aver provocato le maldicenze di Pinon, sospirò e si fece il segno della croce.
Subito i vetri furono appannati da un silenzioso strato di neve: i bambini saltarono sullo scalino della finestra e li toccarono coi ditini freddi: il maggiore si mise la mano in bocca e gridò!
— Com’è buona questa neve!
E la speranza riempì d’azzurro e d’oro gli occhi di tutti.
Per queste ragioni Pinòn fu invitato a cena; non solo, ma gli fu offerto il posto che alla mensa dei Bilsini non mancava mai per qualsiasi improvviso ospite.
Egli però sapeva stare al suo posto, e dichiarò che non si sarebbe mosso dal ceppo: cosa che non andava per niente a garbo alla Gina, poichè la presenza di lui, il suo odore che il calore del fuoco sviluppava
meglio, e sopratutto la paura che egli lasciasse per suo ricordo qualche pidocchio, la disturbavano nelle sue faccende di cuciniera.
Quella sera, poi, naturalmente, ella aveva da fare più del solito. Le condizioni economiche famigliari erano molto modeste, povere quasi, ma il Santo Natale doveva festeggiarsi egualmente: ella, inoltre, preparava i cibi con abbondanza perchè restasse qualche avanzo, da lasciarsi sulla tavola apparecchiata, per i morti che nella notte della vigilia tornano nelle case dove vissero.
Su questo punto i giovani, ed anche lo zio Dionisio, cominciarono a scherzare.
— Vediamo un po’; chi deve tornare, qui, stanotte? I nostri nonni, con quelle buone lane dei loro fratelli, od i morti che vissero in questa bicocca?
— Ma torneranno tutti assieme, e Dio sa che gazzarra faranno.
— Si potrebbe sapere, zio Nisio, se la vostra famosa Betta è viva o morta?
— È morta, è morta: il diavolo se l’è portata via.
— Allora verrà anche lei, e Dio sa che patatrac succede.
Intervenne Annalena, col viso corrucciato.
— Non si scherza, sui morti: altrimenti i morti si vendicano. È meglio dire un requiem per loro. Su, tutti in piedi. Requiem aeternam, dona eis, Domine....
E, così, la lieta cena di Natale fu iniziata con la preghiera per i morti. Bardo solo non rispondeva, con le labbra sottili serrate ad un enigmatico sorriso. Sapeva ben lui chi erano i morti che dovevano tornare, ma si guardava bene dal dirlo.
Intanto Gina scodellava la minestra, tirando su col mestolino di ferro le lunghe tagliatelle sottili come capelli biondi. La prima scodella fu per Pinòn; egli la prese fra le mani come un vaso sacro, e cominciò a mangiare lentamente, avvolgendo le tagliatelle nella forchetta, come usa la gente civile.
Anche lo zio Dionisio mangiava con lentezza, servendosi della mano sinistra; e chiudeva gli occhi per non vedere i nipoti, comprese le donne, bere in vino, vale a dire mangiare un po’ della minestra dentro le tazze colme di vino spumante.
Solo Giovanni si privava di questo piacere, per fargli compagnia nella sventura, ma anche perchè l’esempio dello zio, che per aver bevuto troppo, adesso non poteva più bere, lo frenava nel naturale istinto di famiglia.
Gina, al contrario, che al solito non sedeva a tavola, profittò della prima allegria generale, per riempire due volte la sua tazza di vino: subito anche lei si fece allegra, e mentre sulla madia spezzava con le forbici da potare un grosso cefalo bollito e ne piluccava di nascosto le parti migliori, le parve di sentire, nel grande silenzio di fuori, il rumore di una carrozza.
Qualcuno doveva arrivare. Chi? L’amante ideale atteso da lei, o qualche altro personaggio misterioso ed importante? Già la gente, nei giorni scorsi, forse per confortarsi del grande freddo e della miseria imminente, diceva che un nuovo Messia, apportatore di pace e di amore, doveva essere generato quella notte di Natale.
Ed ella ci credeva, e viveva nell’attesa di un avvenimento grandioso, dal quale anche la sua anima inquieta doveva essere presa e pacificata.
Servì a tavola il cefalo, con una salsa verde da lei già preparata che odorava d’orto e di estate: tutti, rallegrati dal buon cibo, le fecero i complimenti; e quando passò dalla parte dove stava Osca coi bambini, ella si sentì presa per la sottana e fermata a forza. Era il marito che la teneva così, scherzoso ma anche eccitato; tuttavia ella trasalì dal profondo delle viscere, fra spaventata e lusingata, come fosse uno sconosciuto a ghermirla per possederla con passione violenta.
— Oh, moglie, — disse lui, sollevando il viso acceso verso il pallido viso di lei, — lo sai che questa notte deve essere generato il nuovo Messia? Non si potrebbe farlo noi?
Ella si riebbe, ruvidamente, scuotendosi tutta come una lepre acchiappata dalla tagliuola.
— Ma va a farti benedire, — gridò, e andò a servire il cefalo a Pinon.
Occupato ancora con la sua benefica minestra, Pinòn si sporse a guardare con diffidenza la nuova pietanza, e con la forchetta fece segno di no. No, non ne voleva.
E poichè la donna ritirava rapida il piatto, come per far presto a impedirgli il contatto con lui, egli sollevò gli occhi e fissò il viso corrucciato ed i torbidi occhi di lei. Allora ella ebbe un senso di allucinazione: le parve cioè che Pinòn le facesse un cenno di riavvicinarsi, di piegarsi sulla bocca di lui, dalla quale uscì, con appena un soffio, una sola parola!
— Verrà.
Verrà. Chi? Il nuovo Messia, o l’amante misterioso da lei aspettato? Un vago spavento la prese. Le sembrò che il suo segreto fosse noto a Pinòn, e che egli potesse, ovunque andava, spanderlo col suo cattivo odore e la sua lingua maledica. Ed ebbe paura di lui, paura di sè stessa, di tutti, ma per la prima volta ebbe anche la coscienza che il peccato covava in lei, e si propose di sorvegliarsi.
— Sì, caro, — disse, sollevandosi come una verga ripiegata, e sfidando con gli occhi gli occhi del mendicante: — ti verrà un accidente.
Egli non capiva; tuttavia sollevò la forchetta con un gesto religioso e la sua parve a Gina una risposta a proposito.
— Male non fare, paura non avere.
Eppure ella continuava a sentire un rumore di veicolo che correva inseguito dalla neve come da una torma di ermellini. E mentre distribuiva a tavola le noci, fra lo scricchiolare selvaggio dei loro gusci spezzati coi denti e coi pugni dai giovani cognati, non si meravigliò di sentire uno squillo di sonagli che pareva si sbattesse contro il portone.
— Chi può essere?
Tutti, in fondo, aspettavano sempre qualcuno, per lo meno un ospite che portasse notizie del mondo lontano; e con esse un po’ di nuova vita; nessuno però volle muoversi: la madre perchè non sperava fosse il figlio, Gina perchè continuava ad aver paura dell’uomo da lei misteriosamente atteso, gli altri per timore di pigliarsi, accaldati com’erano, un buon raffreddore.
— Vado io, — propose Primo, spavaldo e pieno di terrore assieme: e Secondo rincalzò:
— Vengo pure io.
L’idea di attraversare l’aia già coperta di un buon strato di neve, dava loro il coraggio e la curiosità paurosa di un esploratore che vuole arrivare al polo nord camminando sui ghiacci galleggianti: ma la nonna li rimise a posto.
— Per piacere, Pinòn, va tu, che sei abituato alla tramontana.
— Pronti.
— Prima di aprire domanda chi è.
Egli si dirigeva già verso l’atrio, e il cane con lui. Lo zio Dionisio osservò:
— Devono essere amici perchè Tom non abbaia.
Nel sentire il suo nome, il cane rivolse la testa, guardò il vecchio coi suoi buoni occhi, e scosse la coda come un indice che significasse: sì, sì.
Adesso si sentiva battere forte al portone, ed il cuore di Gina palpitava come se i colpi le arrivassero al petto: nel silenzio improvviso, gli oggetti sulla tavola, i mobili, la fiamma nel camino, parvero divenuti loro i personaggi della scena. Più vivido dunque fu, come un subito rossore in un viso smorto, l'irrompere nella stanza di una piccola ragazza bionda avvolta in uno scialle rosso. Ella agitava in alto con la mano destra il trofeo selvaggio d’una coppia di polli vivi dai colori raggianti, mentre la sua spalla sinistra si piegava sul braccio che sosteneva un cestino colmo di viveri. Il suo modo di vestire, leggero, le scarpette lucide scollate sulle calze color carne che rivestivano di una seconda pelle le gambe affusolate, completavano l’illusione che con lei fosse già arrivata la primavera.
— Bellina! — gridò Gina quasi con angoscia — Ma sei tu, sei proprio tu?
E le si precipitò addosso, la coprì tutta con la sua grande persona nera, la strinse assieme coi polli, col cestino, con lo scialle, le tempestò il viso ed il collo di baci appassionati.
— Be’, adesso basta: mi schiacci le uova che ho nelle tasche, — disse la ragazza, schermendosi quasi con ripugnanza.
— Come diavolo sei qui? — domandò lo zio Dionisio, guardandola da capo a piedi, davanti e di dietro, come per assicurarsi ch’era lei in persona. Anche gli altri, rivolti sulle loro sedie, la guardavano fra curiosi, stupiti e un tantino beffardi: ella sosteneva gli sguardi di tutti, sfidandoli coi suoi occhi turchini, piccoli ma di una luce quasi insostenibile. Il suo viso rotondo, con la bocca sensuale che pareva tinta, il naso all’insù ed una profonda fossetta al mento, era così roseo e sfavillante di gioia e di salute che gli altri visi, compresi quelli dei bambini, apparivano improvvisamente scialbi.
— Sì, sono proprio io, — disse avanzandosi e sbattendo lievemente i polli contro la spalla dello zio Dionisio, — la figlia del diavolo in persona, Isabella Mantovani.
Sbirciata la roba che Isabella portava in dono, anche Annalena si alzò e abbracciò forte la ragazza: questa però non corrispose a tanta espansione; i suoi sguardi, piuttosto, andavano con simpatia ai giovani e si fermarono sui bambini che a loro volta la fissavano come incantati: e, dopo aver lasciato in mano ad Annalena i doni, ella corse ad abbracciarli e baciarli, con una esplosione tempestosa di affetto e di ammirazione. A loro volta essi balzarono dalle sedie e si attaccarono a lei contendendosela come il ceppo del camino, mentre Gina, quasi riavendosi da uno stordimento, gridava sdegnata!
— Bellina, ma perchè ti sei tolta il lutto?
La ragazza rispose qualche cosa; nessuno però la sentì, perchè un avvenimento straordinario mise subito in ombra ed in oblio l’arrivo di lei.
Un soldato alto, con la mantellina grigia umida di neve, il viso bruno gonfiato e colorito dall’alto bavero cremisi della divisa, era apparso sull’uscio: lì si fermò, militarmente, portando la mano alla fronte.
Un rumore come di sommossa risonò nella stanza: tutti furono in piedi, gridando, ridendo, sibilando: qualche sedia cadde, i polli per terra starnazzarono: la madre sola non parlava, quasi atterrita dalla subita apparizione: depose tuttavia con cura il cestino sopra la madia, e aspettò che Pietro, la parte che le mancava dall’anima, si ricongiungesse a lei con un bacio. Quando furono di nuovo tutti a tavola e Pinòn ebbe pure lui ripreso il suo posto, Pietro raccontò con la sua voce risonante com’era andata la faccenda.
— Quando sono sceso dal treno ho pensato: poichè sono sulla via delle sorprese cominciamo qui, dalla Mamma Mantovani. Chi sa che quell’avaraccia non mi dia almeno un bicchiere d’acqua con una goccia di caffè! Perchè nonostante il freddo avevo una sete terribile e non volevo farmi vedere all’osteria. Ecco arrivo davanti alla casa nuova dei Mantovani: buio perfetto, come ci fossero già i morti; e neppure quelli, poichè certo non trovano nulla sulla tavola. Oh, ragazze, — disse a questo punto, rivolgendosi prima alla Gina che pensierosa si appoggiava alle spalle della suocera, poi ad Isabella, che, coi bambini stretti al suo fianco, lo guardava con occhi ridenti, ascoltando la storia come le fosse nuova; — non vi offenderete se parlo così della vostra venerabile genitrice. (Il riso squillante di Isabella rispose per entrambe.) Dunque, picchio alla porta. Nulla. Passo dietro la casa e busso alla finestra della cucina. Nulla. Finalmente una finestra in alto si illumina, e la voce di questa birbona qui presente risponde. Ma pare venire dal mondo della luna, sebbene la luna questa notte sia andata a far Natale in casa dell’orco. Chi è? Sono io. Chi, tu? Amici. Che amici? Ma va a farti fotografare, sono io, Pietro Bilsini del fu Luigi Bilsini, fratello di Osca tuo cognato. Lei si mise a ridere; poi parlamentò con qualcuno, dentro, finalmente scese di corsa, in ciabatte, ed aprì tutti e due i battenti della porta come dovesse entrare il prete con l’olio santo, l’ombrello ed il chierico. Mia madre sta male, dice, ma il suo viso smentisce la cattiva notizia. Io faccio: fingerà di star male per non spendere nella cena del Santo Natale. E lei ride, ride, fino a piegarsi e battersi le ginocchia con le mani aperte. — Senti, mi dice poi, facciamo una cosa: diciamo alla mamma che tu vieni da casa tua per invitarmi a passare la notte con voi. Lo facciamo davvero? — Io salgo dunque nella camera dove la mamma Mantovani se ne sta tutta accucciata davanti al camino, e mi accorgo ch’ella si allarma subito per la mia presenza.
— Ho l’influenza, — mi annunzia subito, con una tosse forzata — Brutti tempi, figlio mio; brutti assai. E il mio povero marito che non c’è più! Triste Natale.
— Lasciate correre, mamma Mantovani: sono venuto per invitarvi, voi e la vostra Isabella, a venire da noi, appunto per passare assieme il Santo Natale. Ho giù la carrozza.
I suoi occhi si rianimano.
— Come posso lasciare la casa sola, figlio bello? Però, se Isabella vuol venire.... Tu sei un bravo giovane, eh?
— Sicuro che sono un bravo giovane, e Bellina è come una mia sorella. Ed al ritorno vi porteremo qualche regalo di mia madre.
— Bravo, bravo, come sta Annalena?
— Sta meglio del papa. — E mentre noi si chiacchierava, Isabella faceva saccheggio in casa. La sentivo muoversi e ridere da sola: poi sturò una bottiglia e costrinse anche la madre a bere.
— Vi farà passare il raffreddore.
Così ottenne il permesso di restare qualche giorno con noi. La nostra intenzione era di venircene a piedi; ma poichè cominciava a nevicare, io mi sono fatto prestare la carrozza ed il cavallo di Urbano Giannini.
Quest’ultimo particolare interessò più che tutto il resto della storia. Annalena e lo zio Dionisio domandarono:
— Come? Come?
— Sì, ho picchiato da Urbano e, senza dirgli con chi ero, gli ho domandato la carrozza ed il cavallo. E lui me li ha prestati fino a domani.
— Tu non sei entrato da lui?
— Sono entrato fino alla rimessa. Lui veramente m’invitava in casa, perchè là dentro la festa si faceva, sì, e tutto era illuminato, sebbene la moglie di lui sia ammalata davvero: io però non ho accettato. Isabella mi aspettava nella strada.
— Non ti disse come sta la moglie?
— La moglie sta sempre lo stesso: ha cento malanni, ma è lei che crede di averli: il suo vero male è al cervello.
— E la figlia?
Le domande non finivano mai; poichè questo Urbano Giannini era per la famiglia Bilsini un personaggio importantissimo: era il ricco fabbricante di scope che aveva loro affittato la casa e la terra; il padrone, insomma.
Dopo, Pietro s’informò come erano le ragazze del paese, se si lasciavano corteggiare, se si ballava spesso: e per conto suo riferì molte piacevoli storielle, sulla vita militare in genere, e sul suo modo speciale di vivere nella città.
— Io ci sto come in casa mia, — disse, slacciandosi il cinturino dopo aver mangiato a crepapelle, e fumando sigarette una dopo l’altra. — Sono io il padrone, in casa del mio capitano, quando lui è fuori; mi siedo in poltrona e leggo i suoi libri. Libri belli, con tante figure. Ho letto anche la storia dei serpenti e dei coccodrilli. I coccodrilli non mangiano mai l’uomo morto. Lo vogliono vivo, bello fresco, quei golosacci. Una volta un negro che attraversava a nuoto un fiume si vide inseguito da un coccodrillo. Non era certo una bella prospettiva. Allora il negro si finge morto. La bestia lo afferra e lo porta in una specie di grotta di sabbia, sotto la riva del fiume: e non lo perde d’occhio un istante. Per due giorni e due notti il negro finge sempre di essere morto, o avrebbe finito per morire di fame davvero se il caso non avesse fatto passare lungo la riva un carro tirato da due buoi. Uno di questi sfonda con una zampa la volta della grotta. Il negro vede la zampa e con uno slancio disperato vi si attacca: il bue lo tira su, e così il disgraziato si salva. Oh, Gina, che hai? Che ti prende?
Gina s’era fatta bianca in viso e si passava una mano sulla fronte, come si sentisse venir meno, tanto la storia la turbava. Tutti si volsero a lei e cominciarono a canzonarla: solo il narratore la guardò con curiosità pietosa, come se in lei vedesse un essere assolutamente sconosciuto e infinitamente debole. Ella sentì quello sguardo e gli andò incontro coi suoi occhi supplichevoli. Un attimo, e lo scontro delle loro pupille fu come quello di due astri che turba tutta l’armonia del firmamento.
Completamente al di fuori della sua volontà ella pensò: è lui quello che aspetto.
E Pietro, con piena volontà, sebbene senza coscienza, nel fremito improvviso del suo sangue prepotente, pensò che Gina era la donna come lui la desiderava, al di fuori di ogni legge divina ed umana.
I suoi occhi, quindi, bruni e dolci, cerchiati di azzurro, presero un colore strano, verdognolo, come riflettessero le luci liquide ed arboree di un fiume misterioso. Forse, a sua insaputa, gli tornava in mente il coccodrillo che insegue l’uomo fintosi morto.
La preda era Gina.
E durante il resto della sera ella davvero, pure fuggendo lo sguardo di lui che ogni tanto la cercava e le investiva tutta la persona, si sentiva come quel corpo in apparenza morto, e provava tutto il terrore dell'inseguimento fatale, ma con la speranza e la ferma volontà di salvarsi.
Per ospitare degnamente Isabella le fu assegnata la camera ancora disponibile della casa, e Pietro andò a dormire sul canapè della saletta, che era la stanza dove si ricevevano le visite di riguardo e si pranzava nelle grandi occasioni.
I mobili lucidati col petrolio vi parevano nuovi; la mensola del camino, con su due lampadari accesi, tutta adorna di cartoline illustrate, di conchiglie, di vasetti argentati, con fiori di carta punteggiati dai ricordi delle mosche, rassomigliava agli altarini dei
tabernacoli campestri: ma se tutto questo metteva soggezione, in compenso sullo scalino sotto la finestra, due solide alte e piene ruote nere, che facevano pensare a qualche veicolo dei beati tempi di Bengodi, spandevano un buon odore famigliare: erano due preziosissime forme di cacio parmigiano.
Del resto Pietro dichiarò che avrebbe volentieri dormito anche nella cucina calda e ancor più odorosa di cose buone: ma la cucina quella notte doveva rimanere deserta, con la tavola apparecchiata e provvista di vivande, per i poveri morti.
Essi, non entrano volentieri dove ci sono i vivi, anche per non spaventarli: la madre, quindi, raccomandò a Pietro di non socchiudere neppure l’uscio della saletta, che dava sull'ingresso, per non disturbare gli ospiti sacri.
Lei stessa preparò il lettuccio, distendendo un materasso sul canapè, e buone coperte di lana sulle lenzuola riscaldate: e avrebbe desiderato portarselo nel suo letto come da bambino, il suo Pietro che adesso era un soldataccio alto e grosso come quelli di bronzo dei monumenti ai caduti di guerra; o almeno restar sola con lui e parlare di tante cose; ma gli altri fratelli entravano ed uscivano, tutti mezzo brilli dopo l’allegra cena; e lui stesso non le dava retta; piuttosto sbadigliava a lungo, per le confidenze di lei, e nello spogliarsi chiudeva gli occhi e barcollava, quasi dovesse, una volta uscito dall’impalcatura del suo vestito guerriero, cadere a terra addormentato.
— Neppure se, invece di aver fatto l’attendente lavascodelle al tuo capitano, fossi tornato dalle trincee, dopo lunghe battaglie. — disse Bardo.
Ma Pietro non sopportava atteggiamenti ironici. Si sollevò terribile, sebbene in camicia, con una scarpa in mano:
— Se non la smetti, Smortìn, ti faccio colorire il viso con quest’arma qui. La vedi?
Scherzava, senza dubbio: ad ogni buon fine Bardo si allontanò di qualche passo, poichè la scarpa era quella mastodontica dei militari. Tuttavia, uscita finalmente di camera quella noiosa della madre, il fratello giovane sedette accanto al canapè dove Pietro si era beatamente steso fra le lenzuola e le coperte via via animate dal suo calore, e cominciò a sua volta a confidarsi.
Egli parlava poco, in famiglia, perchè sapeva di essere incompreso. Solo con Baldo, che era sensuale ma innocente come il cane ed il gatto, a volte si confidava: erano però confidenze che non lo lasciavano contento, perchè quasi fisiche, fatte di giuochi, di mezze parole, di sberleffi e di carezze, come appunto quelle che si fanno fra di loro le bestie giovani e in amore.
Con Pietro, invece, poteva finalmente parlare, da uomo ad uomo: quindi entrò subito in argomento:
— Oh, non credere che le belle donne siano solo per te. Ne ho una pure io, e fatta di ciccia e di ossa, e non di fantasia come le tue.
— Smortin! — minacciò Pietro di sotto le lenzuola; ma la sua voce era già dolce di sonno, lontana dalla realtà. Eppure egli si rianimò di curiosità quando Bardo pronunziò, assaporandolo con un gusto goloso e carnale, il nome della donna!
— È Piera Maresca.
Anche Pietro si succhiò le labbra.
— Tu non la conosci, — proseguì Bardo, serio e quasi triste. — L’ho incontrata la prima volta quando si veniva qui, sul ponte di chiatte: le si era sgonfiata la bicicletta e mi chiese la pompa della mia. Dopo ci siamo riveduti. È alta come te, con tanti capelli d’oro, la bocca che brucia, e un collo bellissimo. Peccato che sia così mal vestita. Sono povera gente, si capisce. Qualche volta, se il padre non va a pescare, rimangono senza cena.
— Peggio per loro. Vuol dire che sono poltroni e imbecilli.
— Eh, no, Pietro, — proseguì Bardo, dal cui viso era sparita la solita espressione ironica, per dar posto ad un’aria stranamente desolata. — Si nasce, poveri, e per quanto si faccia si rimane poveri. Questa è la sorte dei Maresca. Un mucchio di sventure li ha sempre schiacciati. Due figli morti in guerra, la figlia maggiore sedotta e abbandonata, la madre quasi cieca per i dispiaceri, lui che non ha mai fortuna nel suo lavoro. Anche lei, Piera, nonostante la sua bellezza, non è sana. D’inverno ha sempre la tosse, e mi fa tanta pena. Non è buona a lavorare d’altro che di ricami e trine. Ha provato a fare le scope ma il pulviscolo della saggina e delle piume le fa male ai polmoni.
Pietro cacciò fuori dalle lenzuola il suo testone rotondo, nero e rosso; aveva gli occhi pieni di sonno e di noia. Disse:
— Ebbene, ho capito, è un impiastro. Nostra madre non vorrà certo sentirne parlare. E tu, fammi il piacere, lasciami dormire, adesso.
Ma adesso che aveva cominciato, il fratello non intendeva di smetterla: gli piaceva, nel grande silenzio della saletta contro la cui finestra si ammucchiava la neve, sentire il suono lamentoso delle sue parole: e poichè Pietro non lo intendeva e non lo compassionava, era a sè stesso che cantava la sua geremiade.
— Oh, certo, Piera non è ragazza che possa venire qui a faticare; e d’altronde io non ho mezzi per mantenerla come le si conviene. E poi toccherà pure a me di fare il militare e lei non mi aspetterà. Quindi il nostro amore è disperato. Eppure ci vogliamo bene. Ma proprio bene, sai, Pietro, come tu e le tue amiche non ve ne vorrete mai.
— E a che punto siamo?
— A quale punto vuoi dire?
— Eh, dico, siete già amanti?
Bardo arrossì ferocemente, facendo atto di buttarsi sul fratello.
— Adesso che sei a letto posso dartele anch’io, — disse, sottovoce, minaccioso sul serio. — Non voglio che tu insulti Piera. Se vuoi sentirla, se vuoi proprio saperlo, ancora io non l’ho baciata.
Pietro tacque, come sbalordito e pauroso; in realtà pensava al mistero della cosa incredibile detta dal fratello: due innamorati che non si baciano; e tutto trionfante, trovata la soluzione, disse:
— Sfido, lei è scottata dall’esempio della sorella!
Poi, mentre Bardo continuava, fece come i bambini, su, nel letto materno, quando la nonna recitava per conto loro le preghiere: si addormentò.
Allora Bardo ritornò nell’ingresso e si tolse le scarpe. Tutti si erano ritirati: in cucina le donne avevano coperto il fuoco, ma non tanto che dal mucchio di cenere non scaturisse un po’ di calore; un po’ di calore per i poveri morti; e bastò che Bardo, accostandosi tastoni al camino, vi frugasse con la punta di un fuscello perchè la fiamma dei tizzi resuscitasse d’un tratto, lunga e violacea come un fuoco fatuo. La stanza s’illuminò di una luce fantastica, col pavimento chiaro e le ombre dei mobili in su, lunghe fino al soffitto dove si accatastavano come se l’ambiente tutto si fosse capovolto.
Il cane, sotto la tavola, si alzò, rovesciando il gatto coricatogli sopra; Bardo gli accennò di accucciarsi ancora; l’animale fece un giro su sè stesso, si arrotolò di nuovo, di nuovo il gatto gli fu sopra.
Tutto intorno era ancora in disordine, come vi fosse passato un esercito: e del soldato, infatti, si sentiva quella speciale puzza di cuoio, di metallo, di sudore, lasciatavi da Pietro e diffusa dalla sua mantellina tesa ad asciugare, come un grande uccello verdastro, da una parte del camino.
Bardo sentì improvvisamente disgusto di quell’odore, che gli parve profanasse la stanza; o era un senso di rancore contro il fratello che, così lontano e diverso da lui, aveva accolto in modo barbaro le sue confidenze d’amore. Ma era anche un istinto di rimorso che si traduceva in disgusto fisico; poichè egli aveva la coscienza di essere lui a profanare, con quello che stava per fare, le tradizioni domestiche e soprattutto la religione dei morti. Tanto più che, per festeggiare l’arrivo di Pietro, sulla mensa era stata lasciata maggior provvista di viveri; il bianco pane lievemente dorato, il burro puro, il salame carnoso e tenero, le noci già spezzate, il formaggio giallo odoroso.
Egli s’era provvisto di una di quelle sporte flessibili, a due anse, che possono gonfiarsi come ventri di atleti: in fondo vi coricò una bottiglia, poi la ritolse; perchè i morti non bevono vino e non portano via nulla degli oggetti della mensa. Come potrebbero farlo se non hanno mani?
— Non dovrebero allora toccare neppure il resto, — pensava Bardo; e gli pareva di vedere il suo viso, con la bocca sottile dove serpeggiava il solito sorriso misto di scherno e di tristezza. E pure le sue mani egli vedeva, e gli sembravano, nel prendere la roba dalla tavola e metterla nella sporta, quelle incorporee dei morti.
Quando il cestino fu colmo, egli lo scosse, per aggiustare meglio la roba; vi guardò dentro con compiacenza e vide che c’era ancora un angolino vuoto. Allora ricordò di aver promesso a Piera un vasetto di marmellata di pesche. La marmellata non c’era, a tavola, stava però nell’armadietto d’angolo, e quando egli lo aprì, i barattoli, dentro, le bottiglie dell’olio e dell’aceto, i diversi recipienti collocati sulle mensole, ebbero, al riflesso della fiamma d’improvviso balzata curiosa nel camino, un sorriso di malizia.
— Beh, — pensò Bardo, prendendo il vasetto coperto dalla carta cerata legata con lo spago, — poichè i morti non possono più rubare, questo qui, se la mamma se ne accorge, dirò che l’ho preso proprio io.
Tutto era eccezionale nelle stagioni di quell’anno. La nevicata, quindi, fu lunga, intensa, e sarebbe stata dannosa per il tetto della casa Bilsini, se i giovani volonterosi non vi si fossero arrampicati, liberandolo dal grave peso.
Le strade intorno erano ostruite, e Bardo dovette tenersi il suo cestino nascosto nel pagliaio. Anche Pinòn fu bloccato dalla neve nella casa ospitale, e si rese utile con l’aiutare le donne a spaccare legna ed attingere acqua dal pozzo.
L’ingresso era diventato una vera pozzanghera, nella quale i bambini guazzavano con piacere: all’aprirsi della porta, ogni volta che qualcuno entrava od usciva, appariva nel vano come una tenda bianca ricamata e ondeggiante; anche la luce era candida, fredda, quasi lunare, e nel silenzio le voci degli uomini vibravano come anch’esse cristallizzate dal gelo. Quelli che pensavano a godersela, in casa, erano il cane ed il gatto sempre uno addosso all’altro o avvolticchiati nei loro giuochi innocenti, il merlo che dalla sua gabbia attaccata sopra il camino, illudendosi che il tepore fosse quello della primavera, mandava qualche fischio di allegria, e Pietro.
Pietro aveva solo cinque giorni di licenza, e non intendeva sprecarseli lavorando. La sua sola preoccupazione era per il cavallo e la carrozza di Urbano Giannini; il Giannini però non stava poi in America, e doveva ben capire l’impossibilità di riavere il suo veicolo del quale, con quel maltempo generale, non poteva certo servirsi.
In compenso, Pietro pensava di dare da mangiar bene al cavallo, e compiuto questo dovere, tornava in cucina, a mangiare a sua volta ed a scherzare con le donne.
Le donne erano il suo elemento naturale: gli piacevano tutte, anche la madre, in senso certamente diverso dalle altre: gli pareva ch’ella spandesse un caldo effluvio attorno, di salute, di benessere fisico e morale; mentre, per esempio, lo zio Dionisio, sebbene lo indispettisse con le sue continue sentenze ed una certa sua vigilanza sorniona, per lui già odorava di morte.
E lui, Pietro, amava la vita con tutti i suoi sensi, a cominciare da quello della gola a finire con quello del tatto: palpava e odorava le cose che toccava, e tutto, anche la polenta calda, anche lo scialle di Bellina, lutto gli procurava un piacere sensuale.
Il terzo giorno dopo Natale, il vecchio cominciò a starnutire e tossire; gli dolevano tutte le giunture, anche quelle della parte paralizzata: e fu parere universale di mandarlo a letto. Allora Pietro, accorgendosi che lo zio nicchiava e lo guardava brutto, quasi fosse lui la causa del suo raffreddore, lo prese per il braccio e lo costrinse ad alzarsi.
— Andiamo, zio, vi terrò compagnia io: vi leggerò un libro che vi farà ridere a crepapelle.
Così lo accompagnò su, nella camera dove la finestra, in parte ostruita dalla neve, sembrava una lapide rosicchiata dal tempo: una tristezza mortale vi regnava; e per la prima volta in vita sua Pietro pensò con terrore che tutti si diventa vecchi, malati, e che si deve morire.
Per sollevarsi da questa melanconica idea, accese il fuoco nel camino della stanza e cominciò a leggere uno di quei romanzi a puntate che arrivano anche nelle case dei contadini: non era da ridere, però, come egli aveva promesso al vecchio; anzi era un racconto tragico, di amore e di morte.
Una grande dama maritata, presa da folle passione per un giovane bello e povero, aveva segreti convegni con lui: entrambi si abbandonavano alle più ardenti manifestazioni d’amore; e come nella storia di Isotta la bionda, il luogo era un giardino, con alberi favolosi e giacigli di fiori. Lo zio Dionisio, che oltre il resto era anche mezzo sordo, sepolto fino alla testa dalle pesanti coperte, sentiva solo la voce cadenzata del giovane, e bastava questo suono per confortarlo e rassicurarlo: Pietro quindi leggeva per conto suo; la musica delle sue parole, quando egli ripeteva le frasi appassionate dei due amanti, gli dava un senso di gioia e di spasimo assieme.
La puntata del romanzo era gualcita, resa molle e tormentata da altre mani di lettori precedenti: forse anche Gina aveva letto e ripetuto fra di sè le parole d’amore.... Ed ecco che la fantasia di Pietro lo trasportava di là dalla casa tetra, dai campi di neve, nel giardino voluttuoso degli amanti: l’uomo era lui, la donna era Gina. Per un attimo, in un sussulto della sua coscienza, tentò di sostituirla con Isabella; ma subito scartò la ragazza: troppo acerba ed infantile, sebbene maliziosa, non gli piaceva del tutto: non aveva il colore del frutto proibito: inoltre egli aveva promesso alla madre di lei di trattarla come una sorella, e intendeva mantenere la parola.
D’altra parte, da tre giorni era lì, chiuso come una belva, affamato di piacere come il lupo di carne in tempo di neve. E come il lupo, sentiva l’odore del corpo vivo della cognata e l’attrazione misteriosa dell’ardore nascosto di lei: ora per ora, quindi, le si avvicinava, aspettando, senza volerlo, quasi senza saperlo, il momento opportuno per ghermirla. Quando il racconto prese un tono triste, poichè la dama, divenuta incinta, convinse la sua cameriera a fingere di esserlo lei, per affidarle a suo tempo la creatura, egli lo abbandonò: non lo interessava più.
Il vecchio si era assopito; a vegliarlo venne su Annalena, con la sua calza turchina ed il gomitolo sotto l’ascella: e Pietro tornò giù, a passi lenti, col viso del ladro. Era un altro uomo, un nemico della casa e della famiglia
Le circostanze parevano aiutarlo maleficamente. Poichè non fioccava più, e l’aria s’era alquanto raddolcita, i fratelli, con una specie di macchina di assi costruita da loro, spazzavano la neve: già nell’aia si vedeva come un sentiero scuro che usciva dal portone aperto e proseguiva fuori nella strada. Isabella ed i bambini si divertivano a seguire il lavoro dei tre pionieri, che, rivestite le gambe di vecchi stivaloni, erano loro, più che la macchina, a pestare ed a scavare la neve.
Si sentivano, nella sera bigia lievemente colorita di una lontana promessa di serenità, le loro grida d’incitamento e di gioia: parevano quei gridi caratteristici delle sere di carnevale, quando le maschere ballano, e la danza, i suoni, i canti, non sono altro che giuochi d’amore.
Gina era sola nella cucina e aveva già messo sulla fiamma il paiuolo con l’acqua per la polenta: quando Pietro entrò silenzioso, ella stava davanti alla madia e gli volgeva le spalle; eppure sentì lo sguardo di lui coprirla come un mantello soffice e caldo; ed arrossì, anzi le parve di diventare tutta rossa, dai piedi al seno, dalle mani alla fronte.
S’egli si fosse avvicinato con dolcezza, dicendole parole di passione, quelle parole magiche lette pure da lei nel libro degli amanti e ch’ella sapeva a memoria e ripeteva fra di sè come un motivo quasi di musica religiosa, gli sarebbe caduta fra le braccia già svenuta d’amore.
Egli invece non ricordava più le parole di sole e di profumo che gli amanti gemevano nel giardino incantato: ricordava solo come quei due si baciavano e si possedevano, e non voleva perdere tempo in vane chiacchiere. Aveva paura, inoltre, di essere sorpreso dalla madre e dai fratelli: disse quindi con astuzia:
— Gina, lo stare su in quella Siberia in compagnia dello zio mi ha fatto venir freddo. Non hai qualche cosa di caldo da darmi?
— Un po’ di caffè? — disse lei smarrita.
— Sì, se ce l’hai pronto. Anzi, portamelo di là, nella saletta: voglio un po’ riposarmi.
La sua voce era calma, anzi un po’ assonnata: e Gina, che non osava guardarlo in viso, aveva vergogna dei suoi pensieri e del suo desiderio colpevole. No, Pietro non pensava a lei; e lei se ne sentiva, pure vergognandosene, profondamente infelice.
Versò il caffè dalla grande nella piccola cuccuma annerita dalla fiamma, ed in un attimo lo scaldò. Lo zucchero e le tazze erano nella saletta: quindi ella portò solo il piccolo recipiente caldo che le pareva palpitasse fra le sue mani: erano le sue mani che tremavano.
L’uomo stava già seduto sul lettuccio, ed era veramente pallido in viso come si sentisse male: anche la luce, nella stanza, era smorta, e tutte le cose intorno parevano atterrite dal delitto che doveva succedere.
Gina però adesso aveva ripreso un po’ di coscienza: sentiva, sempre più lontane, le voci del marito e dei cognati e le pareva fossero loro a combattere il pericolo terribile al quale ella andava incontro. Eppure, perchè ci andava? Ella non lo sapeva: qualche cosa di più forte della sua volontà, del suo stesso desiderio sensuale, come l’attrazione dell’abisso, la chiamava: l’illusione forse di ascoltare finalmente la voce misteriosa dell’amore.
Versò il caffè nella tazza, vi mescolò lo zucchero, si avvicinò cauta all’uomo che l’aspettava col viso reclinato e gli occhi bassi, vinto anche lui dall’impeto del proprio sangue nemico.
— Adesso egli mi prende le mani, o si avvinghia alle mie ginocchia e piange di passione, — ella pensava: e la sua voce era rauca, nel pronunziare le parole d’ogni momento!
— Ecco il caffè, Pietro. Ti senti male?
Egli sollevò il viso, la guardò con gli occhi grandi neri che parevano davvero due abissi languidi dove la pupilla era naufragata e con essa la luce di Dio: prese la tazza e la depose sul tavolino accanto; poi balzò e afferrò la donna con la mossa selvaggia del coccodrillo, la rovesciò sul lettuccio, le cercò le labbra e soffocò con un bacio brutale il grido di lei.
Ella sentì i denti di lui battere contro i suoi, e le parve che tutto si frantumasse, nel mondo; ma ricordò appunto la storia del coccodrillo e pensò che per salvarsi bisognava fingere. Chiuse gli occhi, rallentò le mani, parve abbandonarsi; ma quando Pietro, già sicuro di poterla prendere, la lasciò un po’ libera, ella balzò in piedi ed urlò.
Si sentirono subito i passi della madre, nella camera sopra: a sua volta Pietro si lasciò andare riverso sul lettuccio e finse di essere svenuto.
— Sono venuta.... sono venuta a portargli il caffè, che lui voleva perchè si sentiva male, e l’ho trovato così.
Gina mormorava affannata le parole di menzogna, mentre Annalena era già piegata sul figlio; ma dal silenzio della madre, dal suo alito stesso, egli sentiva che ella aveva già inteso tutto.
Bisognava quindi salvarsi. Finse bene il risveglio, in modo che la stessa Gina lo credette vero; ed anche la madre si lasciò ingannare dal brivido e dal pallore che seguirono al supposto svenimento. In realtà egli rabbrividiva di rabbia e di rancore contro Gina, e per il suo rientrato desiderio; ma anche per l’ombra che sentiva di essersi oramai sollevata fra lui e la madre. Bisognava salvarsi da questa ombra, e vendicarsi nello stesso tempo, con pazienza e con astuzia.
Non parlò: si stese sul lettuccio, si lasciò coprire con la coltre, e gli parve di essere momentaneamente sepolto. Sentì che la madre diceva a Gina:
— Il raffreddore attacca. Si vede che Pietro lo ha preso dallo zio Dionisio: bisogna adesso che voi tutti non vi avviciniate più ai malati; penserò io a loro. Vattene, tu.
— Vattene, tu, — ripetè fra di sè Pietro; — la caccia via perchè sa che anche lei è colpevole. Se non mi avesse voluto non veniva qui. Adesso, poi, penserò io a fartela scontare.
Gina andò via a testa bassa, silenziosa e tetra. Nell’ingresso incontrò Isabella che rientrava coi bambini, tutti infangati, ma ridenti e caldi.
— Non mi toccate, — disse sottovoce, sfuggendoli; — se no vi attacco l’influenza.
E si lavò le mani; poichè le pareva che davvero la peste l’avesse sfiorata e resa immonda e pericolosa.
La serata fu triste.
Invano i fratelli, nonostante il divieto della madre, andavano ogni tanto a molestare Pietro e ad offrirgli da bere; egli sembrava veramente malato, ed in fondo lo era: se la madre si avvicinava al lettuccio, a lui pareva di vederne gli occhi, freddi e duri, guardarlo dall’alto come quelli di un giudice che, pure senza prove, è sicuro della colpa dell’accusato: allora avrebbe voluto gittar via le coperte, gridare e difendersi, ma non poteva; la coscienza gli legava le membra e la lingua.
Finalmente il chiasso che si faceva in cucina cessò; i fratelli andarono a dormire, tutto parve lontano: egli però vedeva sempre gli occhi della madre e pensava al modo di placarli.
— Farò la corte ad Isabella; farò questo sacrifizio, perchè quella cutrettola piace alla mamma. È ricca, sfido! La sposerò, andrò a stare in casa sua. La madre mi farà crepare di stenti, ma io farò prima crepare lei coi dispiaceri che le darò.
E con questi nobili propositi si calmò.
Egli aveva ancora un giorno di licenza, e questo giorno parve apportare un senso di vita nuova nella casa dei Bilsini. Il sole riapparve sul cielo ancora solcato da nuvole scure che si aprirono come ali di popolo al passare del re, e poi se ne andarono contente di averlo veduto.
Fin dalla mattina presto venne la potente macchina spazzaneve del Comune, e la strada fu libera, tra i fossi ricolmi di neve.
Pietro si alzò, annunziando che stava benissimo e che voleva riportare al padrone la carrozza ed il cavallo: e domandò consiglio alla madre se doveva o no ricondurre a casa Bellina.
La chiamava così “Bellina„ con un tremito nella voce tra finto e sincero; poichè era lei che doveva salvarlo agli occhi della madre e fargli perdere la sua libertà avvenire. C’era tempo davanti, però, ed in fondo egli non era convinto che la faccenda finisse con un matrimonio.
— Isabella resterà qui fino a domani; la ricondurrà Osca, — disse la madre; e nulla d’insolito pareva ci fosse nelle suo parole e nel loro accento: eppure Pietro si sentì ferito.
— Avete paura che la seduca? — cominciò impetuoso: poi riprese la sua maschera: — avrei potuto farlo, se mai, nel venir qui. Altra però è la mia intenzione: voglio sposare Bellina, se lei mi vuole.
— E va bene, va bene, — approvò la madre; ma le sue parole erano pallide, disinteressate; e sotto, Pietro v’intese un significato diverso dall’apparente.
— Va bene, Pietro, — era quel significato; — fa tutto quello che vuoi, purchè tu non porti più dispiaceri in famiglia.
Accigliato, egli si stringeva forte intorno alle gambe le fasce militari come dovesse fare una lunga marcia.
— Che devo dire a Urbano Giannini?
— Che hai da dirgli? Nulla. Che stiamo bene ed auguriamo che sua moglie si ristabilisca presto. Le uova del contratto di fitto gliele ho già mandate. E ringrazialo per la carrozza.
— Quello è dovere mio, — egli disse sempre più burbero. E andò via come se l’offeso e perseguitato fosse veramente e solamente lui.
Ma tornò rasserenato, allegro anzi, oblioso di tutto: poichè egli era un pò come certi animali selvatici addomesticati, che fanno presto ad inferocirsi e più presto ancora a dimenticare la punizione per le loro malefatte.
Anche gli altri, in casa, erano tutti contenti, per il tornato bel tempo, perchè lo zio Dionisio stava meglio, perchè Gina, presa anche lei da un risveglio di attività e di premura per la famiglia, preparava un gustoso desinare.
C’era nell’aria come un senso di liberazione: forse perchè la neve se ne andava; forse perchè anche Pietro doveva andarsene.
Già le prime vaghe ombre degli alberi tremolavano sulla terra ancora grave e scura di umido, ed il cielo si sollevava e si schiariva ogni giorno di più. Rinasceva la primavera, e rinasceva la speranza nel cuore di Gina Bilsini: poichè, dopo la partenza di Pietro, per tutto l’inverno ella era stata come la stagione, triste e malata.
Tutti, intorno a lei, si muovevano, lavoravano, questionavano e cantavano: tutti erano vivi e come affaccendati a spingere in avanti un ostacolo che li separava dalla completa felicità; la madre più di tutti, sempre in moto, china a ravvivare il fuoco, alta col lume in mano come una fiaccola fino a tarda sera, attenta ai grandi ed ai piccoli, alle bestie, alle cose più umili ma tutte necessarie.
Lei sola, Gina, sentiva una svogliatezza quasi angosciosa; tutto le pareva inutile, ed a giorni desiderava morire: la sua ferita non guariva, anzi si approfondiva ogni giorno di più, e parve incancrenirsi quando una sera di febbraio la sorella Bellina, tutta accesa in viso e vestita di rosso, arrivò agitando un foglietto in mano come una piccola bandiera di gioia.
Era una lettera di Pietro.
— Leggila un po’, — disse Annalena, senza smettere di fare la calza.
Isabella guardò il foglio, poi se lo nascose dietro le spalle, gridando che si vergognava: allora Baldo fu pronto a pigliarlo, e lesse lui.
Era una dichiarazione d’amore, scritta con bella calligrafia e con frasi ricercate, tutte svenevoli e romantiche: una lettera, insomma, combinata da uno scrivano pubblico: Pietro però ci doveva aver collaborato perchè dal fondo comune balzavano su frasi del romanzo dei due amanti.
Gina si sentiva profondamente offesa. Pietro si comportava con Bellina tutto al contrario che con lei: invano ella diceva a sè stessa: «meglio così, altrimenti non mi sarei salvata»; la gelosia e la tristezza per il nuovo avvenimento aumentavano il suo male.
Che cos’era? Amore? No; anzi ella odiava il cognato, non tanto per il suo tentativo brutale quanto perchè le aveva ucciso il sogno dell’amante ideale, o meglio l’attesa di questo. Adesso ella non aspettava più: ma il sogno le era rimasto dentro, morto, putrefatto: questo il suo male.
I fratelli di Pietro si passarono l’uno dopo l’altro la lettera, e la commentavano ironicamente. In fondo, tutti erano contenti dell’avvenimento. Anche Bellina prendeva la cosa alla leggera.
— Quando verrò a stare qui, ne faremo del giocare e del ballare.
E tanto per cominciare prese i bambini per mano travolgendoli in un giro tondo vertiginoso, senza accorgersi che Annalena la guardava alle spalle e nel vederla così giovine e sana pensava già di affidarle il lavoro dei campi, specialmente la mietitura, che richiede resistenza e agilità, e già le pareva di vederla pel fitto alto delle spighe come un papavero vivo.
D’un tratto Isabella si fermò, rossa ed ansante come davvero dopo la fatica della mietitura.
— La lettera? La mia lettera?
La lettera era sparita. Bardo se l’aveva cacciata in tasca, con l’intenzione di ricopiarne le espressioni più toccanti, da ripetere alla sua Piera. Gina osservò che la sorella non insisteva per riaverla, e domandò con voce amara:
— E la mamma cosa ne dice?
— La mamma? — Isabella parve cercare nella sua memoria. — Ah, già, la mamma, al solito, è di parere contrario.
Baldo osservò storditamente!
— Avrà paura di spendere per gli sponsali.
La madre gli diede un’occhiataccia, perchè non voleva si offendesse in nessun modo Isabella: Isabella però non pensava ad offendersi, anzi ammise che forse era proprio così.
— E anche perchè vuole che io resti tutta la vita con lei, mentre io, se mi sposo con Pietrino, voglio venire a stare qui. A me piace la compagnia.
— Ma bene! Brava, brava.
I fratelli Bilsini la circondarono, l’abbracciarono, le diedero qualche pugno sulle spalle. Bardo la baciò sul collo, e fece sul serio. Giacchè si doveva stare in buona compagnia, tanto valeva profittarne.
Ma lo zio Dionisio sollevò il bastone, come una guardia metropolitana quando vuol fermare la folla.
— Olà, ragazzi, basta. E tu, piccolina, vieni qui che voglio farti una domanda.
Dimmi un poco, tu vuoi bene al nostro Pietro?
Ella cercò ancora nella sua memoria: non poteva arrossire perchè già era in colore dello scarlatto, ma un’ombra le rese quasi violetto il viso. Piegò la testa davanti al vecchio e confessò!
— Ancora no; ma gliene vorrò. È bello.
— Brava. Mi piaci perchè non dici bugie. Ma prima di rispondere a Pietro pensaci bene. Ricordati che lui non ha che le sue braccia e che la sua testa è alquanto balzana: se tu sei capace di mettergliela a posto sarai doppiamente brava. E, non per fare delle prediche, adesso, ma per amore della verità, devo dirti che il matrimonio non è un giro tondo. Il matrimonio è quella casa che durante la luna di miele ci si mangia il miele, e la luna rimane per tutta la vita.
La fine scherzosa del sermone ravvivò il buon umore, alquanto oscuratasi in tutti. Furono sturate due bottiglie. Gina bevette, ed allora si rallegrò schiettamente anche lei: poichè pensava che se Isabella abbandonava la madre, questa avrebbe convinto Osca ad andare ad abitare, con la moglie ed i figli, presso di lei.
Questa speranza, di andarsene, un giorno, di staccarsi in parte da un mondo nel quale le pareva di aver sempre sofferto, rischiarava la sua infelicità immaginaria, ma non ravvivava la sua volontà. Nelle sue faccende era sempre stanca e silenziosa come una schiava sofferente, distratta in modo da non accorgersi neppure che Annalena la sorvegliava. Annalena la sorvegliava: un giorno, ai primi di aprile, la pregò di accompagnarla a fare il giro dei campi. Le giornate s’erano fatte lunghe e tiepide, gli uomini lavoravano di nuovo all’aperto, le galline già razzolavano fra le siepi e l’erba fresca: lei sola, Gina, non usciva mai dalla casa e dai suoi oscuri pensieri.
Seguì dunque svogliatamente la suocera, camminandole appresso a testa bassa.
— A giorni è Pasqua, — disse Annalena come parlando fra sè. — Pare fosse ieri Natale, con tutto quel freddo maledetto e tutte quelle preoccupazioni. I giorni sono stati duri, ma sono passati lo stesso: e adesso vengono i giorni buoni. Tutto promette bene; la vite ha già molti germogli; molti boccioli hanno le piante, molte uova fanno le galline. Anche le signore anatre così difficili, si comportano bene: tutti siamo sani e d’accordo. Guarda come il frumento è bello: cresce solo a guardarlo. Ma guardalo, Gina!
La giovine donna sollevò piano piano la testa ed i suoi occhi melanconici s’inverdirono per il riflesso del campo semicircolare che, coperto di frumento tenero e ondeggiante, pareva un corso d’acqua color di smeraldo. Un senso improvviso di gioia le aprì il cuore. Era la prima volta da che vivevano assieme che la suocera le parlava con quel tono di voce: e più che dai campi in risveglio e dalle loro promesse la primavera sgorgava per lei da quella voce che la costringeva a sollevare con gli occhi l’anima piegata.
Annalena si chinò sulla proda del campo per cogliere alcune foglie di radicchio, poi riprese!
— Vedrai, Gina, come la nostra posizione in pochi anni muterà. Una volta sistemato Pietro, tutto il resto andrà da sè. Noi siamo tutti, adesso, come in una barca sul fiume agitato; bisogna tenersi leggieri, buttar via tutto quello che può far pendere la barca da un lato; e così si arriverà salvi a terra. Passeranno gli anni, i bambini diventeranno grandi, i grandi vecchi: e tutti si sarà contenti se si avrà fatto il proprio dovere. Osca tuo marito già parla di far studiare i bambini: così essi diventeranno signori, istruiti, ed avranno tutte le soddisfazioni che a noi sono negate e che pure sono nostre perchè sarà il nostro lavoro ed i nostri sacrifizi che le procureranno loro. Pensa: sarai madre di dottori.
Gina rabbrividì, come uno che si desta in un’atmosfera fredda: le parve di vedere i suoi figli già grandi, vestiti da borghesi, come il medico ed il veterinario che marciava in automobile, e si vergognò dei suoi sogni. Sentiva inoltre che Annalena le parlava così, veramente materna, per svegliarla e guarirla dal suo male, e le venne il desiderio di confessarsi a lei; ma non potè pronunziare una parola. Del resto, che doveva dire che l’altra non sapesse già? Sapeva tutto di tutti, Annalena, e se adesso le parlava così significava che la compativa e la perdonava.
Era il tempo del perdono, per tutti; l’aria stessa dava un senso di pace, ed i grandi cieli sembravano ritinti a nuovo per la Festa imminente. Anche lei, Gina, sentì di perdonare a Pietro, e sopratutto a sè stessa.
— Ecco i nostri ragazzi, — disse Annalena quando ebbero attraversato il sentiero lungo il campo del grano. — Ecco il tuo Osca che lavora come Dio nel creare il mondo.
Il suo accento era scherzoso e commosso insieme, perchè realmente Osca lavorava, con le mani e coi piedi, senza fermarsi un minuto. Ripiantava i pali per le viti, e, già in maniche di camicia, col viso roseo e gli occhi in colore di quella bella giornata, oro azzurro verde, si piegava e si sollevava elastico e rapido, per scavare le buche, scegliere i pali, piantarli, rincalzare e pestare intorno ad essi la terra.
Della terra si sentiva quell’odore speciale che ha sul cominciare della primavera, odore come di tomba dissepolta dalla quale però esalano le misteriose fragranze di un corpo santo. Così doveva odorare il Sepolcro donde risorse Gesù.
Le due donne si fermarono un momento presso Osca, e Gina lo guardò di nascosto, quasi con pudore, pensando che dopo tutto egli era un bellissimo giovine: egli però disse solo un ohè di saluto e non smise di guardare dall’alto in basso e dal basso in alto i suoi pali che in quel momento erano la sola cosa che per lui esistesse al mondo.
— È proprio bravo, — disse la madre, riprendendo a camminare; — ed ecco gli altri.
Bardo e Giovanni vangavano l’altro campo per una seconda semina di patate: e già una cesta di queste, tagliate germoglio per germoglio, era lì pronta. Anche Giovanni non si fermò nel vedere le donne, mentre Bardo abbandonò subito il piede sul ferro della vanga ficcata per terra ed appoggiò il gomito all’estremità del manico. Il solito sorriso malizioso che cercava di nascondersi fra le labbra accolse l’apparizione di Gina.
— Oh, già le lucertole vanno in giro? Ed anche i lucertoloni; — aggiunse: — dov’è andato quel poltronaccio di Baldo, che ancora non si vede?
Baldo era andato per certe commissioni in paese e, si capisce, ne profittava. La madre osservò:
— Oh, va là, tu e lui non vi lasciate scappare le occasioni per scansare la fatica.
E riprese a camminare, appunto per evitare che egli lasciasse oltre la vanga inutilmente piantata in terra. Riprese a parlare con Gina.
— Baldo sarà andato dal prete, da questo famoso nuovo parroco che, dicono, fa miracoli e incanta la gente coi suoi sermoni: anche a Baldo è venuta la mania religiosa; tu lo hai veduto; si fa di continuo il segno della croce, tiene gli occhi bassi, e brontola se sente parlare in malo modo. Questo non mi dispiace, ma non vorrei che egli perdesse il tempo in vane preghiere, perchè, secondo me, la vera religione è il lavoro.
Gina ascoltava di nuovo distratta, ma in diverso modo di prima: pensava al prete e già lo vedeva con un’aureola di santo.
— Questo prevosto, però, — disse finalmente, con la sua voce esile e dolce che si sperdeva nell’aria come un profumo, — i miracoli pare li faccia davvero. Ha risanato il bambino dei Fantini. Lo ha raccontato Pinôn.
— Ma Pinôn ha pure detto che il bambino era strozzato dai vermi e non voleva prendere la medicina. Il prevosto lo ha convinto a prenderla.
— Eppure io voglio andare a sentirlo.
Annalena non rispose, ma intese il pensiero di Gina che si comunicò pure a lei: forse il prete poteva compiere il miracolo di guarire completamente la giovine donna.
— Oh, ecco chi si vede.
In fondo al campo si vedevano lo zio Dionisio, ed i bambini ancora infagottati coi vestiti invernali e coi berretti di lana.
Seguiva il cane, anche lui con la sua pelliccia che pareva sporca e logora per il lungo uso.
— Ma se si son levate le scarpe! — gridò Annalena allarmata, e si mise a correre verso i bambini che, avvistato il pericolo, se la diedero a gambe, uno avanti uno indietro per il sentiero di circonvallazione dei campi. E per quanto la nonna, e la madre eccitata dall’esempio, li rincorressero, non riuscirono a prenderli.
— Vi aspetto a casa, vi aspetto, — gridò Annalena; — e voi, badalucco, — disse poi sdegnata allo zio Dionisio, — non vedevate che erano scalzi? Che fate? Discorrete con Dio?
Sì, egli se ne andava beato, guardando di qua, di là, coi suoi occhi di vecchio smalto azzurro, la barba cosparsa di goccioline che brillavano come la rugiada. Anche per lui tutto era bello, quel giorno: il fosso dove nello specchio dell’acqua verde riapparivano le ombre dei rami brillantati di foglie, le prode dei campi dove cresceva il nasturzio e odoravano le viole nascoste; persino il bastone che lo aiutava a camminare ancora gli sembrava bello: onde rispose:
— Se non oggi domani, i puttini dovevano pure scalzarsi: potessi farlo anch’io. Chi sa però! Guarda, guarda.... Che meraviglia!
Si fermò davanti ad un palo che, piantato lo scorso anno, dopo essere parso definitivamente morto, metteva i germogli. Le foglie si aprivano rasenti al tronco, e parevano piccole mani imploranti protezione dagli uomini e dal cielo.
Anche Gina si tese a guardare con stupore, e non rise, come faceva il vecchio, nel sentire le parole di Annalena:
— Anche questo sarà un miracolo del prevosto.
Di questo prevosto si cominciò a parlare dai Bilsini come nello scorso inverno si parlava del nuovo Messia.
Baldo era stato ad ascoltare una sua predica, e, affascinato dalle parole di lui, adesso frequentava la chiesa e voleva trascinarvi le donne ed i fratelli.
La madre lo prendeva in giro.
— Sarà lui, il nuovo Messia; ma che sia capitato proprio nel nostro piccolo paese?
Poi anche lo zio Dionisio, che aveva tempo da perdere, andò a sentirlo: e tornò con un viso trasfigurato.
— Parla proprio come un santo. Le donne piangono nell’ascoltarlo; gli uomini abbandonano l’osteria per andare in chiesa. Dovresti andarci anche tu, Annalena.
Ella rispose quasi sdegnata.
— La mia casa non è un’osteria, e le parole delle prediche le so a memoria.
Poi ci andò anche Bardo, perchè ci andava Piera Maresca, la sua fiamma segreta: e fosse la presenza di lei, fosse davvero la persuasione che la parola del sacerdote infondeva nei cuori, rientrò anche lui pensieroso eppure felice.
Ma per quanto interrogato dalla madre e da Gina, non volle ripetere quello che il prevosto diceva: era come un segreto ch’egli voleva tenere tutto per sè, nascosto assieme al suo amore che si arrampicava e si stringeva alla parola divina come il convolvolo alla palma.
Baldo rispose per conto del fratello.
— Lui, insomma, il prevosto, dice che bisogna amarsi a vicenda, tutti, i poveri coi ricchi, i vecchi coi giovani.
— Gli uomini con le donne....
— Sì, sì, — rincalzò il vecchio; — proprio così; gli uomini con le donne, ma di amore buono, come tra fratelli.
Annalena, che faceva la calza, sollevò gli occhi maliziosi.
— Ma che ne sapete voi, di queste cose, oramai? La vostra donna è il vostro bastone.
— Annalena! Tu che sei stata sempre religiosa, perchè vuoi fare adesso l’eretica?
— Perchè la religione l’abbiamo in casa. La Madonna vigila la nostra porta e la nostra chiesa è lì.
— Non tutti sono come noi. Il paese è pieno di gente che ama solo il denaro, di giovani che corrono dietro il vizio: quel prete è come mandato da Dio per richiamare al dovere chi se n’è dimenticato.
Allora ella tornò a chinare la testa sul suo lavoro: pensava a Pietro.
E fu lei, dopo, che spinse Gina ad andare in chiesa e portarci i bambini.
Erano sopratutto i bambini, che il nuovo Apostolo voleva intorno a sè; e la sola idea di uscire di casa, vestiti a nuovo, di andare nel paese che ancora non conoscevano, fece esultare i due piccoli Bilsini come si trattasse di recarsi ad una festa.
Aria di festa entrò in casa col loro ritorno: essi cinguettavano come passeri raccontandosi a vicenda le loro impressioni, e quando la nonna, pronta a svestirli perchè non si macchiassero i vestitini buoni, domandò che cosa il signor Prevosto aveva detto, risposero ad una voce!
— Mah, tante belle robe.
Anche Gina si toglieva lentamente d’intorno alla testa la sciarpa di seta e torceva le labbra come se l’operazione le facesse male: una tristezza ardente le splendeva negli occhi. Senza voltarsi verso Annalena disse, quasi sottovoce:
— Egli ha parlato della passione di Cristo e della sua morte per noi.
E come Bardo, non riferì altro delle parole di lui.
Il sabato santo, mentre con l’anilina e l’acqua delle erbe bollite, le donne tingevano le uova pasquali, e così liete dei colori della primavera le passavano a Baldo che vi segnava su il nome delle persone alle quali erano destinate, arrivò, insolitamente, Urbano Giannini, il padrone del podere.
Egli non si lasciava mai vedere, poichè i Bilsini gli portavano puntualmente a casa il fitto ed i tributi: quindi Annalena si allarmò subito e gli andò incontro con le dita tinte ancora di rosso e di verde.
Del resto egli era un uomo da imporre soggezione con la sua sola presenza: alto e robusto, aveva la persona dritta come una colonna, ed un nobile viso severo d’imperatore romano. I capelli rasi si tingevano d’argento, ma la pelle bruna era fresca e i denti intatti e lucenti fra le labbra pulite. Anche i grandi occhi scuri, sotto l’arco sporgente delle sopracciglia aggrottate, inspiravano un senso di rispetto, poichè la pupilla limpidissima fissava dritto la pupilla di chi lo guardava.
Annalena conosceva già quello sguardo e lo affrontò intrepida: anzi, mentre l’uomo le stringeva forte la mano e la salutava con la sua voce sonora, sentì che non c’era che da rallegrarsi per la visita di lui. Gli offrì quindi la sedia migliore, accanto al fuoco.
— Siedi. Come vanno, tua moglie e tua figlia?
— Bene, grazie, — egli rispose, ma come assente dal ricordo delle sue donne. Guardava piuttosto Gina ed i bambini affaccendati intorno alle uova. — Questa è la tua nuora? E questi i tuoi nipotini? Belli.
La sua parola fu così forte e sincera che Gina arrossì.
— Ed io non sono bello? — disse Baldo, sollevandosi con un uovo in mano. — Voglio dire questo.
Sull’uovo, infatti, egli aveva dipinto un viso coi capelli ed i baffi verdi, e due orribili occhi violetti: Urbano fissò questi occhi come fossero vivi, e un sorriso quasi infantile gli schiarì la faccia; ma poi guardò Baldo, e le sue fattezze s’indurirono di nuovo.
— Bei ragazzi i tuoi, Annalena Bilsini! E sopratutto bravi. E brava tu che li hai fatti e che ne fai degli uomini.
— Eh, eh, si fa quel che si può, — disse Baldo, impettito, ammirando il suo uovo.
Annalena aggiunse:
— E quel che si vuole.
— Non è vero. Io, per esempio, avrei voluto dei figli maschi, almeno un paio. Invece non ho che una bambina, esile come un fiore.
Annalena tentò di adularlo.
— Sei giovine ancora, e sempre in tempo....
Ma la durezza quasi pietrosa del viso di lui le ricordò che Pinòn affermava essere la moglie del Giannini malata al cervello: ed anche lei, non seppe spiegarsene subito il perchè, si sentì l’anima pesante.
— Non tutto si può avere, Urbano. A chi i figli, a chi la ricchezza: a chi la forza, a chi la pazienza. Quando i miei figli erano piccoli, senza padre, senza aiuto, non ero felice di averli. Ah, caro....
Sospirò, esagerando un poco per confortare meglio l’uomo: egli però la fissava negli occhi, e pareva non sopportasse nè consolazioni nè discorsi melanconici. Disse, con la sua calda voce di oratore convinto:
— La vita è così, e bisogna prenderla com’è. Si va su, si va giù, un giorno bene, un giorno male. Hai tu mai veduto il mare, Annalena Bilsini? Un giorno sembra l’inferno con tutti i diavoli in ballo, un altro il paradiso con tanti angeli d’oro. Così è la nostra vita; lasciamola lì. Oggi è una bella giornata: godiamocela e non pensiamo che a tenerci la coscienza pulita. Io sono venuto per augurarvi la buona Pasqua. Ebbene, ragazzo, come ti chiami? Ah, Ubaldo? Ebbene, Ubaldo, dipingi un uovo anche per la mia bambina, e scrivici su il nome: Lia. E voi, puttini, venite qui, che voglio vedervi da vicino.
I bambini, che lo guardavano di sottecchi, impauriti dalla sua voce alta e dal suo aspetto maestoso, non intendevano di avvicinarsi: finchè la madre non li spinse e Baldo li incalzò come una coppia restia di torelli, fino a condurli sotto il colosso.
Egli tese sopra di loro, quasi a benedirli, le mani stranamente piccole, e domandò come si chiamavano.
— Primo.
— Secondo.
— E il Signore vi dia il terzo, il quarto, il dodicesimo.
— Speriamo, — disse Annalena.
— Speriamo di no, — gridò Gina. La sua voce però risonava insolitamente maliziosa ed allegra e parve incrinare quel senso d’imbarazzo che aveva finora velato la conversazione.
Anche i bambini rimasero volentieri presso l’uomo, scrutandone con curiosità il vestito già estivo, a quadratini bianchi e neri, largo come un sacco e fornito di una infinità di tasche tutte rigonfie; e il fazzoletto di seta bianca annodato al collo; ma sopratutto il cappellaccio a larghe falde, da coltivatore tropicale, ch’egli s’era cacciato su un ginocchio. Anche il bastone egli aveva, e quando essi scoprirono che il pomo era una testa di cane lavorata in osso, cominciarono a ridere furbescamente: pareva si burlassero di tutto l’assieme.
Piano piano anche Gina, smesso il lavoro, s’era avvicinata al gruppo ed ascoltava con interesse le parole di Urbano; ma le pareva che quelle parole, sebbene sincere, risonassero troppo, come d’uno che produce chiasso intorno a sè per nascondere il rumore di quello che veramente fa. Egli diceva:
— Le famiglie fortunate sono quelle più numerose. Ci saranno i figli che vanno male, ma ci sono anche quelli che vanno bene: è come una bilancia sempre in moto; mentre quando non si hanno figli, o se ne ha uno solo, la bilancia è ferma. Ed allora a che serve? A me, dico la verità, piace il chiasso ed il movimento: azione, ci vuole, per esser vivi. Guadagnare per spendere, spendere per guadagnare. Divertirsi anche, ognuno a modo suo, ma senza far male a nessuno, almeno nei termini della legge. Mia moglie, invece....
Gli occhi delle donne si animarono. Ecco che egli veniva a parlare dell’argomento desiderato: ed egli, accorgendosi della loro curiosità, esitò, ma come trascinato suo malgrado, e impegnato dal suo preludio, riprese:
— Mia moglie la pensa diversamente. Ha sempre paura dell'avvenire: ha sempre paura di muoversi, di svagarsi, di far peccato. Adesso poi si è messa in mente che è malata, e neppure il dottore la convince del contrario. Dice che le fanno male il cuore, la testa, le reni, che ha intossicazione al sangue, all’intestino, e chi più ne ha ne metta. Di notte non dorme.... Oh, chi si vede! Buon giorno: come va?
Contento che il sopraggiungere del vecchio Dionisio troncasse le sue parole, si alzò e tese lungo il braccio con la mano aperta. L’altro vi depose la sua mano sana, e mai stretta di mani fu più cordiale e sincera.
— Sono venuto per augurarvi la buona Pasqua, caro il mio buon Dionisio. Sarei venuto anche per Natale, ma con quel tempo neppure i lupi andavano in giro. Però ho avuto la fortuna di vedere il vostro Pietro e di mandarvi gli auguri con lui. Bel ragazzo! Del resto, come dicevo poco fa alla nostra Annalena, tutti belli e bravi, i vostri ragazzi.
— Non c’è male. Contentiamoci... — accondiscese il vecchio; e più che le lodi per i nipoti lo rese felice la visita dell’onesto padrone. — Siedi, — lo invitò a sua volta — Che cosa si fa di bello dalle vostre parti?
Urbano riprese il suo posto, e parlò con cuore aperto dei suoi affari, che andavano ottimamente, dei viaggi che ogni tanto faceva per mettere meglio in moto il suo commercio, e delle piccole avventure che gli capitavano durante questi viaggi.
Non parlò più della moglie, e le donne osservarono che il vecchio non gliene chiedeva notizie.
L’uovo che Baldo dipinse per Lia, bianco rosso verde e col nome di lei scritto vivo con l’inchiostro nero, fruttificò per bene. Urbano Giannini tornò una seconda volta, raccontando che la sua bambina se l’era serbato nel suo cassetto come porta-fortuna: ed in cambio egli trovò il modo di dire, bonario e scherzoso, che per conto suo rinunziava, per il venturo inverno, alle uova dovutegli per contratto.
Però Annalena assunse la dignità di una grande dama quando gli rispose sorridendo!
— Il prossimo inverno avrò tante galline che le uova le metterò nella cesta dell’uva.
— Dio te le benedica, e che ogni uovo ti produca poi un cappone di tre chili.
— Amen, — replicò lei, e rise.
In fondo, la contentezza per la bontà di lui, la speranza di un avvenire prospero, le ridavano un senso di giovinezza e di forza. Il suo viso s’era coperto di una maschera rosea, dove gli occhi brillavano come in una lontananza marina: e qualche ricciolo biondo scappava dal fazzoletto nero.
Questa seconda visita di Urbano le destava un misterioso subbuglio in tutto l’essere, come s’ella fosse una terra indurita da una lunga aridità, e l’uomo tentasse di scavarla e richiamarla a nuova vita. Pur parlando di cose semplici, egli la guardava negli occhi con una strana insistenza, attirato da lei ed a sua volta attirandola
— Quanti anni hai? — le domandò d’un tratto: e abbassò la voce come si trattasse di un segreto.
— Sono vecchia.
— Sei giovane, invece, molto giovane.
Ella aggrottò le ciglia, poichè non permetteva a nessuno di farle complimenti personali; eppure si ritrovò fanciulla, quando il desiderio maschile la investiva, e lei, che non aveva ancora la coscienza di quello che il desiderio conclude, se ne sentiva impaurita e trasportata assieme. Infine, le pareva, adesso, di piacere carnalmente al padrone, e che egli fosse tornato solo per rivederla.
Egli ritornò una terza volta: questa, però, come per caso, poichè s’era incontrato per strada con Giovanni Bilsini, ed il giovine lo aveva invitato ad accompagnarlo. Si sturò una bottiglia e si cominciarono i soliti discorsi; l’uomo chiamò i bambini e si fece frugare in tasca da loro, e com’è come non è, dalle profondità cavernose della giacca, sgorgarono noci, castagne secche, confetti.
Poi una domenica, in maggio, ritornò ancora. Annalena era sola in casa, poichè Gina ed i bambini erano andati dalla vecchia Mantovani, ed i giovani in paese. Lo stesso Tom, il cane, mancava dal giorno avanti, per la sua solita scorribanda primaverile, ed il vecchio Dionisio si ostinava a farne ricerca perlustrando come poteva i dintorni.
Annalena, insolitamente inoperosa, s’era spinta fino allo spiazzo davanti al portone, come soverchiata anche lei da un bisogno di evasione. Tutto tende al nuovo, in primavera: anche sui rami dei vecchi platani le foglie tenere parevano una prima fioritura giovanile, e dai biancospini delle siepi, che si sfogliavano ad ogni soffio d’aria, i petali volavano e si nascondevano, come stanchi di star fermi sul cespuglio.
L’erba alta in colore del musco copriva la strada, ed in fondo a questa si vedeva un campo di grano già rasato delle prime foglie, tutto di un verde-azzurro striato di ombre argentee come una stoffa di broccato.
E quando da questo sfondo si staccò e si avanzò, sempre più grande, la figura di Urbano Giannini, Annalena non si turbò: le parve anzi di essere uscita per aspettarlo, guidata da un buon istinto, poichè, se egli passava di là per caso, nel vedere il portone chiuso non si sarebbe fermato.
Ma passava egli davvero per caso? O non piuttosto per riveder lei?
A misura che egli si avanzava, ella sentiva di nuovo quel misterioso calore che, come emanato dalla possente persona di lui, la investiva e le accendeva i sensi. Per soffocare quest’impeto, ella si sforzava a credere che solo un calcolo interessato la spingesse a corrispondere al padrone: quindi anche in quel momento pensò:
— E se io gli piaccio, perchè, senza offendere il Signore, non posso profittarne, nell’interesse della famiglia?
Eppure, quando l’uomo le fu davanti, alto sopra di lei e grande anche accanto al tronco del platano che proteggeva la nicchia della Madonnina, lo ricevette quasi arcigna: poichè al primo calcolo era subentrato un torbido senso di scrupolo e di rimorso: e sfuggendo lo sguardo fisso di lui, ella domandò subito!
— Come sta tua moglie?
Al solito, egli rispose che la moglie stava bene; ma quando furono dentro casa, e si accorse, dal vuoto silenzio intorno, che gli altri erano tutti fuori, si abbandonò a qualche confidenza.
— I tuoi ragazzi saranno andati a ballare, — disse volgendo qua e là la testa e come fiutando l’odore di famiglia che, pur nella solitudine, restava nella grande cucina ordinata e pulita. — Anch’io amavo ballare, un tempo, e lo farei volentieri ancora se l’ingresso della mia persona in una sala da ballo non sembrasse quello dell’orso. Sì, amavo ballare, — riaffermò, parlando a sè stesso; e rise, mostrando tutti i suoi denti piccoli e lucidi come quelli dei bambini; poi si rifece serio. E ad Annalena, che adesso lo guardava ripresa dalla sua coscienza tranquilla, il viso di lui ricordava il fiume, nei giorni incerti di autunno, quando le nuvole si aprono e si chiudono in cielo e dentro l’acqua.
A sua volta gli domandò:
— Quanti anni hai, Urbano?
Egli sollevò la mano destra, col pollice piegato sulla palma e le altre dita aperte. Quarant’anni egli aveva; tre meno di lei, ma ne dimostrava a volte di più, a volte di meno, a seconda dell’espressione del viso.
— Sì, Annalena, quaranta per San Michele. Anch’io cambio di casa, quel giorno, da un anno passo all’altro, e sempre in peggio.
— Perchè in peggio?
— Perchè la casa della vecchiaia è brutta.
— L’uomo è sempre giovane. Persino lo zio Dionisio, col bastone per moglie, lo afferma.
— Meglio un bastone, per moglie, che certe donne. Certe donne, cara Annalena, fanno invecchiare anche i ragazzi di venti anni. La mia, per esempio....
— Urbano! — esclamò lei, quasi per richiamarlo a sè stesso e impedirgli di proseguire. Ma egli sospirò. La porta del suo cuore s’era aperta, e una ventata di quell’aria di maggio che possedeva anche i pali morti della vigna, vi entrava e vi scuoteva il dolore addormentato.
Con voce insolitamente bassa e cavernosa egli riprese:
— Mia moglie, che ha qualche anno più di me, tu del resto lo saprai, è pazza. Lo è stata sempre, ma finchè era giovane le sue passavano per stravaganze. Adesso, con l’andare del tempo, le cose si sono aggravate. Le è venuta la mania dell’avarizia, peggio che alla vecchia Mantovani; nasconde i denari sotto i mattoni, nei buchi, nei campi, poi dimentica dove li ha messi e piange perchè dice che io glieli ho rubati. Ha pure la mania di persecuzione: la notte non dorme mai: ha paura dei ladri, si alza, gira di continuo, di qua, di là, vaneggiando, presa da terrori senza fondamento. Ma tutto questo sarebbe niente, senza la sua fissazione di aver cento malanni fisici, e di essere odiata da me e dalla figlia nostra. Povera Lia! Invano essa abbraccia piangendo la mamma e cerca di calmarla: viene respinta con cattive parole. «Va da tuo padre, va, va: solo fra voi due vi volete bene, mentre di me non aspettate che la morte!» dice, e si strappa i capelli, si graffia il petto, si morde le mani. La bambina si consuma di dolore; tanto che ho deciso di mandarla fuori di casa.
Annalena non trovava parole per confortarlo: ed egli riprese, battendosi i pugni sulle ginocchia:
— Ben ti sta, Urbano Giannini, ben ti sta! Tu hai sposato una donna che non amavi, ma che aveva quattrini. E con quel seme maledetto hai seminato e raccolto quattrini ed angustie. E adesso crepa.
— Così è, Annalena, — disse poi, sollevando di nuovo gli occhi sul viso atterrito della donna: — se invece Dio mi avesse permesso di incontrarti e di sposarti, insieme noi due si edificava una parrocchia.
Il viso di lei si ricompose.
— Se ci si incontrava e ci si sposava, erano invece questioni, miseria e bastonate, — rispose, e pareva tentasse di scherzare; ma anche la sua voce era rauca; ed il sorriso tremante, che scopriva i bei denti e dava agli occhi una luce nuova, rispondeva in altro modo alle parole dell’uomo.
Del resto egli sembrava non badasse direttamente a lei, alla sua apparenza fisica, ma a qualche cosa di lontano, oltre di lei eppure in lei, inafferrabile eppure certo. Lo disse subito:
— Non credere, Annalena, che io venga qui con secondi fini. Sei ancora una bella donna, ma sei sopratutto una brava donna e per questo mi piaci. Mi piaci attraverso i tuoi figli, attraverso la tua casa, direi attraverso te stessa. Quando sono venuto qui la prima volta, il sabato santo, uscivo di casa mia come dall’inferno, dopo che mia moglie s’era fatta venire le convulsioni per delle miserie, e bestemmiava contro il Signore risorto: entrando qui m’è parso di entrare nel paradiso; e se ancora ci torno è per respirare un sorso d’aria buona.
Allora Annalena, in uno slancio di pietà, per consolarlo pensò di confidargli che anche lei aveva le sue pene segrete: Pietro, Gina, Baldo con la sua crescente mania religiosa; le strettezze finanziarie, l’incertezza del domani, la sua stessa ambigua simpatia per lui; ma l’istinto misterioso di conservare intatto il prestigio suo e della famiglia agli occhi di lui, nell’interesse di tutti, le chiuse le parole nel cuore.
Domandò invece:
— Perchè non fai visitare tua moglie dal nostro prevosto?
— Che devo farla visitare se non crede in Dio, non crede in nulla? Del resto essa è malata davvero, della più terribile malattia. È pazza, non c’è che fare. E non è colpa sua se ci fa tutti soffrire. Tu mi dirai: e allora, perchè non la porti al manicomio? Non la porto, anzitutto perchè ancora non è pericolosa, e perchè mi fa pietà, e in quell’orribile luogo soffrirebbe di più: e poi perchè i suoi parenti già hanno messo le mani avanti dicendo che sono io a farla apparire pazza. Ma basta con queste lamentazioni. Il Signore ci aiuterà. Dimmi piuttosto come vanno i campi.
— Ma bene. Vogliamo uscire a vederli?
Uscirono, lei stringendosi il fazzoletto intorno alla testa, lui con tutta la sua vasta giacca a quadrati aperta e penzoloni di qua e di là, piegandosi alquanto sul suo bastone con la testa di cane.
E fin dal primo sguardo sul verde vivo della distesa lucente sotto il cielo che pareva una cupola fatta apposta per proteggere quel cerchio di terra lavorata con amore, egli si accorse che un miracolo era avvenuto. Si fermò sul principio della strada carraia e si sollevò sul suo bastone.
— Qui, — disse, — non occorre la benedizione del prete. Qui c’è già quella di Dio.
Nella solitudine festiva i campi parevano anch’essi riposarsi. Non si muoveva una foglia, e l’ombra stessa degli alberi si allungava come furtiva per non disturbare l’immobilità delle cose intorno. Neppure il passo di quei due risonava, ingoiato dall’erba dei sentieri: solo, in aria, di ramo in ramo, dai platani ai salici, dai gelsi ai pioppi, si stendeva come una rete di argento, i cui fili vibravano con accordi di violino: erano i passeri bambini, che imparavano a cantare.
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Così il padrone della terra divenne amico dei suoi affittuari. Tutte le domeniche veniva a trovarli: gli altri giorni era occupato nella sua fabbrica di scope, dove lavoravano settanta operai, o nella spedizione della sua merce: viaggiava, anche, ed aveva una corrispondenza abbondante: ma nelle sue visite ai Bilsini non parlava più dei suoi affari, come non parlava della moglie se non quando si trovava solo con Annalena.
Un giorno condusse anche la sua bambina, com’egli la chiamava, che era poi una ragazza di diciasette anni, ma così gracile e piccola, timida e scontrosa, da sembrare davvero, col suo viso giallognolo e gli occhi obliqui d’uno strano colore tra il verde ed il nero, una bambina tartara selvaggia.
A vederla accanto al padre, Bardo non seppe celare il suo sogghigno di beffa: ella se ne accorse e tentò di nascondersi dietro il colosso.
La vivacità d’Isabella, che era venuta con loro a visitare i Bilsini, rendeva più opaca e misera la sua figura: eppure tutti, anche Bardo per farsi scusare, la circondarono e la festeggiarono.
Annalena le accarezzò i poveri capelli neri oleosi; glieli aggiustò, anzi, col pettine delle sue dita, come faceva coi nipotini, poi la condusse via con sè, nella saletta, e le regalò un uovo pasquale, ma di quelli di cioccolata con l’agnellino di zucchero sopra e dentro un anello di stagno.
— L’ho serbato finora per te, poichè sapevo che saresti venuta. Lo mangerai con la tua mamma, — disse, attirandola ancora a sè come per abbracciarla.
Abbracciarla veramente voleva, ma non poteva; perchè nell’esile personcina di Lia, nei capelli desolati, nelle vesti stesse, scure e quasi povere, respirava la pena della famiglia Giannini: ma sopratutto perchè nel suo slancio sentiva, più che la pietà per la figlia, l’amore per il padre.
Questa rivelazione le impedì, per il resto della giornata, di avvicinarsi a lui, di sostenerne lo sguardo. Ne sentiva però la voce, che si sollevava sopra le altre come quella del baritono nelle rappresentazioni liriche, e cercava di sfuggire anche a quel suono.
Condusse Lia nei campi, parlandole di tutto fuorchè della madre: tentava così di isolarla dalla sua tristezza; ma non ottenne che un’amara confidenza.
— Io voglio farmi monaca.
Allora rise forte.
— Anche il mio Baldo vuol farsi frate.
Andrete tutti e due nello stesso convento.
Lia domandò sottovoce:
— Baldo è quello dell’uovo?
— Proprio quello. Sicuro. È una buona idea. Ma lui lo fa perchè è convinto e vuol diventare santo. Il nuovo parroco lo ha convertito. E tu perchè lo fai?
— Così, — disse Lia, con una smorfia di disgusto.
— Ti farò parlare con Baldo: è il più piccolo, quello che ha il viso di ragazza. Combinerete sul convento da scegliere.
Lia la guardava di sottecchi, come la cornacchia diffidente: si domandava se quella donna dalle carni possenti, che odorava di erba e di terra, non si burlasse di lei; ma era abbastanza maliziosa e già esperta della vita per pensare: «Lo so ben io a quale convento tu vuoi mandarci assieme».
E le parve che al ritorno del giro dei campi, Baldo venisse loro incontro per precedenti consigli della madre: lo guardò tuttavia, con quel suo sguardo rapido che subito si nascondeva, ma dopo aver raccolto come in una rete tutto quello che c’era da vedere, e si accorse che egli, bello davvero, alto e flessibile come una spiga matura col suo stelo, le piaceva fino in fondo al cuore.
— Sarà un bel pretin, — disse, non senza malizia, mentre Annalena affrettava il passo.
— Lo senti, Baldo, quello che dice Lia? Dice che sarai un bel pretino.
Egli arrossi e si fece severo: poichè non voleva si scherzasse su quelle cose. Tuttavia la madre insistè:
— Ed anche lei, questa qui, vuol farsi suora.
— Monaca, — corresse Lia, — monaca di clausura.
Eppure il suo accento era cambiato; pareva che la presenza di Baldo la rallegrasse, e che anche lei volesse aiutare Annalena a burlarsi della vocazione religiosa sua e del giovine.
Ma egli sviò subito il discorso.
— Mamma, là in casa si è all’asciutto. Osca vuol sapere dove hai messo la chiave di cantina.
— L’ho io, — ella rispose, frugandosi in tasca, e si mise a correre verso casa, lasciando indietro i due ragazzi. La scena era stata troppo rapida e naturale perchè Lia la credesse preparata; tuttavia ella si rifece timida e diffidente, e solo quando Baldo, senza guardarla, mormorò:
— Tu farai molto bene a lasciare il mondo e le sue miserie, — sollevò gli occhi e di nuovo lo guardò rapidamente.
Il viso di lui, contro luce, le parve di marmo rosa, circondato di raggi d’oro; quello di un giovine santo; eppure il suo accento austero la fece sorridere. E d’un tratto si sentì felice, come d’improvviso sciolta da un vestito gravoso che l’opprimeva fino all’anima.
Imitando la voce del parroco, egli diceva:
— Non bisogna ridere, di certe cose. Anch’io, fino a poco tempo fa, ridevo di tutto, e non capivo niente. Eppure non ero contento, come sono contento adesso che vedo la strada diritta davanti a me.
— Quale sarebbe?
— La strada che conduce alla salute eterna. Quella che ci è stata indicata da Cristo, venuto nel mondo e morto per amore nostro. La salvezza dell’anima, insomma.
Quell’«insomma», alquanto impaziente, voleva significare: ma che razza di cristiana sei, se non capisci queste cose?
E Lia se ne sentì un po’ scossa: domandò:
— Ma davvero ti farai prete?
— Se potessi, sì. Per diventare preti bisogna studiare, e per studiare occorre essere signori: noi invece siamo poveri, e la famiglia ha bisogno di me, del mio lavoro. Ma lavorando si serve il Signore. E l’esser poveri, — egli aggiunse, perchè alla ricca fanciulla non venisse in mente di compassionarlo, — avvicina a Dio. Egli pensa a noi, più che ai ricchi, egli che dà il cibo agli uccelli e veste come i re i gigli dei campi. E lo stesso Gesù disse: entrerà più facilmente un cammello nella cruna d’un ago che un ricco nel regno dei cieli.
Quando egli ripeteva queste cose in famiglia, tutti lo prendevano in giro: quindi il contegno di Lia, che dopo il primo scatto di riso, s’era irrigidita e tesa come nell’ascoltare un prete che parla dall’altare, gli faceva piacere. Tuttavia si rifece umile anche lui.
— Tu, del resto, tutte queste cose le avrai lette nella Bibbia o anche nel libro della messa. Non ce l’hai il libro della messa?
— Ce l’ho, ma non lo leggo.
Egli la guardò con gli occhi grandi spalancati.
— E a messa ci vai?
Con l’indice, a testa bassa, ella fece segno di no.
— Ma le preghiere, le sai?
— So il pater nostro, l’avemaria e basta.
— Neppure il credo?
— Neppure.
— E allora, come va che vuoi farti monaca?
Il piccolo viso barbarico di Lia si atteggiò ancora a un disgusto profondo: e l’anima sua parve ricaduta nell’ombra.
— Così. Perchè sono stanca di vivere e di soffrire.
— Lia! Perchè parli così? Quanti anni hai?
Gli anni! Il tempo. Ecco la stessa domanda che il padre di Lia aveva rivolto ad Annalena e questa a lui. Come se la distanza più o meno grande dal principio o dalla fine della vita possa segnare un limite all'amore e al dolore.
E Lia doveva capirlo perchè alzò le spalle e disse quasi con disprezzo:
— Non lo so e non me ne importa.
Davanti a questa disperazione Baldo vide buio anche lui: e le parole che egli ripeteva, senza in fondo intenderle bene nel loro significato misterioso, gli parvero una canzonatura per la piccola Giannini.
La seguì quindi in silenzio, poichè ella si affrettava a rientrare; finchè giunti presso la casa sentirono le voci liete e le risate dei fratelli e degli ospiti. Allora Lia parve riscuotersi dal suo pensiero fisso della madre e delle tristezze domestiche: sollevò il viso e guardò Baldo trasognata, come non lo riconoscesse; ed anche lui sentiva quasi soggezione di lei. Eppure già qualche cosa li univa e li sollevava: il desiderio di stare ancora assieme li fermò davanti ad una specie di aiuola che Annalena aveva combinato lungo il muro della casa, e dove fra i cespugli della maggiorana fiorivano le violacciocche cremisi, ed i non ti scordar di me aprivano i piccoli occhi azzurri con la pupilla bianca raggiante.
Baldo fece un mazzolino piccolo e stretto come un solo fiore, e lo offrì alla futura monaca: ella se lo accostò al viso e, per esprimere bene la sua gratitudine, disse:
— Lo metterò assieme con l’uovo dipinto. Ce l’ho ancora, sai.
Ai primi di giugno Gina diede sottovoce alla suocera una notizia che in breve si propalò nella famiglia.
— La Gina è incinta.
Annalena lo diceva ad alta voce, ascoltando il suono delle sue parole. Come un’eco, dentro, le ripeteva a lei stessa, queste parole, e la richiamava da una specie di sonnolenza che, da qualche giorno, le velava la mente.
Forse era effetto del caldo improvviso che assopiva anche le cose intorno: non un alito di vento le scuoteva, e dalla terra gonfia di vegetazione esalava un calore profumato che dava alla testa.
Una sera di afa, mentre il vecchio Dionisio, coadiuvato dal fido Giovanni, faceva una partita a carte con Osca, e, in contrasto con Baldo che leggeva un libretto religioso, Bardo scriveva una lettera d’amore, Annalena sentì il bisogno di andar fuori nei campi.
Soffocava e si sentiva il cuore aggrovigliato come una matassa della quale qualcuno ha tirato i fili.
La finestra della camera di Gina era illuminata, e l’ombra della giovine donna vi passava e ripassava.
— Ella s’è già messa a posto, — pensò Annalena, camminando sull’erba, — che debba andare io, adesso, all’inferno?
Perchè non era donna da ingannare sè stessa: sentiva che il desiderio dell’uomo vinceva la sua carne ancora viva, e l’influsso, quasi l’esempio, della natura in piena fecondazione, della terra posseduta con violenza dal sole, aumentava il fermento del suo sangue.
Ella non si abbandonava al suo istinto; non per paura del peccato, ma per sostenere il suo dominio su sè stessa e gli altri: grave però era il suo travaglio; tanto più grave quanto più nuovo; ed anche su questo ella non si illudeva.
Camminava sull’erba e diceva a sè stessa:
— Invecchiando si diventa pazzi. Coraggio e forza, Annalena; passerà anche questa.
Ma il pensiero dell’uomo non l’abbandonava: a momenti sentiva la grande persona di lui, calda di bramosia, soverchiarla e stringerla, e le dita le si gelavano per l’angoscia del desiderio: subito però si scuoteva e si riprendeva. Così la terra intorno a momenti si anneriva d’ombra torbida e tosto si rischiarava, per il gioco della luna fra le nuvole correnti.
— Un temporale è in giro: passerà; e speriamo non porti la grandine.
L’inquietudine per questo pericolo la distrasse: guardò il campo del frumento, già con le spighe gravide, guardò il campo ove le saggine sorgevano come giovani palme, e pensò ch’era tempo anche di sorvegliare le galline contro la volpe che s’agguata facilmente dove la vegetazione è alta e fitta.
Così, Annalena, dovresti tu pure sorvegliarti contro la volpe del tuo cuore.
Le venne da ridere, perchè le parve fosse Baldo, con la sua voce da predicatore, a parlare così; poi mentre la luna riappariva fra le creste nere delle nuvole, in uno spazio di cielo simile ad un lago alpino, anche lei si sciolse di nuovo dal suo incanto malefico.
Era arrivata presso la siepe che costeggiava la strada. Nel fosso cantavano le rane, ed era proprio un concerto, il loro, col primo ed il secondo violino, l’oboe ed il contrabbasso; solo che gli strumenti erano scordati ed arrugginiti e le voci stridule: eppure quella del primo violino esprimeva una passione giovanile, un’invocazione così disperata all’amore, che la stessa acqua del fosso ne pareva agitata: era il riflesso della luna che stillando tra foglia e foglia riempiva di smeraldi tremuli il rifugio delle rane. Tutto è bello quando si tratta di amore.
E la donna proseguì la sua strada, con un grande sospiro dentro soffocato. Mai come in quella notte si era sentita sola e combattente contro le forze avverse del suo sesso; e mai le era apparso tutto così vano, anche la sua stessa fatica e l’edifizio della sua famiglia, poichè la vita che ancora rimaneva in lei doveva morire con lei.
E se camminava così, nel vuoto, nel cangiante chiarore della notte turbata, sentiva di farlo per macerare quella sua inutile forza vitale, o darle almeno uno sbocco nel sogno.
Ed ecco che, come appunto nei sogni di quelle ultime notti, quando la carne dolente e l’istinto sepolto soverchiavano lo spirito addormentato, ella trasalì di gioia e di angoscia nel sentire attraverso la siepe un odore di tabacco speciale, ch’ella ben conosceva, l’odore di lui. Tornò a fermarsi, come avvolta da una nuvola di fumo denso ed acre che le chiudeva gli occhi e le penetrava in gola, e tossì per liberarsene.
Era in fondo una tosse volontaria, un anelito dell’istinto preso al laccio: l’uomo, nella strada, sentì, e la sua voce rispose subito, come l’eco al richiamo.
— Annalena!
Ella non si mosse; ebbe anzi paura: pensò al diavolo ed ai mille modi che egli adopera per indurre gli uomini al male. Apposta nella preghiera grande al Padre Nostro, s’invoca la difesa dalle tentazioni. Eppure un senso di gioia sovrumana la sollevava tutta; e non si meravigliò di sentire l’uomo frugare nella siepe, quasi tentando di squarciarla, e di soffiarvi dentro.
— Annalena, sei lì?
— Ma sì! — ella disse forte, come con impazienza. — Sto a cercare un po’ di fresco.
— Anch’io sto a spasso. Volevo venire da voi. Che fanno i ragazzi?
— Giocano a carte.
— Anche il pretino?
Al ricordo di Baldo, con la testa dorata china sul libretto religioso, ella si riprese del tutto: sorrise e rispose con allegria:
— Eh, no, quello lì è sempre coi suoi santi.
— E fa bene ad esserlo, questa notte specialmente che i diavoli sono tutti in giro. Annalena, vuoi che venga da voi? Mi vieni ad aprire?
Anche la sua voce, così attraverso la siepe, aveva i toni misteriosi di quella notte fatta di splendore e di tenebre: era triste e calda, gonfia di disperazione e d’invito. Non era forse davvero la voce della Tentazione?
Lo era, sì, e la donna se ne sentiva tutta avvolta e tratta come da una rete di fuoco. Ma ci si dibatteva dentro, e per dimostrare a sè stessa che doveva, che voleva, e sopratutto poteva salvarsi, rispose, quasi sfidando l’uomo.
— Adesso vengo ad aprire.
Ripassando sotto la casa, vide che Gina aveva chiuso la finestra e spento il lume; forse era anche già andata a letto: e questo le fece piacere.
— Ma perchè, ma perchè? — si domandò subito: — io non devo aver paura di nessuno.
Ma perchè dunque, invece di rientrare nella casa, ne fece il giro, per non essere veduta dagli uomini; ed al cane che stava già in ascolto davanti al portone, fece segno di tacere?
Una forza fatale la spingeva, come l’onda in tempesta, ed invano ella vi lottava contro.
L’uomo non era ancora giunto, e non lo si vedeva neppure nella strada che, fitta d’erba, pareva un fosso d’acqua coperta di musco e andava a perdersi nella boscaglia delle nuvole in fondo ai campi. Annalena aveva l’impressione di aver sognato. Si fece accompagnare dal cane, si avanzò nella strada: e finalmente vide l’uomo, fermo ancora all’ombra della siepe, evidentemente in attesa di lei.
— Tom, — disse al cane, piegandosi per accarezzarlo e parlargli in segreto; — non abbaiare, eh? È un amico, lo conosci. È un amico, — ripetè; e voleva, più che il cane, convincere sè stessa.
L’uomo fumava. Quando ella gli fu vicina si tolse di bocca l’avanzo del sigaro, lo buttò per terra e lo spense col piede: poi senza sollevare la testa, disse sottovoce:
— Annalena, ti ringrazio di esser venuta. Ho proprio bisogno di te, stanotte. Non ne posso più: sono fuggito di casa come un pazzo e scoppio.
Sbuffò, col petto ed il viso gonfi, poi si fece vento con le mani. E la pungente domanda di lei: — come sta tua moglie? — finì d’esasperarlo.
— Non parliamo di lei, una buona volta. Giornata d’inferno, oggi, è stata, Annalena: ho fatto venire anche il dottore, e lei lo ha morsicato. Egli disse: qui ci vuole il veterinario, qui. Tu ridi, donna? C’è poco da ridere.
Ella non rideva, no, anzi il cuore le tremava di pianto. Domandò timida!
— E la bambina?
— È lei che mi ha detto: papà, va fuori, va a prendere un po’ d’aria e porta questa busta a Baldino Bilsini.
L’immagine di Baldo, col viso di vergine santo piegato sulle parole di Dio, rifulse di nuovo davanti agli occhi della madre; e il dubbio che Lia avesse dentro la busta che l’uomo le porgeva inviato qualche messaggio d’amore, le fece profondamente male. No, quei due, almeno, dovevano tenersi lontani dal peccato originale; dovevano anche ignorare l’amore, che è fonte d’ogni male. Aprì quindi la busta e si rassicurò: dentro c’era un’immagine sacra, tenera e grottesca: un bambino Gesù in una carrozzella moderna spinta da un angelo che pareva una vanessa. Con la busta in mano come uno scudo per difendersi, Annalena disse:
— Andiamo a casa; i ragazzi non sanno che sono fuori. Andiamo.
L’uomo non si moveva. La guardava dall’alto, avvolgendola in uno sguardo quasi cupo, e si stringeva al mento le mani intrecciate. Disse infine, con voce soffocata:
— Annalena, non capisci che ho bisogno di stare solo con te? E se siamo qui assieme è perchè Dio lo vuole. Il vederti mi riposa, mi ridona un po’ di speranza. Mi pare che un giorno potremo anche unirci; e questo solo pensiero mi rende un altro uomo.
— Tu sei un ragazzo, — ella mormorò: ma a sua volta piegò la testa.
— Ed è inutile che tu finga, Annalena; tu pure mi vuoi bene. Dimmelo, però, dimmelo.
— Ti voglio bene, sì, come si vuol bene a tutti i galantuomini.
Egli tese le mani per impedirle di continuare.
— Non così! Non so che farmene, di questo bene. Voglio il vero bene, l’amore. Ti voglio non come amica, ma come amante.
Ella sollevò il viso, fiera e triste.
— Urbano, dimentichi che io sono nonna. Che direbbero i ragazzi se ci sentissero? Sono loro, adesso, che devono amarsi: la tua Lia col mio Giovanni, o col mio Baldo.
Si fermò spaventata: perchè si accorgeva che davanti alla debolezza dell’uomo, i suoi calcoli di madre risorgevano attraverso il suo amore di donna. E non era meglio così? No, non era meglio; poichè sentiva l’uomo già sopra di lei, ardente di carne, di dolore, affamato d’amore; e pensava che bastava cedere un poco, abbandonarsi anche lei al suo desiderio, per fare di lui uno strumento della sua ambizione.
— Lasciami, — supplicò dibattendosi. — Lasciami e vattene.
Egli la stringeva con un braccio, le sfiorava la testa con la mano tremante; piegò il viso sull’omero di lei, ed ella sentì sulla sua bocca tramortita l’orecchio infocato di lui.
— Dimmi che mi vuoi bene: null’altro, null’altro, — egli le gemeva sulla spalla.
Per tentare di liberarsi ella rispose un sommesso e tremulo — sì; — ma come se tutta l’anima sua fosse penetrata per l’orecchio in quella dell’uomo, si sentì presa dal turbine dei baci insensati di lui, e perdette la coscienza di sè stessa.
Egli non le fece altro male; ma già grande ed irrimediabile era il male che le aveva fatto quella notte. Ella era ritornata nella sua casa rientrandovi come un ladro, e adesso aveva paura anche degli occhi buoni del cane. Un giorno che Tom le stava davanti e la guardava in viso come compassionandola, gli si piegò sopra e pianse sul vello di lui come usavano fare i bambini quando Gina li bastonava.
Da quanto tempo non piangeva! E adesso, ecco, non più la donna forte della Bibbia, ma la femminuccia desiderosa d’amore, riviveva in lei. Ma aveva promesso alla Madonnina del portone, di non rimettere più piede fuori del recinto della casa e dei campi, e di non rivedere l’uomo se non in presenza dei parenti.
Egli, del resto, non si faceva più vedere, con tristezza e conforto di lei. Trovandola debole come tante altre donne, egli forse non la stimava più, ella pensava: in fondo però si faceva coraggio, ed il suo istinto religioso le diceva che Dio manda agli uomini le tentazioni per vincerle.
Anche la stagione era tormentata, strana ed insolita come nello scorso inverno. Un vento caldo, sconosciuto nella pianura e nelle valli del Po, inaridiva e succhiava la terra: le spighe si seccavano innanzi tempo; le nuvole, che continuamente correvano per il cielo, verso sera si colorivano come in autunno, con toni scarlatti e pavonazzi minacciosi di altro vento, ed il sole tramontava dietro il fiume, tra frantumi di metallo e brani di porpora, come un re sconfitto.
Poi cominciò a piovere e parve il diluvio universale. I fiumi ed i fossi strariparono: le piantagioni delle patate e dei legumi, travolte e allagate, marcirono.
Annalena non dormiva, nè di giorno nè di notte; provava un malessere fisico, una puntura al cuore, pensando alla rovina del lavoro suo e dei figli, e le pareva che la natura soffrisse con lei. Ma una rassegnazione nuova raddolciva la sua pena; poichè tutto oramai nella vita le pareva irraggiungibile, e sentiva che un potere superiore domina la volontà anche la più forte dell’uomo.
Un giorno di grande pioggia, mentre si temeva che il Po superasse l’argine, riapparve, come sempre nei tempi di catastrofe, il mendicante Pinon.
Sia benvenuto Pinon, che porta fortuna; persino il cane annoiato gli fece festa, ed il merlo si mise a fischiare.
— Dove ce l’hai l’ulivo, dolce colombo? — domandò lo zio Dionisio.
Tutti, meno Baldo che sfidava anche il diluvio per andare in chiesa, stavano nel lungo stanzone d’ingresso, fangoso come nei giorni invernali, ed il bigio colore del tempo si rifletteva nei loro occhi inquieti: l’arrivo di Pinon ed il saluto del vecchio rimisero tutti di buon umore.
Il mendicante sedette accanto alla porta insolitamente chiusa, ed in breve intorno a lui, tanto le sue vesti sgocciolavano, si formò una specie di pozzanghera. Subito gli fu domandato:
— Che nuove nel mondo?
— Brutte nuove. I fiumi rompono gli argini; la povera gente deve lasciare le case e muore di fame; i paesi crollano.
— Oh, non cominciamo con le esagerazioni, — gridò Bardo; — altrimenti ti scaccio dall’arca di Noè.
Pinon piegò la testa di Cristo annegato, come se Bardo lo minacciasse sul serio: parve pensare a qualche cosa che aveva dimenticato; infine sollevò di nuovo il viso e guardando fisso Annalena che cuciva seduta nella luce dell’uscio della cucina, disse calmo, gustandosi però la sorpresa che la sua notizia portava agli altri:
— Non lo sapete? La vostra padrona, Maria Giannini, l’hanno portata all’ospedale dei pazzi.
Annalena sollevò gli occhi, ed anche lei, come Gina la sera di Natale, ebbe l’impressione che Pinon sapesse: poi vide sulla bocca di Bardo quel cattivo sorriso di serpente che spesso la deformava, e disse forte:
— C’è poco da compiacersi: c’è invece da piangere.
I suoi occhi infatti si riempirono di lagrime; ella non le nascose; e l’ombra della sventura altrui oscurò il viso di tutti. Lo zio Dionisio disse:
— È una cosa più terribile della morte.
Ed a Pinon non furono domandate altre notizie del mondo.
Tuttavia egli doveva sul serio portare fortuna perchè prima che se ne andasse cessò di piovere, e Baldo rientrò annunziando che le acque del fiume si erano fermate.
Con gli occhi pieni di estasi, togliendosi il cappello che pareva una barca inondata, egli disse:
— È stato lui, è stato certamente lui. È salito sull’argine, incontro all’acqua: a testa nuda, sotto la pioggia dirotta, ha pregato Dio e teso la mano verso il fiume come per placarlo e ricordargli il suo dovere. E le acque indemoniate cominciarono subito a ritirarsi: l’arcobaleno appare adesso in fondo ai campi. Correte a vederlo: sembra un arco con tante bandiere tricolori.
Bardo intonò la Marcia Reale.
— Zumimi, zurunzù, zurunzù....
Eppure, al contrario dei tempi buoni, le parole inspirate di Baldo destarono un fremito nei presenti. Annalena si fece il segno della croce, scacciando e respingendo anche lei il flutto indemoniato che le sommergeva il cuore; e lo zio Dionisio, sollevandosi la barba come per offrirla a qualche deità ignota, pronunziò la sua sentenza:
— Gli antichi credevano che i grandi fiumi fossero davvero spiriti che potevano fare il bene od il male. Bisogna credere a questo cose: e noi dobbiamo ringrazare il Signore che ci ha mandato un uomo capace di combattere contro l’inferno.
Invano Bardo continuava in sordina a battere il tempo della Marcia Reale; andò anche lui, dietro i bambini e la Gina, a vedere l’arcobaleno che apriva la porta dei cieli, e, per la gioia, gli parve che in cima, sul vertice di madreperla verde, fra papaveri narcisi e viole, vi sedesse, come la Madonna, la sua bellissima Piera.
La raccolta del frumento fu discreta, e buona quella del granoturco e dei foraggi; ma la speranza maggiore i Bilsini la riponevano nell’uva. Intanto non smettevano un giorno di lavorare. Subito dopo la mietitura i campi furono di nuovo arati, e poichè le giornate erano calde, per non far soffrire i buoi il lavoro veniva eseguito al primo albeggiare ed anche al chiaro di luna.
Annalena non dormiva per tener desti i figliuoli, e li sorvegliava come un padrone avaro. Avevano preso, da pagare a rate, poichè adesso godevano buon credito, un paio di giovenchi che venivano anch’essi adibiti al lavoro. Erano due forti bestie bianche, angolose e levigate, che al chiarore intenso della luna d’agosto parevano di marmo. Un incanto fiabesco dava al quadro un’atmosfera di sogno: pareva che i Bilsini lavorassero sotto un impulso di sonnambulismo, e, intorno a loro, dai grilli tra le foglie alle ranocchie nel fosso, tutto tacesse per non svegliarli.
Le ombre stesse, sulla terra agitata, nitide più che di giorno, avevano alcunchè di misterioso e significativo assieme, come in una rappresentazione grottesca. Era infine la notte capovolta in giorno, violata dall’uomo non per il vizio o il dolore ma per il lavoro e la fede: e le stelle che seguivano la luna pareva si fermassero a guardare stupite.
In settembre venne condotto nell’aia una specie di piccolo mostro rosso, pure lui squadrato e angoloso, tutto legno e tutto ferro, con le fauci, lo stomaco ed il sedere pronti alla funzione del divorare e rimettere: era la macchina per sgranare il frumentone. Le pannocchie gli venivano buttate con la pala, sulla scaletta che funzionava da gola: piano piano il mostro le inghiottiva, alcune riottose e spaurite, altre impazienti di finirla e sprofondarsi nelle viscere dell’insaziabile divoratore: che avvenisse poi dentro quel corpaccio a scatola non si sapeva: fatto sta che il melicone riappariva subito, evacuato in una cascata di grani dorati e di pannocchie nude: il tutto accompagnato da un rumoreggiare sonoro che ricordava appunto qualche favolosa cascata di pietre preziose.
In breve l’aia fu coperta da un folto tappeto di chicchi d’ambra; ed una montagna chiara di pannocchie sorse in fondo, presto franata per l’assalto dei bambini e del cane.
Verso sera Annalena, seduta sulla soglia della porta spalancata, guardava con compiacenza la distesa dorata dal riflesso del cielo acceso, quando la figura di Urbano Giannini, apparsa sul portone, parve oscurare l’aria con la sua ombra.
Si era vestito di nero come un vedovo, col fazzoletto nero al collo, un berretto calato sugli occhi: ostentava forse un po’ troppo la sua tristezza e ne pareva tutto assorbito; eppure attraversò l’aia in modo da non calpestare un solo chicco del frumentone, ed i suoi occhi cercarono con insistenza quelli della donna.
Ella ne provò quasi terrore, e si alzò come per difendersi.
— Abbiamo saputo, — disse con durezza: ed egli piegò la testa avvilito e vinto. Disse sottovoce:
— Sì, ho dovuto condurla in una casa di salute; così le chiamano, ma sono case di morte. E adesso non so più che fare. La mia famiglia è distrutta, Annalena, la mia casa bruciata. Di chi la colpa? Mah!
— La nostra vita è così... — tentò di confortarlo la donna; egli però le si rivoltò quasi minaccioso.
— Oh, tu non ti lamentare. Tu non sai. Tutto si può sopportare e vincere fuori che quel male lì. Meglio mille volte la morte: poichè è come trovarsi davanti all’inferno dove la persona alla quale tu vuoi bene si agita e brucia ed urla, e tu non puoi recarle soccorso. Ed è inutile cercare di aiutarla: anzi il suo male diventa il tuo.
Egli adesso aveva un aspetto così stravolto, che Annalena si pentì di avergli ricordato la sua sciagura. Anche lei si sentì presa da quel soffio di angoscia inumana e tutti i beni della terra le apparvero inutili.
In fondo però provava un senso di gelosia per il dolore dell’uomo. Dunque lei non contava più nulla per lui? Meglio così, pensò, tentando di evadere da quel cerchio di follia. Domandò:
— Tua figlia dov’è?
— È dai nonni. Ma oggi mi disse che vuol tornare a casa.
— Fa bene. Ella ricostruirà la tua casa: prenderà marito, avrà dei figli. Il Signore vi aiuterà e vi conforterà.
— Speriamo, — egli disse, sospirando! e parve anche lui uscire dal suo incubo. Guardò la distesa del frumentone, vide sullo scalino della porta una grossa pannocchia ancora intatta, luccicante e filigranata come un gioiello, la prese in mano, ne contò in lungo ed in giro i chicchi disposti con ordine meraviglioso e fece il calcolo di quanti potevano essere: infine la pesò sulla palma della mano. — Avrà per mezzo chilo di chicchi, — disse, accarezzandola. — Dio benedice te e la tua famiglia, e questo mi fa piacere.
— Abbiamo lavorato tanto, — ella sospirò, quasi scusando la sua fortuna.
Egli ribattè:
— Anch’io ho lavorato tanto, ma Dio s’è dimenticato di me; — poi andò incontro allo zio Dionisio che rientrava dai campi accompagnato dallo stato maggiore dei bambini e del cane.
I bambini avevano sentito molto parlare della misteriosa malattia della moglie del padrone, e quindi gli si avvicinarono con un certo timor panico, come se pure lui ne fosse colpito. I loro occhi curiosi lo fissavano di nascosto, squadrandolo come un fantoccio pericoloso; ma egli non se ne accorgeva, ed al contrario delle altre volte non li chiamava a sè, permettendo loro di frugare nelle sue tasche: anche i suoi occhi avevano una curiosità insolita, mutabile, che cercava le cose e le persone e le scansava subito, poichè più da nulla nè da nessuno egli sperava di trarre aiuto.
L’accoglienza quasi ostile di Annalena gli aveva ribadito sul cuore il chiodo della sua pena; le sentenze del vecchio Dionisio gli sembravano sciocche, e la stessa letizia dei bambini, che adesso giocavano fra di loro ridendo e morsicchiandosi coi dentini freschi come piccole mandorle sbucciate, accresceva la sua nera disperazione.
Accorgendosi dello stato di lui, Annalena lo invitò a rimanere a cena da loro.
— Adesso rientreranno i ragazzi, e faranno un po’ di chiasso. Rimani.
Egli invece si alzò di scatto.
— No, devo andare, — poi si fermò e parve ricordarsi. — No, che non devo andare. A casa non c’è nessuno.
Tornò a sedersi e chiamò il cane.
— Tom, lo vedi? Tu credi che il padrone, qui, sia io: invece sono il mendicante al quale si dà una scodella di minestra.
Annalena soffriva. Davanti alla reale miseria di lui sentiva cadere ogni scoria impura della sua passione, come se egli si fosse ripresentato non più uomo ancora giovane e ricco di ardore, ma vecchio impotente e decaduto. Eccolo lì, era come un sacco vuotato, cento volte meno interessante di Pinon, più scialbo dello stesso zio Dionisio.
Eppure, s’ella avesse voluto, con un solo sguardo avrebbe riacceso la vita della carne in lui. Ma ella non voleva. Tuttavia gli si avvicinò e gli battè una mano sulla spalla.
— Va là, Urbanone, lascia queste melanconie: non un piatto di minestra, ma un pollo saltato in padella voglio offrirti. E le ossa a Tom.
Il cane guardava ora l’uno ora l’altra, coi suoi occhi verdi dorati dal crepuscolo, e scuoteva la coda approvando. Quando la padrona gli promise le ossa, diede un breve guaito, e la sua gioia non fu turbata neppure dallo strido del pollo preso a tradimento dalla pertica sulla quale già dormiva.
Così il dolore degli altri nutrì la letizia della cena dei Bilsini.
— Vieni ogni sera da noi, — disse ironicamente Bardo a Giannini, poi si piegò sull’orecchio di Baldo e gli susurrò una filza di parole maligne. Il fratello lo respingeva, ma non poteva frenare il riso, ed i bambini ridevano anch’essi, pur non sapendo di che.
Osca versava da bere all’ospite: a metà cena questi cominciò a dondolare in su e in giù, di qua e di là la testa, mentre i suoi occhi correvano dall’uno all’altro, intorno alla tavola, ed agli uni pareva accennasse: «sì, sì, fate bene ad essere allegri», agli altri: «no, no, io non potrò mai più prendere parte alla vostra gioia».
— Bevi, bevi, — insisteva Osca, — tu sai la canzone!
Vuota il bicchier se è pieno. |
— E allora, salute.
— E poi quell’altra!
Amico bello, la vita è breve, |
— Qui non c’è la rima, ma non importa.
Salute a tutti.
Allora anche Bardo si alzò, tenendo il bicchiere con la punta delle dita; e con mosse di danza, indicando comicamente la Gina, intonò la sua.
Libiam nei lieti calici |
Accompagnato dai brontolii della cognata e dall’applauso degli altri, tornò a sedersi e si piegò sull’orecchio di Baldo:
— Questa sera, — susurrò, accennando al Giannini, — gli faccio mettere la firma su una cambiale di cento mila lire: tanto più che è anche cotto della mamma.
Il fratello gli diede un colpo col piede, sotto la tavola, ma cominciò ad osservare l’ospite con curiosità dolorosa.
Urbano beveva: infine il suo viso parve coprirsi di una maschera lucente, ed anche Gina, che come sempre serviva silenziosa a tavola e si rifugiava poi accanto alla madia per rosicchiare la sua porzione, osservò che egli prendeva la fisionomia ed il colore acceso dei Bilsini.
E Baldo si accigliò poichè d’un tratto lo vide sollevare anche lui il bicchiere e rivolgersi ad Annalena.
— Annalena, — diceva, con la voce sonora dei primi tempi, — bevo alla tua salute, augurandoti di restare sempre così, nel cerchio d’oro dei tuoi bravi figliuoli, come la perla vera dell’anello.
Bardo gridò!
— E lo zio, allora, cos’è?
Lo zio sollevò con la mano sinistra il suo bicchiere bianco d’acqua.
— Smortin, io qui sono il buco d’onde è caduta l’altra perla.
Il paragone era giusto e melanconico; tuttavia produsse un effetto d’ilarità quasi tempestosa.
— Evviva, evviva! Evviva lo zio buco. Evviva l’anello dei fratelli Bilsini.
Giovanni il taciturno mise la mano rossa e viva sulla mano morta del vecchio, poi con uno sforzo disse:
— Domando la parola: propongo d’inviare una cartolina a Pietro, firmata da noi tutti.
Accettato, con altri evviva e con sberleffi all’oratore,
— Toh, pare sordo muto e parla meglio di Mussolini.
Altri evviva; poi venne in tavola il calamaio di famiglia, con dentro l’inchiostro pallido per vecchiaia ed abbandono, e sulla cartolina con la chiesa del paese furono scritte le firme: prima di tutte quella di Urbano, che in quanto a calligrafia poteva dar dei punti al parroco; poi quella barcollante di Annalena, e via via le altre; per lo zio firmò Giovanni; anche i bambini vollero fare una croce; ed infine fu invitata Gina, ma ella rifiutò.
— Va a farti strabenedire,— disse sottovoce a Bardo, che aveva deposto il calamaio e la cartolina sulla madia, fra gli avanzi della polenta. — Credete già di essere diventati padroni, qui, perchè il disgraziato è brillo.
— Proprio così, — rispose Bardo per farle dispetto: e per vendicarsi meglio chiamò Tom, lo fece sollevare sulle zampe posteriori, in quella destra anteriore mise la penna e la condusse come la mano di un bambino a firmare la cartolina.
Questa volta rise anche il colosso triste; ed Osca, che aspettava il momento buono, si rivolse a lui, col gomito sulla tavola, per domandargli se non avrebbe comprato lui la saggina del loro campo.
L’uomo comprò la saggina, per il prezzo doppio di quello che valeva, e promise di comprare anche l’uva. Si sentiva come irretito in quella famiglia ed in quella terra, che dopo tutto era la sua, e voleva pagare con generosità le ore di oblio che il vino, l’allegria e la giovinezza dei Bilsini gli procuravano.
In quelle ore egli amava indistintamente tutti, in quella casa, anche il cane, il gatto, il merlo, anche i piccioni che volteggiavano bianchi e neri sopra la torre e gli pareva portassero il ramo d’olivo al suo cuore scampato dal diluvio del suo disastro famigliare.
Quasi tutte le sere egli veniva, col suo passo fiacco e quasi strisciante, e tutta la persona pencolante da un lato come un pino inclinato dal vento continuo; arrivato alla svolta della strada lungo la siepe dei suoi campi si sollevava dritto, e camminava agile, già vivificato dall’aria stessa che avvolgeva la famiglia ospitale.
I bambini ed il cane lo aspettavano davanti al portone: il posto a tavola era sempre pronto per lui, e la stessa Gina gli sorrideva, ammansata, col proposito di fargli tenere a battesimo il suo prossimo nascituro, fantasticando, al solito, anche su questo progetto.
— Se Lia si fa monaca, come dice, può darsi che egli si affezioni al figlioccio e gli lasci la sua roba.
Quella che meno pareva far festa al padrone era Annalena. Non lo sfuggiva, ma evitava di star sola con lui, taciturna mentre tutti gli altri chiacchieravano.
Quando si trattò della vendita dell’uva, poichè Osca ne richiedeva un prezzo sfacciatamente alto, ella si consultò con lo zio Dionisio.
— Non vi pare sia poco coscienzioso far così?
Il vecchio si tirò in su la barba, pensieroso, poi disse.
— Urbano ha denari da buttare. Lascia che li butti qui. Dopo tutto i ragazzi gli hanno rifatto la vigna a furia di fatica e di sudore. Egli lo capisce ed è questo che compensa.
No, non era questo; ella lo sapeva bene, in fondo, quale era la cosa che l’uomo compensava col suo denaro: la sua coscienza però non le rimproverava più neppure il peccato di uno sguardo, e l’istinto del bene della famiglia vinceva ogni altro scrupolo.
Ma era una tranquillità apparente. Un giorno, credendosi abbastanza forte per affrontare definitivamente l’uomo, profittò di un momento che erano soli, per domandargli notizie della moglie. Egli subito si rabbuiò, anzi parve sdegnarsi come s’ella gli facesse un dispetto, poi sollevò il viso e si mostrò anche lui pronto a difendersi.
— Vuoi proprio saperlo? Sta peggio. Sono stato a trovarla giovedì scorso e ne rimasi stordito. Ha la memoria lucida ma l’anima stravolta. Dice le cose le più tremende sul luogo dove sta, e che le suore che l’assistono sono tutte pazze peggio di lei. Mi ha rinfacciato tutti i grandi e piccoli torti che io le ho fatto nella vita, fino all’ultimo, che è quello....
Si fermò, fissandola in viso con occhi minacciosi. Ella aveva di nuovo quasi paura. Le pareva che l’uomo, quando era solo davanti a lei, si trasformasse; che uno spirito maligno lo vincesse, tentando di soverchiare anche lei. Tuttavia insistè:
— Quello? Di’ pure.
— Quello che tu sai, e che lei, per opera stessa del male che la tiene, ha indovinato.
— Urbano, — ella disse allora con forza; — io volevo appunto parlarti di questo. Anzitutto, di chi è stata la colpa?
— Mia, si capisce, sempre mia, cioè del maledetto destino che mi porta.
— Il destino ce lo facciamo noi, Urbano. Anche io sospettavo che il tracollo alla salute di tua moglie, date le sue condizioni, fosse stato causato dal tuo frequentare la nostra famiglia. Le cose si sanno, si indovinano, volano per l’aria come la polvere portata dal vento. E sarebbe bene, quindi, adesso....
Si fermò anche lei, intimidita.
Egli battè il bastone sul pavimento.
— Ho capito. Tu mi cacci via. E se io non volessi andarmene?
— Urbano, insomma, non sei un ragazzo.
— Appunto, sono i ragazzi che fanno le commedie. Io sono un uomo, e voglio vivere. Ti domando forse qualche cosa? No, non aver paura, io non voglio nulla da te; o sei tu, per caso, — domandò con una voce ambigua che la ferì più che le parole, — sei tu che hai paura?
— E può darsi. Toccando il fuoco ci si brucia.
Ella parlava spavalda; ma si pentì subito perchè vide l’uomo, già acceso negli occhi e nel viso, tendersi verso di lei: allora si tirò indietro, ed un senso di disperazione la spinse a fuggire fuori, nell’aia, fra i bambini e le bestie, come per ritrovare fra essi un soffio di salute e di speranza.
L’uomo però dovette riflettere, e impaurirsi a sua volta, di essere cacciato via davvero, perchè per il resto del tempo che rimase dai Bilsini si mostrò calmo, quasi gioviale: e nell’andarsene promise che la domenica seguente sarebbe tornato con la sua Lia.
Giusto per quella prima domenica di ottobre si aspettava il ritorno di Pietro. Gli fu preparato il letto in una stanza terrena che dava sull'ingresso, e la madre gli smacchiò e stirò il vestito da borghese.
Il ritorno di lui la preoccupava, riguardo ad Urbano Giannini. Istintivo e malizioso, Pietro si sarebbe certamente accorto del segreto che guidava l’uomo e rodeva lei come un tarlo invisibile: ed ella non sapeva come il figlio li avrebbe giudicati: forse profittandone per conto suo, in un modo o nell’altro, come, del resto, pure ignari o benevoli, ne profittavano gli altri.
Questa era l’ombra che la turbava, e che per la prima volta in vita sua le faceva sentire il peso della fatalità, del quale, se ci si libera per le cose grandi, non altrettanto è facile per le piccole.
— Basta, il Signore vede le intenzioni ed il Signore ci aiuterà, — mormorò riponendo il vestito di Pietro nell’armadio.
Ed ecco il Signore, quasi a dissipare l’ombra intorno, le fece subito sentire la risata canora d’Isabella Mantovani. Risata di freschezza e di splendore che pareva sgorgasse da tutta la persona di lei, dal vestito di velo rosa e giallo, dai capelli canarini, dal cestino ch’ella reggeva, colmo di grosse pesche i cui colori si intonavano meravigliosamente con quelli di lei.
Annalena le andò incontro con gioia, accogliendo il dono fra il brusco ed il lieto.
— Che hai fatto? Al solito, le avrai prese di nascosto di tua madre.
— Vi giuro, questa volta no. Ce ne sono tante, nel nostro campo, che cadono e marciscono. A scuotere le piante, poi, vengono giù come pugni. Mi piacerebbe far venire Baldo e mettercelo sotto.
— Te li do io i pugni veri, se continui, — disse Baldo dall’ingresso.
Ella giunse le mani, reclinò la testa da un lato, ed imitò la voce dolce del parroco santo.
— Baldo, fratello mio in Gesù Cristo, come puoi tu parlare di pugni? Se ti danno un ceffone sulla guancia destra, devi porgere anche la sinistra.
— Be’, smettila, — egli replicò con forza: — e sta attenta che Dio non ti castighi.
— Come sta tua madre? — domandò Annalena.
— Oh, lei sta sempre bene. Da tre giorni è occupata a fare la conserva di pomidoro e tutta la casa ne è impiastrata. Ne avrà pienato già cento barattoli; poi se li ficca in camera sua e guai a toccarglieli. E quale castigo mi aspetta? — gridò poi correndo all’ingresso in cerca di Baldo. — Più di quello di diventare cognata di un santo?
Ma Baldo era già scappato via, perchè la figura di lei, così sgargiante e chiassosa, a lui faceva male: gli sembrava quella del peccato mortale.
— Tua sorella e gli altri sono nella vigna, a vendemmiare l’uva bianca: vuoi andarci anche tu? Ti macchierai il vestito, però, — disse Annalena raggiungendola. Ed anche lei provò di nuovo un senso di sconforto, pensando ancora una volta che quella non era una moglie adatta per Pietro. Isabella parve indovinare questo pensiero; di botto si volse, si avviticchiò infantilmente alla donna, la baciò e disse con tristezza:
— Lo so, lo so che non avete fiducia in me. Lo so; ed anche lui, Pietro, non mi vuol bene, lo so; eppure io gliene voglio, per quanto non sembri, e quando ci saremo sposati saprò anch’io lavorare, anche, se occorre, scalza e scarmigliata. E sopratutto, — aggiunse sottovoce, ansando — sopratutto voglio avere tanti bambini, e dormire e giocare con loro. Sì, proprio così.
Turbata da questa improvvisa esplosione di affetto quasi animale, Annalena disse:
— Va bene, cara; ma, dimmi, perchè credi che Pietro non ti ami?
— Non lo so, lo sento; le sue lettere sono belle, ma copiate o fatte fare. Alle volte mi pare persino che si burli di me. Ed aspetto, adesso, che egli ritorni, per assicurarmene.
— Tu forse sospetti che voglia bene a qualche altra?
— No, non credo. Egli vuol bene a tutte le donne ed a nessuna. È questo. Voi tutti mi credete spensierata, — riprese la fanciulla, che s’era oscurata in viso come una rosa che sta per appassire; — io invece sono seria, e dentro di me faccio tanti pensieri e non m’illudo sull’avvenire. Pietro mi renderà forse infelice.
— Fantasie, fantasie, — disse Annalena, ma anche la sua voce era turbata.
Isabella le piegò la testa sulla spalla, e parve volesse piangere; poi si sollevò, tutta vibrante e di nuovo ridente.
— Datemi un grembiale; o prendo quello di Gina. Vado a vendemmiare anch’io.
E corse via di volo, cantando.
Pietro arrivò due giorni dopo. Vestiva ancora da soldato, ma la sua divisa era logora e sporca come se egli tornasse dalla guerra; ed anche il suo viso pareva quello di un ascaro.
Le sue prime parole ai fratelli furono:
— Voglio farmi un bagno in Po, e lasciare questi panni a riva come quelli di un annegato. Sono stufo di questa vitaccia e voglio proprio cominciarne un’altra. Allegria, su!
Furono sparate le ultime bottiglie che i Bilsini conservavano per l’occasione, ed egli dormì tutta la notte e buona parte del giorno dopo. Perchè non lo venissero a disturbare, aveva appoggiato contro l’uscio della sua camera la cassetta militare ancora colma delle sue robe: la madre attraversava l’ingresso in punta di piedi, pensando però che tutto questo poteva farsi solo per un giorno.
Domani la vita ricomincerà diversa, Pietro stesso lo ha dichiarato.
E quel giorno fu davvero come il passaggio da un’atmosfera ad un’altra: giorno di disordine, e, per la madre, d’inquietudine e di pazienza. Ma era anche di domenica, e la domenica, non forse tutti lo sanno, è per le donne di casa una giornata più faticosa ed agitata delle altre: gli uomini si cambiano di vesti, i bambini bisogna ripulirli e pettinarli, il pasto è più complicato: pazienza, purchè tutto vada bene in famiglia.
La pazienza non mancava ad Annalena, mentre mancava del tutto alla Gina che nel distrigare i capelli ai figliuoli brontolava contro la miseria e la mala sorte. I bambini, a loro volta, strillavano come cornacchie, ed il maggiore scappò nell’aia, fra i tappeti dorati e scricchiolanti del granturco, dov’ella lo rincorse e, afferratolo per le vesti, cominciò a percuoterlo con la mano sulle spalle e sulla testa. Ai gridi di lui, Pietro si svegliò e balzò alla finestra.
Vestito della sola maglia di cotone, coi capelli, che s’era lasciato crescere, neri e scarmigliati come un cirro di fumo sopra il viso scuro, parve uno spauracchio balzato su da una scatola: fece quindi ridere il bambino che piangeva, ed irritare maggiormente la cognata. Senza parlare, ella spinse in avanti il figliuolo a furia di scapaccioni, lo ricondusse nella sua camera e non lo lasciò finchè i capelli di lui non luccicarono come la stoppia, col sentiero bianco della scriminatura in mezzo. Poi lo spinse fuori dell’uscio.
— Va, Maramaldo, e non tornare più sotto le mie grinfie.
Poco dopo però il visetto di lui, ancora acceso dalle lagrime, si sporse dall’uscio socchiuso.
— Mamma, dice così lo zio Pietro, se ci lasci andare al fiume con lui: viene anche lo zio Dionisio.
— E andate; andate pure all’inferno.
Perchè era così arrabbiata, la mamma? Neppure l’arrivo d’Isabella, invitata a passare la giornata coi Bilsini, la placò: anzi, nel vederla dondolarsi nel suo vestito di velo giallo-rosa, con gli orecchini lunghi che parevano due ciliegie col gambo, le disse con acredine:
— Spero, Bella, che presto prenderai tu il mio posto di servaccia: allora ti passeranno i grilli, te l’assicuro io.
Ma Isabella era pure lei di cattivo umore, e rimbeccò pronta:
— Cominciano già a passarmi, figurati!
E ad Annalena, tutta occupata a pelare un pollo, disse con rancore:
— Poteva aspettarmi, però, il signorino Pietro: sarei andata volentieri anch’io, al fiume.
Anche Annalena non era contenta del contegno di Pietro; tuttavia, mentre pelava con più furia l’infelice bestia che pareva rabbrividisse di dolore anche dopo morta, per scusare il figlio disse che era andato al fiume per fare un bagno.
Allora intervenne Bardo, col suo sorriso di traverso!
— E che forse Bellina non dovrà poi vederlo tutti i giorni, nudo?
La madre minacciò di percuoterlo col pollo, che con la triste testa insanguinata disapprovava pure lui; e non potendo altro gli buttò sul viso una manciata di piume: Isabella invece ritrovò la sua allegria.
— Se mai, tutte le notti, — disse ridendo.
— Dio, Signore, che canaglie voi siete, tutti, tutti, dal primo all’ultimo, — gridò Annalena, correndo via col pollo, seguita da una scia di piume volanti.
I due giovani si guardarono negli occhi e risero. La letizia d’Isabella era però condita di rabbia, e l’idea perversa di far ingelosire Pietro, per vendicarsi della poca premura di lui, la spinse ad insistere nel cercare e provocare gli sguardi di Bardo.
Com’erano diversi gli occhi dei due fratelli! Quelli di Pietro tentavano invano di investirle il viso con una fiammata che la sfiorava senza toccarla; questi di Bardo, chiari ma con la pupilla sfavillante come una scintilla in una gemma verdognola, le penetravano dentro e la frugavano tutta.
Più che altro era curiosità di sapere ciò che lei veramente pensava e sentiva; curiosità però sensuale, che accendeva quella di lei di sapere fino a qual punto ella poteva piacergli e dominarlo.
— Come va la tua Piera? — gli domandò, mentre con tacita intesa scantonavano intorno alla casa e s’avviavano pei campi.
Bardo non desiderava di meglio che parlare di Piera, per parlare d’amore; ed Isabella, poichè l’amore suo le sfuggiva, aveva bisogno di scaldarsi a quello degli altri. In fondo, l’eterno istinto d’intendersela però fra di loro li guidava: così andarono a cercarsi una specie di nascondiglio, sulla proda fra il sentiero ombreggiato dai salici ed un pergolato fitto dal quale l’uva mora pendeva ancora, e tanta che pareva accrescere l’ombra.
Un fruscio brusco scuoteva il campo attiguo della saggina non ancora mietuta, come se vi passassero, scherzando fra di loro, le giovani volpi: ed anche l’acqua del fosso, bassa e coperta di una verde peluria di musco, ogni tanto sussultava e pareva aprisse dei grandi occhi neri che riflettevano quelli azzurri del cielo fra gli alberi: erano le ranocchie che vi si tuffavano. E l’odore intenso dell’erba, del trifoglio specialmente, dava all’aria come un colore di verde.
A testa bassa, con un filo d’oro di saggina fra le dita, Bardo domandò!
— La mia Piera, tu la conosci?
Isabella rispose ad alta voce, con accento di sfida.
— Io no, caro; e spero di non conoscerla.
— E perchè?
— Anzitutto perchè non me ne importa proprio niente: e poi perchè tu non la sposerai.
— Chi te lo ha detto? Quel furfante di Pietro?
— Nessuno, me lo ha detto. Lo so da me.
— Allora tu sogni, Bella. Io invece la sposerò, se lei mi aspetterà. Ma bisogna che aspetti un bel pezzo. Due anni di servizio militare, — egli calcolò, spezzando in quattro lo stecchino di saggina, — ed almeno altri due prima che io mi sia sistemato. E la mamma non ce la vuole, in casa, perchè è povera e non è buona a lavorare nei campi. La mamma le vuole ricche e che lavorino: ed ha ragione. Ma l’amore è l’amore.
— L’amore è l’amore, sì, — sospirò Isabella. — È una bella trappola, tutta d’oro di fuori, e con dentro la morte.
Infervorato, Bardo cercò di spiegare, per conto suo, com’è fatto l’amore.
— È un nemico che non si vince; un pensiero che ti scava il cervello con una vanga a punta e te lo sconvolge tutto come un campo arato. Proprio così!
— E ci si va sotto anche senza volerlo, come quelli che sono investiti dalle automobili. Anche se si è corrisposti, sono sempre tribolazioni. Tu vedi col pensiero la persona amata e le dici tante cose belle: quando poi ci si vede, non trovi più le parole, resti lì come un badalucco, oppure ci si litiga.
— È proprio così, — annuì ancora lei, ascoltando con occhi grandi le parole di lui.
— Ma forse ci si litiga per il piacere di far poi la pace. È tanto bello far la pace d’amore.
La pace d’amore! Ecco un’espressione che Isabella non avrebbe mai saputo inventare, e che la colpì quindi come una rivelazione. Ma già, gli uomini la sanno lunga, in fatto di amore.
Spiegando di qua e di là il volante della sua veste, come una libellula che apre le ali, domandò sottovoce:
— Dimmi, dimmi, dove vi vedete?
— Prima ci si vedeva in un viottolo, dietro la loro casa; ma il padre se ne accorse e minacciò di bastonarci. È povero, il Maresca, ma orgoglioso come un milionario. D’altronde io in casa loro non ci posso andare, come fidanzato, per non dare dispiacere alla mamma.
Questi particolari non interessavano Isabella: con voce densa e dolce, che aveva sapore di frutto proibito, ella insistè!
— E adesso, dove vi vedete, adesso?
— Adesso ci vediamo di notte, quando in casa sua tutti dormono: lei scende scalza e mi riceve nell’ingresso, separato dal resto della casa da un uscio ch’ella chiude a chiave. È un rischio; ma come si fa? Il più brutto è che non ci si vede e non si può parlare.
— E allora, che fate?
— Eh, — diss’egli con un sorriso ambiguo; — qualche cosa si fa.
Ella si sollevò, col viso tinto di cremisi: non insistè nelle sue domande ardite, ma pensò con rancore che Pietro non avrebbe mai sfidato un simile pericolo per lei, tanto meno se fosse stata povera come Piera Marasca; e Bardo ne indovinò i pensieri.
— Certo, è un rischio: il padre potrebbe anche tagliarmi il viso come un salame. Ma l’amore è l’amore; e Pietro, con tutte le sue rodomontate, non sarebbe capace di affrontare il pericolo come lo sfido io.
Ella tornò a piegarsi tormentando il suo vestito, e parve volesse piangere; subito invece si sollevò e rise. I suoi denti perfetti scintillavano sino in fondo, con le punte dei molari bianche come cime nevose in uno sfondo roseo; e la sua gola gonfia e palpitante ricordò a Bardo quella delle colombe in amore.
Un senso di stordimento lo prese: era quasi lo stesso piacere angoscioso che provava quando, al buio e nel pericolo, baciava senza vederlo il viso dell’altra: anche adesso presentiva un rischio, un mistero: Isabella gli piaceva, ed egli sentiva di piacere a lei: e perchè, dunque, perchè?
— Perchè ridi? — domandò con voce già mutata.
— Così! Penso che tu e Piera vi volete bene e non potete sposarvi, mentre io e tuo fratello ci dobbiamo sposare e non ci vogliamo bene. Non è buffo tutto questo?
Egli si mascherò di una faccia seria e comica assieme.
— Perchè parli così, ragazza? Pietro ti vuol bene. E poi, perchè vorrebbe sposarti se non ti amasse? Rispondi.
— Per i quattrini.
— Come fratello di Pietro tu mi offendi, ragazza! I Bilsini non si sono mai venduti. Ed il maggiore di essi, ha dunque sposato tua sorella per i denari? E questi denari, quando e come li ha veduti? Col binoccolo. E infine, se tu non vuoi bene a Pietro, chi ti costringe a sposarlo? Di’ pure.
Ella aveva di nuovo abbassato la testa come una bambina rimproverata; e adesso erano le due ali d'oro dei capelli e la nuca infantile di lei ad attrarre gli occhi di Bardo.
Ancora severo, ma già impietosito, egli aggiunse:
— E insomma, perchè credi che Pietro cerchi solo i denari? Tu sei bella....
Si fermò, impaurito. Vedeva sul crespo rosa del vestito di lei come delle macchie di sangue. Erano lagrime.
— E perchè piangi, adesso? Si può saperlo? Voglio saperlo.
Le si avvicinò, le toccò la veste; il contatto della stoffa lo fece rabbrividire, come avesse toccato della carta vetrata; brivido che si sciolse in una prepotente voglia di piangere pure lui, appoggiato a lei, per un dolore inesplicabile che li irretiva tutti e due e li schiacciava come una medusa invisibile e per questo più paurosa.
Bisognava liberarsene: ed egli tentò di farlo, scuotendo ruvidamente Isabella, per staccarsene, per far cessare quel suo pianto misterioso, e col pianto l’incantesimo fatale che li affogava.
Ella infatti parve svegliarsi: ingoiò un singhiozzo e sollevò il viso, rasente a quello di lui; un viso diverso, di un’altra Isabella; come pestato, e ardente d’incudine: ma fra le lunghe ciglia bionde orlate di rugiada, gli occhi si erano fatti più azzurri, del colore di quelli del cielo fra gli alberi; e le pupille colpirono quelli di lui, simili ai raggi del sole.
Allora egli ebbe l’impressione fisica che l’immagine di lei gli penetrasse viva nella carne, scacciandone l’altra; e tese le labbra verso le labbra di lei; ma subito si ritrasse, trascolorato: poichè Annalena, che si era accorta della loro assenza, veniva a scovarli.
Il contegno di Pietro verso Isabella non fece però pentire i due giovani di essersi attardati a confidarsi le loro pene d’amore.
Quando rientrarono, egli non era ancora tornato, ed Annalena cominciò ad impensierirsi per i bambini.
— Li avrà lasciati soli nel bosco della riva, e Dio sa che cosa succede.
Per fortuna rientrò Baldo, tutto odoroso d’incenso, e disse che dopo la messa aveva incontrato Pietro lo zio ed i bambini che andavano in paese a comprare dei dolci: poi rimproverò Bardo di non essere stato pure lui in chiesa.
— Ho avuto meglio da fare, — rispose il fratello col suo sorriso strambo; e poichè stava seduto nell’ingresso, con le gambe tese e le mani in tasca, aggiunse con arroganza: — sicuro: e adesso mi riposo.
— E va bene! — esclamò Baldo con accento minaccioso. — Dio vede tutto.
Poichè egli adesso diveniva, a volte, quasi aggressivo. Sentiva per istinto che le cose non andavano bene, intorno a lui, e non potendo far altro profetizzava il castigo di Dio.
Nonostante la sorveglianza della madre, Bardo però si sentiva felice e sicuro di sè: lo stare seduto, senza far niente, nel fresco dell’ingresso, il vedere le gambe agili ed i piccoli piedi lucenti d’Isabella, il sentire l’odore dei polli cucinati dalla madre, gli davano una gioia piena e saporita. E non fece che rallegrarsi maggiormente quando fra l’oro dell’aia vide avanzarsi la figura grottesca di Pinon.
Ben venga Pinon! Egli accorre sempre, come un corvo, quando si sente odore di mangiare, e, se porta cattive notizie del prossimo, reca pure fortuna.
— Bravo, Pinon! Chi è crepato, nel mondo?
Anche Annalena accorse, d’istinto, come se il mendicante portasse per lei un segreto messaggio: ed egli infatti corrispose alla sua premura con un sorriso diretto a lei sola, lusinghiero come una promessa. Ella però ebbe subito l’impressione che egli si burlasse di lei, e tornò a vigilarsi severa: gli indicò il sedile accanto alla porta, per significargli che doveva stare a suo posto, poi gli disse:
— Un’altra volta, prima di venire qui, fa una scappatina al Po. L’acqua del fiume non costa niente.
Egli si guardò addosso e rispose con umiltà:
— Vi giuro che mi sono lavato ieri: sono le vesti, che odorano male; non ho che queste.
Erano ancora gli stracci dell’inverno scorso, che gli si marcivano addosso come foglie imputridite: gli altri indumenti, che la stessa Annalena gli aveva regalato, avevano fatto la solita fine, tramutandosi in vino.
Questa volta, dunque, non fu invitato ad entrare in cucina: neppure Pietro, quando fu di ritorno, gli fece buona accoglienza, intento solo ad Isabella ed all’umore variabile di lei.
— Perchè non sei venuto a salutarmi? — ella diceva, respingendolo per il petto, mentre egli tentava di abbracciarla: — eppure sei passato davanti alla nostra casa.
— Ero tutto sporco e puzzavo come Pinon: ecco perchè non sono venuto. Lo abbracceresti tu, adesso, Pinon?
— Se mi volesse bene, sì.
— Ah, vuol dire che io non ti voglio bene. Me lo hai pure scritto. E sia! E allora perchè sono andato a lavarmi nel fiume? Per chi ho cambiato vestito? Anzi, adesso che ci penso, voglio adornare Pinon con la mia divisa: così ti farai un’idea della bellezza che io rappresentavo.
La proposta di vestire da soldato il mendicante dissipò la tempesta: anche Isabella, già stretta dai bambini, rise con loro, e Pietro, d’altronde, non si curò più di lei.
Prese la sua divisa e accennò a Pinon di seguirlo nella stalla: poco dopo, tutti i Bilsini, riuniti nell’ingresso, intonarono un coro selvaggio, di urli, di risate, di esclamazioni: lo stesso Baldo nascondeva il viso sulle spalle della madre per frenare la sua ilarità prepotente. Sulla porta Pinon, vestito da soldato, ma coi calzoni allacciati sulle gambe nude pelose, il berretto calcato fin sugli occhi, faceva il saluto militare.
Verso sera, dopo che Pietro e Bardo erano usciti per riaccompagnare a casa sua Bellina, arrivò Urbano Giannini. Aveva incontrato i giovani per la strada e disse che ridevano e cantavano.
— Pietro s’è fatto un omone, e mi annunziò che da domani si propone di lavorare per tre. Bene, bene: tu sei benedetta da Dio, Annalena.
Ella gli domandò di Lia e perchè, mancando alla promessa, egli non l’aveva condotta con sè. Ma egli non rispose: sedette davanti alla porta, e si appoggiò alla testa di cane del suo bastone, con aria stanca e sofferente. Anche i suoi occhi erano smorti, indifferenti alle cose esterne: neppure la presenza di Annalena, che gli si era seduta accanto sullo scalino della porta, riusciva a confortarlo; neppure quella fastosa luminosità dell’aia, ravvivata dal riflesso del cielo d’oro, dove la luna nuova brillava come uno smeraldo; neppure gli stridi d’amore delle rondini e quelli di gioia dei bambini, lo distraevano.
Solo dopo qualche momento parve riscuotersi e si guardò attorno.
— Dove sono gli altri ragazzi? — domandò, ma senza troppo interesse.
— Sono fuori. C’è lo zio Dionisio che gira per i campi.
Egli fece un segno che voleva dire: — non m’importa di lui: è morto peggio di me.
— Gina, porta da bere al nostro padrone, — disse allora la donna, decisa a scuoterlo in qualche modo dalla sua tristezza: poi gli domandò con voce franca come stava la moglie.
Qui era la piaga viva; ed egli sobbalzò.
— Lei, io e tutti, siamo nell’inferno: non lo senti? Forse si ha peccati da scontare; io più di tutti. E recenti anche; tu lo sai.
— Io? Che ne so io dei tuoi peccati, — ella rispose ridendo; ma anche la sua piaga segreta sanguinava.
— Quando si è nella strada del dolore, per sfuggire alla propria sorte si cerca sempre qualche viottola di traverso: e qui sta il peggio, qui sta in agguato il demonio, che ti afferra per la nuca e ti riporta tutto pesto alla tua strada.
Ma ecco Gina con la bottiglia nera già attanagliata in cima dal cavatappi. Anche la lunga persona di lei, gonfia, il viso scuro silenzioso, la nuvola dei suoi capelli attraversata dall’oro del cielo, avevano alcunchè di ermetico, pronto però a scoppiare come il vino dalla bottiglia.
Annalena ebbe paura di lei, per le cose che Urbano stava forse per dire; poichè egli le pareva turbato nella mente, e, come i pazzi, pronto a dire le verità più crudeli.
— Dà qui la bottiglia, — disse, alzandosi, — la sturo io. Siedi anche tu, Gina: sei stanca.
Gina infatti si abbandonò subito sul posto lasciato dalla suocera.
— Sono stanca, sì; ho lavorato tutto il giorno come una bestia: ed era domenica.
— Così tu hai santificato la festa: solo il lavoro....
— Oh, prediche non voglio sentirne. Mi bastano quelle dello zio Dionisio e di quello scimunito di Baldo. Sono stanca, ma non melanconica: e senza questo fardello qui, andrei stasera al ballo.
— Brava. Così mi piace, la gente.
Annalena andò per prendere i bicchieri; e Gina, poichè quel giorno in casa si era molto parlato del Giannini, del suo patrimonio, della moglie, di Lia e della sua dote, colse il momento per domandare all’uomo, sottovoce, come pregandolo di confidarsi con lei:
— Come va? E Lia? Che fa, la piccola? Perchè non l’avete portata?
— Lia è tornata a casa, dalla casa dei nonni. Ha lavorato anche lei: poi è andata in chiesa. Prega. Che può fare altro, se non pregare?
— Ha sempre intenzione di farsi suora?
— Monaca, non suora, vuol farsi: monaca di clausura. Così avrò due prigioniere, eh, eh.
Rideva, l’uomo, con una maschera diabolica sul viso; ed anche Gina ebbe l’impressione che il cervello di lui se l’avessero rosicchiato i dispiaceri.
— Coraggio, — disse, alzando la voce, poichè tornava Annalena. — Tutti abbiamo le nostre pene, e Baldo afferma che il Signore visita i suoi prediletti con le disgrazie.
Ecco che predicava anche lei: nel sentire il suono delle sue parole le veniva da ridere, sebbene d’un cattivo riso.
— Brutte visite, quelle; lasciamole lì. Bevi, Urbano, su, su, che scappa, — incalzò Annalena, mettendo in mano all’uomo il bicchiere gonfio di spuma. — È l’ultima bottiglia, questa, e l’ho serbata proprio pensando a te.
Allora egli si alzò, solenne.
— Io ti ringrazio, Annalena. Bevo alla salute tua e della tua famiglia.
Bevette un sorso; si rimise a sedere.
— Domani ti manderò io alcune bottiglie.
Poi finì il bicchiere; e le sue labbra grigie ripresero colore come quelle di un uomo svenuto che si rianima.
Quella sera Bardo non andò a trovare la sua Piera; preferì starsene coi fratelli più giovani, mentre Osca e Giovanni facevano la solita partita a carte, o meglio la facevano Osca e lo zio assistito da Giovanni. Con grande consolazione della madre, nessuno parlava di andare all’osteria, ed i giovani, anzi, avevano quella sera un insolito aspetto serio e quasi preoccupato.
Pietro, Bardo e Baldo se ne stavano dunque in fondo all’aia, seduti su un tronco abbattuto di platano che doveva venir spezzato per l’inverno prossimo. La luna illuminava la notte ancora calda e dava alla distesa del granturco il luccichio di un mosaico d’ambra e di alabastro.
I tre fratelli tacevano, e nel silenzio si sentiva la voce di Osca che raccontava di una rissa avvenuta in un paese vicino.
Due comitive di giovani si erano azzuffate, per ragioni futili, in apparenza, in fondo per passioni di partito.
— Bisognava vedere come si strappavano i capelli e le vesti. Il rumore degli schiaffi risonava come gli applausi a teatro. Il fatto è che, quando si separarono, uno rimase a terra, col viso bianco ed una fontanella di sangue che gli usciva dalla nuca.
— Signore, Signore! Povera madre, — sospirò Annalena; ed il vecchio rincalzò:
— Non c’è più religione. E la politica è figlia del diavolo.
Allora si sentì la voce calda di Giovanni. Da qualche tempo anche lui aveva la sua passione: leggeva, oltre Il Sole, i giornali grandi, e credeva ciecamente a quanto vi era stampato.
— La politica è la sola cosa della quale un uomo serio deve interessarsi. È con la politica bene intesa che si guidano i popoli, e si rendono forti le nazioni.
— Bravo, onorevole Bilsini, — urlò Bardo facendosi tromba con le mani; poi disse piano ai fratelli: — io preferisco fare all’amore. Però non mi dispiacerebbe avere in casa un deputato — E perchè no? Dammi una sigaretta. Smortin. Tutto si può, quando si vuole.
Questo era Pietro, che parlava. Bardo trasse le sigarette ed i fiammiferi, ed entrambi i due fratelli si misero a fumare.
Baldo ne sentiva voglia anche lui, ma aveva promesso al parroco di non farlo, e non lo fece: inoltre gli pareva di vedere il giovane, vittima della rissa, steso a terra, bianco ed insanguinato, e provava un dolore femmineo.
La stessa luna si copriva di un velo, non per il fumo delle sigarette, ma perchè un uomo era stato percosso a morte senza ragione. Per confortarsi disse sottovoce:
— Da noi non succedono più, queste cose. Da quando c’è lui, tutti si vive in pace.
— Che hai, Pretin? Vaneggi?
Era ancora Pietro che parlava. Parlava in modo insolito, quella sera, a scatti, preoccupato da un pensiero che avrebbe voluto confidare a qualcuno e non sapeva a chi.
Tutte le storie dei suoi ultimi mesi di vita militare le aveva raccontate; adesso era anche un po’ stanco di parlare, ed il vino bevuto in abbondanza, e la sigaretta, e la dolcezza della sera, gli davano un senso di stordimento.
Bardo invece aveva un’insolita voglia di chiacchierare, di espandere in qualche modo la torbida felicità che gli riempiva il cuore. Diede a Pietro un’altra sigaretta, un’altra ne accese per sè, ma quando la ebbe fumata a metà la buttò via. E con una voce grossa, che non pareva più la sua, annunziò un suo proponimento, più che ai fratelli a sè stesso!
— Porco cane, voglio diventare ricco pure io.
Pietro gli fece eco.
— Guarda, guarda! Pensavo anch’io precisamente alla stessa cosa.
Buttò anche lui la sigaretta, come si trattasse di discutere subito un affare serio, e si passò la mano sui capelli.
— Vediamo un po’ come si può fare.
Baldo osservò:
— Col lavoro. E del resto la ricchezza non è la felicità.
Bardo gli diede una gomitata.
— Va via, Pretin; vattene via o le buschi, stasera. Io voglio diventare ricco e felice. Col lavoro, sì, ed anche con l’industria, ma sopratutto con la furberia. Voglio sposare una donna ricca e bella e buona.
Pietro aveva raccattato la sua sigaretta ancora accesa e ne schizzò la cenere sulla testa di Baldo: parlava però rivolto all’altro fratello.
— Una donna ricca, bella e buona? E valla a pescare. A meno che....
— A meno che?
— Non sia la figlia di Urbano Giannini.
Bardo gli diede uno spintone.
— Ma va a farti fotografare. Quella, io non la voglio neppure rilegata in oro. Dàlla a qualche scimpanzè.
— Quella è del Signore: lasciatela stare, — esclamò Baldo sdegnato.
— Già, lei monaca e tu frate, nello stesso convento, dice la mamma.
I due fratelli sghignazzavano; ma quando si trattava di Lia, Baldo faceva onore al suo nome: diventava un eroe: si alzò quindi dal tronco, e scuotendosi la cenere dai capelli, disse con impeto:
— Peccatori e sacrileghi siete voi, ribaldi destinati all’inferno: voi, che vi prendete gioco pure della sventura altrui. Ma il Signore vi castigherà. Attenti.
Allora Pietro, che fino a quel momento aveva parlato con una certa indifferenza, si animò e si fece davvero cattivo.
— Mi fai un piacere, Baldo? Te ne vai? Va a dire il rosario: io ho da parlare con Bardo, di cose di questo mondo. Levati dunque di tra i piedi, tu col tuo prevosto di ricotta e col vostro rompiscatole Signore Iddio.
Baldo si turò le orecchie con le dita, mentre un baleno quasi di odio contro i fratelli bestemmiatori gli rifulgeva negli occhi rivolti al cielo; e fu per andarsene davvero e mettersi a pregare: non restava altra salvezza: pregare per loro; ma poichè l’istinto lo avvertiva che il nome di Lia non era stato pronunziato invano, e che forse qualche cosa si tramava contro di lei, andò a sdraiarsi nell’ombra sotto la tettoia del portone, e finse di sonnecchiare.
Bardo però, che lo teneva d’occhio, riprese a parlare ad alta voce, quasi sfidandolo.
— È lui che è cotto, della piccola scimmia. Ma va là, chi te la tocca?
Pietro gli strinse il braccio, per farlo tacere: poi si piegò coi gomiti sulle ginocchia e disse sottovoce:
— Ti ricordi, Bardo, quella sera di Natale, quando tu mi hai raccontato le tue tribolazioni d’amore? Adesso ti voglio raccontare le mie. Se Baldo ascolta e vuol riferirle alla mamma mi fa un sommo piacere. Io non voglio sposare Isabella. Non mi piace; non le voglio bene, nè lei ne vuole a me. È una penitenza che mi trascino dal giorno in cui m’è saltata in mente la disgraziata idea di questo matrimonio: e solo per questo, mentre prima la ragazza mi era indifferente, adesso la detesto. Sento che se la sposo l’accoppo a bastonate fin dal primo giorno: anche così come siamo, liberi ancora, mi viene spesso voglia di prenderla a schiaffi ed a pugni. Sì.
La sua voce era profondamente irritata. Bardo si sentiva come percosso lui, da tutta quell’abbondanza di botte; tuttavia una gioia inaudita gli ribolliva nel sangue, al pensiero che dunque egli poteva corteggiare senza scrupoli Bellina; e la rabbia di Pietro gli destava il riso.
— Calma, calma. Se vuoi ne parlo io, alla mamma.
— La mamma è causa lei, di tutto. Con la sua smania di farci lavorare anche alla notte, di renderci simili ai somari. Ci vuole ricchi a tutti i costi, e non sa che quando ci avrà spremuto il sangue dagli occhi non saremo più uomini, ma stracci. Lavorare, sì, ma come gli altri cristiani, otto ore al giorno e non diciotto, come lei vuole. Io non me la sento. Ed allora, in un momento di disperazione, ho pensato a Bellina. Pensavo: me ne andrò a stare con le Mantovani; farò crepare presto la vecchia avaraccia e così sarò padrone io: padrone di lavorare quando occorre e di riposare quando ce n’è di bisogno. Ma adesso sono pentito, ed ho paura che sarà lei, la vecchia, a farmi crepare, se il Dio di Baldo non mi aiuta.
Nell’ombra Baldo fu per rizzarsi sulla schiena come una serpe; ma si compresse il cuore contro la terra, come volesse schiacciarselo, e strinse i denti per non parlare.
Sentiva che Pietro mentiva, forse in buona fede, ma che mentiva: che altra era la causa delle sue pretese tribolazioni e dei suoi nuovi progetti. E il suo sdegno si gonfiò ancora di più, quando sentì Bardo imitare la sua voce per dire a Pietro!
— Dio ci aiuterà.
Vi fu un momento di silenzio, durante il quale la voce di Giovanni si fece ancora sentire, con parole che ai tre fratelli minori travolti dallo stesso dramma, parvero vuote e di un mondo che non era il loro: poi Pietro riprese:
— Un matrimonio d’amore, io, intanto, non lo posso fare. O anche se lo faccio, dopo pochi giorni ne sono stufo e arcistufo. Moine, io, dalle donne, non ne voglio: alle moine io rispondo con ceffoni. Sono fatto così, e neppure mia madre, se mi rifacesse una seconda volta, mi farebbe diverso. E allora....
— Allora?
— Allora oggi ho pensato una cosa, che se mi riesce mette a posto tutte le nostre faccende. Oh, be’, te la dico subito, poichè vedo che crepi di curiosità. Ho dunque pensato di fare la corte appunto alla figlia del nostro padrone. Voglio sposarla.
Bardo si sollevò di scatto, tendendo le braccia in avanti come dovesse cadere svenuto; Pietro lo afferrò per la giacchetta.
— Oh, Smortin, non farti venir fastidio, adesso. Non ho poi detto che voglio sposare la principessa del Belgio.
— Forse sarebbe più facile.
— Oh, oh, Smortin, mi prendi pure in giro? E potresti, per favore, spiegarmi il tuo sogghigno?
Bardo tornò a sedersi, e parlò con serietà.
— Ma non sai che la ragazza vuol farsi monaca? E non sai che, se invecchia, diventa come la madre? Il solo fatto che vuol monacarsi dimostra che già è toccata al cervello. Infine, poi, è così brutta!
— Tutti questi sono fatti che non ti riguardano, — disse Pietro, seccato. — Sono cose alle quali penserò io. Vuol farsi monaca? Ed io la metto su nella torre, con un inginocchiatoio ed una pila d’acqua santa, dalla quale, se vuole, può anche bere: e tanto meglio per tutti. Lo stesso posto è buono, se la capoccia, come dicono a Roma, le gira come alla genitrice.
Giù nell’ombra, Baldo sospirò ringhiando. Pietro lo sentì, e per dispetto alzò la voce.
— E da domani mi metto all’opera. E se c’è qualcuno che ha da protestare, protesti.
Io, le cose le faccio senza maschera. Voglio guadagnarmi pure io il mio posto nel mondo, e me lo guadagnerò. E se qualcuno vuol fare la spia a nostra madre, lo faccia pure. Io lo ringrazio e lo riverisco.
Allora Bardo, anche lui turbato, domandò timidamente:
— E Isabella?
Pietro rispose sottovoce; tanto che Baldo non afferrò le parole di lui: ma doveva averne detto una più grossa delle altre perchè una risata di Bardo riempì di gioia e di scherno lo spazio attorno.
Quella risata fu per Baldo come il guizzare vermiglio della folgore che spalanca la tempesta. Gli parve che tutto il sangue gli balzasse alla testa per non ridiscenderne più: e si sentì capace di un delitto, per fanatismo religioso. I suoi fratelli si erano per lui mutati in demoni, e per salvarli dall’inferno perpetuo, specialmente Pietro, bisognava ucciderli prima che commettessero tutto il male che si proponevano di fare.
Adesso le loro confidenze e le loro risate gli arrivavano confuse, miste alle voci degli altri fratelli che parlavano di politica e di interessi mondani; oh, come tutti lontani dalla verità e dalla luce del bene.
Progetti deliranti gli attraversavano la mente sconvolta: fuggire di casa, prendere Lia con sè; assieme andarsi a nascondere in un’isoletta del Po, e vivere di pesca e di erbe. Egli la conosceva, una di queste isole, fitta di pioppi e di giunchi, con la sabbia, a riva, screziata di fiori simili ai tulipani. Vi crescevano spontanee le piante dei melloni, coi frutti d’oro grezzo, dolci dentro e freschi come sorbetti. L’acqua azzurra del fiume si attardava nelle insenature limpide, come riposandosi della sua corsa fantastica e fatale. Nel centro dell’isola si poteva costruire una capanna, come quelle dei pescatori d’acqua dolce, e viverci in santità. San Francesco non aveva cominciato così?
La voce della madre lo riscosse.
— Baldino, che fai lì, steso come un maiale? E ci hai ancora il vestito buono. Alzati, sudicione. Hai bevuto, forse?
Sì, aveva bevuto veleno. Ed un senso di rancore, anche contro la madre, anzi specialmente contro di lei, lo sollevò dalla sua umiliazione. Sì, aveva ragione Pietro: la madre non si curava che del loro benessere materiale, trascurando la parte vera della loro esistenza: l’anima. Per questo erano a quel punto: sul limite, tutti, del delitto.
Si alzò a sedere e le afferrò il lembo della veste. E poichè tutti gli altri si erano ritirati, e loro due rimanevano soli, in riva al mare calmo della notte lunare, decise di parlare alla madre per destarne la coscienza: lei sola, una volta inteso il pericolo, poteva salvare tutti.
Le si aggrappò meglio alle vesti, come un bambino che vuol essere trascinato, e poichè lei si piegava, le afferrò anche un braccio e la costrinse a sedersi per terra accanto a lui.
— Ma, Baldo, ma che hai? Sei brillo davvero?
— Adesso vi dirò. Sì, mi pare di essere ubbriaco, per tutte le cattive cose che oggi ho vedulo e sentito. Bisogna che ne parliamo.
— Proprio adesso? Non si può farlo domani? Io sono stanca.
— Siete stanca, lo so; ma la strada ancora non è finita, anzi s’è fatta più lunga perchè l’abbiamo smarrita. Vediamo adesso di ritrovarla, e poi ci riposeremo.
— Baldino, le tue parabole non mi vanno, specialmente a quest’ora. È come che tu parli latino, tesoro mio. Spiegati e spicciati meglio.
Seduto rigido per terra, con le gambe piegate e le mani giunte come un idolo dagli occhi luccicanti ed il viso inspirato, egli allora disse:
— Dunque, noi siamo qui da un anno e la nostra fortuna è già cominciata. Il sonno perduto, il sudore sparso, la buona volontà, tutto si è convertito in ottimo seme.
Fra pochi anni saremo ricchi, grazie a voi che ci sapete guidare e comandare. Saremo ricchi e dannati all’inferno. Sì, sì, adesso parlo e lascio le parabole. Pietro vuol piantare Isabella e sedurre, per poterla poi sposare e sfruttare, la piccola Lia Giannini. Questo è uno.
— Pietro fa per scherzo. Ha sempre la testa piena di fantasie.
— No, mamma, — egli disse con voce ferma; — voi sapete bene che egli non fa per scherzo. Quello che dice lo fa: voi lo sapete.
Ella lo sapeva. Ricordò. E un brivido le incrinò l’anima dura.
— Baldo, a chi Pietro ha detto queste cose?
— Poco fa, qui, al suo degno fratello Bardo. Tutti e due parlavano, qui, come due diavoli usciti dall’inferno per godersi il fresco: e si ridevano di me e di Dio. Bardo, anche, voi lo sapete, inganna una povera ragazza, malandata in salute: la va a trovare di notte, la bacia, le promette di sposarla ed invece ha per la testa altre idee. Sì, voglio dirvi tutto; è quella fraschetta di Isabella, che egli vuole; e lei ci sta. E due.
La madre, che già dubitava di qualche cosa, provò un senso di sollievo, quasi di gioia. Dunque, tutte le cose si accomodavano da sole. Isabella e Bardo; Pietro e Lia; non erano due buoni matrimoni? Ma le venne in mente un sospetto.
— Niente, niente, Baldo, non saresti innamorato tu, di Lia Giannini?
Egli arrossì, tanto che il suo viso parve rifulgere al chiaro di luna: era sdegno, però, quasi furore.
— Noi non c’intendiamo, — sogghignò.
— Voi siete vecchia ed io sono quasi ancora un bambino; eppure non c’intendiamo. Qui non è questione d’amore, maledetto sia; è questione di coscienza.
— Ma se Pietro....
— Pietro, voi stessa lo avete sempre affermato, è il tarlo della nostra casa: a lasciarlo fare rode la famiglia come una vecchia madia. Pietro vuol pigliarsi la povera Lia per farla crepare e godersi poi lui i suoi soldi in peccati mortali. Ha già intenzione di rinchiuderla viva nella torre, lassù.
— Questi sono scherzi da gente sborniata.
— E contro gli ubbriachi devono vigilare i sani.
— Va bene; e dunque, cosa si deve fare, secondo te?
— Si deve innanzi tutto imporre a Bardo che lasci stare la disgraziata Maresca. Se vuole Isabella se la pigli pure; e vadano però a stare da loro. Se Isabella mette piede in casa nostra succedono tante di quelle porcherie che neppure l’acqua del fiume, se venisse una innondazione, potrebbe cancellarle. Poi, con Pietro non c’è nulla da fare direttamente: anzi è meglio non dirgli nulla, perchè quello lì si rivolta come una tigre molestata. Ma bisogna avvertire il Giannini che sorvegli la figlia.
Adesso fu la madre, ad arrossire.
— Ed io dovrei fare questa bella figura?
— Proprio voi, sì, — affermò Baldo con forza: poi, nel veder la madre piegare fin quasi sul grembo la testa, abbattuta da una umiliazione senza pari, aggiunse sottovoce: — Sì, lo so; egli ha tanta stima di noi, e sopratutto di voi, che andargli a dire: in casa nostra c’è un mascalzone che vuole rovinarti la vita; è come metterglisi nudi sotto i piedi. Eppure bisogna farlo. Del resto, — riprese dopo un momento di silenzio, — anche lui non viene qui a raccontarvi i suoi guai e le sue debolezze? Tutti eguali siamo, nel mondo, e Gesù disse che bisogna umiliarsi per essere esaltati.
Ella tentò di ribellarsi.
— Oh, fammi un po’ il santissimo piacere di smetterla con le tue sentenze.
Ma egli le puntò subito un dito sul braccio.
— Anche voi. Anche voi contro Dio. E va bene.
Poi si alzò, lungo dritto contro luce: e sullo sfondo chiaro dell’aia, alla madre parve alto, più alto della casa, circondato di splendore, bello e forte come un giovine Apostolo.
Allora, d’improvviso, ella sentì l’orgoglio e la felicità di essergli madre. Così bambino ancora, egli aveva già la saviezza e lo spirito di salute di un vecchio carico di anni e di esperienza: neppure lo zio Dionisio, con la sua croce di dolore sulle spalle, giudicava gli uomini e le cose come lui.
Ella ebbe voglia d’inginocchiarsi ai suoi piedi, di confessargli la sua pena ed i suoi scrupoli; dirgli che forse la moglie di Urbano Giannini non sarebbe completamente impazzita se lei non avesse considerato ed accolto il padrone non come tale ma come un possibile amante da sfruttare in tutti i sensi: la sua dignità di madre fu però ancora una volta superiore ad ogni altro sentimento.
Ella non doveva diminuirsi agli occhi di Baldo, per rispetto a lui: d’altronde Dio vedeva la sua coscienza, la sua ferma volontà di sollevarsi e purificarsi col suo stesso pentimento.
Come spinta da questi pensieri, si sollevò, fu davanti al figlio e parve misurarsi con lui. Disse solo queste parole:
— Domani parlerò col padrone.
Ma il suo accento era tale che Baldo ricordò il momento dell’Elevazione, nella chiesa bianca d’incenso, quando solo la voce dell’organo parla come la voce stessa di Dio: e l’aia ricoperta di granturco, la ferraccia screpolata, la figura scalza della madre, tutto gli apparve bello e grandioso poichè la luce della salvezza lo illuminava.
Il lunedi ed il martedì Urbano non si lasciò vedere. In quel tempo egli era molto occupato per l’acquisto delle saggine: Annalena quindi scusò la sua assenza, e volentieri anzi, nonostante il suo primo impeto di buona volontà, avrebbe rimandato ad un giorno lontano il triste colloquio che doveva avere con lui.
Il mercoledì Baldo andò, di sua iniziativa, senza farlo sapere a nessuno, alla ricerca del padrone, ma ritornò insoddisfatto: il Giannini non era in casa, nè al laboratorio delle scope: anche Lia, così aveva detto la donna di servizio, era andata dai nonni.
La vita, in casa Bilsini, aveva d’altronde ripreso il solito aspetto. Nonostante le sue chiacchiere della domenica sera, Pietro si alzava presto e lavorava con gli altri: nei primi due giorni parlò sempre lui, raccontando le sue vicende militari e le imprese galanti sue e del suo capitano, del quale dava ad intendere di aver quasi sedotto la fidanzata: il terzo giorno tacque, infastidito dal pensiero, diceva lui in confidenza a Bardo, di dover andare a trovare Isabella. Ci andò infatti il mercoledì, e tornò molto tardi perchè le Mantovani lo avevano trattenuto a pranzo con loro.
E insisteva, la mattina dopo, esagerando, sulla magrezza del pasto offerto dalla vecchia avara.
— In cambio mi ha raccontato le avventure del suo primo matrimonio. Dice che il primo marito, dal quale non ha avuto figli, la chiudeva in casa, tanto era geloso; la chiudeva cioè nella cucina, e poi inchiodava tutti gli usci delle stanze attigue. Una volta ve la lasciò chiusa per quattro giorni, in modo che l’ultimo giorno, venute a mancare le provviste, ella mangiò solo un po’ di polenta fredda. Si vede che da quella volta ci si è abituata. A furia di fame, poi, è stata lei a far trottare verso l’altro mondo il primo ed il secondo marito, — riprese, ma con un accento stranamente serio; — e la stessa sorte forse toccherà a me.
— Ma non è lei che sposi.
— Lei, o la figlia o la morte, è lo stesso, — egli affermò: e si fece cupo, come realmente preoccupato per il tetro e magro avvenire che lo aspettava: nè gli scherzi dei fratelli valsero a rasserenarlo.
Avevano cominciato a vendemmiare l’uva nera; ed anche per questo si attendeva il Giannini che doveva acquistarla per conto suo; ma neppure il giovedì egli si lasciò vedere.
Il venerdì mattina Osca andò al mercato, e coi denari ricavati dalla vendita dell’uva bianca e del frumentone, e con altri risparmi della madre, comperò una vacca.
Fu una festa quasi religiosa per tutta la famiglia. La grande bestia placida, che pareva uscita da un bagno di caffè e latte e tutta lucidata col burro, fu accolta come un idolo, come il primo segno tangibile dei nuovi destini della famiglia. Il lavoro ed il sudore di tutti i cinque fratelli, l’insonnia ed i sacrifizi della madre, l’obbedienza dei figli, tutto era concretato nella vacca tranquilla. Ed essa attraversò l’aia, quasi compiacendosi della sua importanza, dondolando come campane di promessa le lunghe mammelle già piene, e guardandosi attorno coi grandi occhi che parevano umidi di lagrime di consolazione.
Lo zio Dionisio pianse in realtà, ricordando la ricca stalla dei nonni, dove le bestie bovine e vaccine, in armoniosa teoria, dal toro leonino fino ai vitellini di latte piccoli come cani, si stendevano simili ad una giogaia di nuvole chiare dalle quali pioveva denaro.
Anche il cane fece lieta accoglienza all’ospite nuova, ed i buoi da lavoro muggirono nel vederla entrare nella stalla.
E quando alla sera fu munta, i bambini piegati a guardare fra le sue zampe, la nonna che reggeva in mano il vaso luccicante del latte, il vecchio barbone che fissava la vacca con occhi da innamorato, formavano un quadro che avrebbe entusiasmato un pittore di cose semplici.
Baldo portò il latte al caseificio, e quando consegnò i denari alla madre fu contento nel vedere ch’ella si faceva il segno della croce.
L’avvenimento aveva dissipato anche la preoccupazione di loro due; ed il colloquio della domenica notte già prendeva una sfumatura di sogno, quando arrivò Pinon.
Forse egli aveva saputo dell’acquisto della vacca e veniva a partecipare alla festa; ma il suo viso era insolitamente triste, sofferente anzi: appena lo vide, Annalena sentì come un serpente velenoso guizzarle dentro il cuore.
Prima ancora di salutare, Pinon tese la mano destra; col polpastrello del pollice sfiorò, a cominciar dal mignolo, le unghie delle altre dita, poi aprì e fece volare la mano: e disse sottovoce:
— La figlia di Urbano Giannini è sparita.
— Sparita?
— Sparita?
— Ma come, sparita?
Tutti gli si erano accumulati intorno, e mentre il viso di Annalena si scoloriva, quello di Baldo si accese di più. Il mendicante scuoteva le spalle, come per liberarsi di un peso. Allora Pietro, minaccioso sul serio, quasi convinto che Pinon sapesse minutamente il fatto e non volesse raccontarlo, gli mise un pugno sotto il mento.
— Sparita, come?
— Che ne so io? È sparita. Non è più in casa sua.
— Chi te lo ha detto?
— Lo dicevano le donne che vendemmiavano nella vigna dei Gelmini.
Senza ritirare il pugno, Pietro insistè:
— Che altro dicevano? Parla.
Impaurito, Pinon adesso parlava come se il fatto lo riguardasse personalmente:
— Dicevano che mereoledì scorso la bambina è andata dai nonni e non ha più fatto ritorno a casa sua: mercoledì nel pomeriggio, — precisò, e d’un tratto parve sfidare lo sguardo metallico di Pietro. — Il padre la cerca disperato; la polizia ed i carabinieri sono in giro.
Mercoledì, nel pomeriggio. Annalena e Baldo si guardarono, ed un lampo di rimprovero balenò negli occhi del figlio. Lo stesso pensiero li atterriva: che Pietro avesse messo in opera il suo infernale progetto. Lo stesso contegno di lui verso Pinon, coloriva violentemente il sospetto.
— Lascialo, — disse la madre, con durezza: — che ne sa, lui?
E Pietro lasciò andar giù pesantemente il braccio, poi disse:
— Che me ne importa, dopo tutto?
— Già, a te non importa nulla di nulla! caschi pure il mondo, purchè sia salvo il corpaccio tuo.
Era Baldo che parlava, e delle sue parole si sentiva quasi il sapore amaro; tanto che Pietro si rivoltò.
— Ce l’hai con me, tu? Perchè la tua santarella è probabilmente scappata col suo bifolco? Ma va all’inferno.
Alzava la voce, Pietro, e diceva parolacce che appestavano l’aria intorno imbevuta di dolore: e chi sa dove si sarebbe andati a finire, se nel vano del portone in fondo all’aia, come richiamato dalle voci dei suoi fittabili, non fosse apparso il Giannini.
Un grave silenzio accompagnò l’avanzarsi che egli fece a testa bassa e movendo in avanti il bastone come fanno i ciechi. Annalena gli andò incontro. Egli sollevò la testa e la guardò come non la riconoscesse: poi si tolse il cappellaccio in segno di saluto, e arrivato nell’ingresso si lasciò cadere d’un colpo sulla scranna bassa usata da Annalena.
Pareva stanco: stanco di un lungo viaggio a piedi: le sue scarpe ed il vestito erano gialli di polvere, qua e là strappati: fiori di spighe e spine ornavano l’orlo dei suoi calzoni; ed anche fra i capelli si vedevano pagliucole di fieno: infine pareva facesse concorrenza a Pinon, tanto che Bardo, nonostante il turbamento degli altri, strinse le labbra per frenare il suo perfido sorriso.
Ma l’uomo dovette accorgersene, perchè fu proprio verso di lui che sollevò il viso severo e quasi sinistro.
— Così è, — esclamò, ficcandosi il cappotto sul ginocchio; e poichè sul ginocchio non volle starci, lo mise in cima al bastone, e cominciò a farlo rotare con la mano nervosa. Quel movimento diede ad Annalena un senso di angoscia: le pareva di vedere la testa stessa del disgraziato portata in giro dalla follia. Lieve, quasi furtiva, tolse il cappello dal bastone e dopo averlo appeso all’attaccapanni, sedette accanto all’uomo; e poichè egli non parlava più, e nessuno osava domandargli notizie, disse con tristezza!
— Abbiamo saputo solo adesso della disgrazia. Ebbene?
Egli si mise il bastone sulle ginocchia, poi aprì le mani con un gesto quasi di rassegnazione.
— Nulla. Non si sa nulla. Mercoledì è andata in casa dei nonni, passando per il viottolo dei Gelsi, poi attraverso il campo dei Gelmini: al ritorno fece la stessa strada: fu veduta imboccare il viottolo, e nessuno più, da quel momento, ne sa nulla.
Si avanzò Baldo, ancora infocato in viso, e tirandosi su e giù sul petto il fazzoletto bianco che aveva al collo, domandò con accento inquisitore:
— A che ora è stato?
L’uomo lo guardò di sotto in su, fisso, convergendo gli occhi come fanno gli uccelli da preda quando vedono un essere sconosciuto; poi si animò, quasi gli sembrasse di aver finalmente trovato chi poteva e voleva aiutarlo a ritrovare Lia.
— È stato nel pomeriggio, fra le cinque e le sette. Perchè? — gridò sobbalzando.
Aveva veduto Baldo morsicarsi il labbro inferiore. — Tu sai qualche cosa, ragazzo?
La madre ebbe un momento di terrore: ma Baldo rispose in modo evasivo.
— Io non so nulla. Penso però che il nostro parroco potrebbe....
— Eh, quando mai non veniva in ballo il sor prevosto? — sghignazzò Pietro: e Bardo rise, piano, piano, ma con una nota ironica che vibrò come il ronzio di una corda stridente.
Senza badare a loro, Baldo proseguiva:
— Potrebbe parlare al popolo, dal pulpito, ed invocare la testimonianza e l’aiuto di tutti. Volete che qualcuno non sappia? Sa, e toccando la sua coscienza lo si può far parlare.
L’uomo s’era rimesso a sedere, con le mani aggrappate al bastone, la testa bassa: Annalena notò che i capelli gli si erano imbiancati.
— Io credo sia morta, — egli disse, di nuovo stranamente rassegnato. — È andata al fiume e ci si è buttata: solo il fiume potrà parlare.
Annalena però disse con voce ferma:
— Tu sragioni, Urbano. Lia è troppo religiosa per fare una cosa simile. Vedrai che non è così. Lia è viva e presto la rivedremo sana e salva.
Egli però non dava più ascolto nè a consigli nè a conforti; cominciò a scuotere la testa sfiorando la testa di cane del suo bastone, e parlò ancora come fra di sè, ricordando:
— Che notte quella di mercoledì! Non vedendo ritornare la bambina, corsi dai miei suoceri, e figuratevi la scena che ne seguì. Pianti, gridi, supposizioni; poi improperi contro di me, che ho rovinato la loro unica figlia ed ho lasciato la bambina perdersi come una piccola mendicante rapita dagli zingari. Poi vollero venire con me, i vecchi, a cercarla: e tutti i contadini loro e dei vicini, e le donne, i ragazzi, i cani, si sguinzagliarono alla ricerca. Dappertutto si sentiva fischiare e gridare, chiamando la poverina, come se lei si fosse nascosta per scherzo e non volesse rispondere. Fu tale il mio strazio, dopo ore ed ore di ricerca, anche nei fossi, che me ne andai senza salutare nessuno. Corro ad avvertire i carabinieri, corro al fiume ed incarico i pescatori e quelli del tragitto, di esplorare le acque.
Nulla; nulla. E così il giorno dopo, e così fino a questa mattina. Non ho mai chiuso occhio; non rientro a casa per paura: tutto il mondo è per me un braciere e dove metto il piede mi scotto. Ma perchè il Signore ce l’ha così con me? Porco cane....
Buttò il bastone per terra, e bestemmie inaudite gli uscirono di bocca: poi si alzò, pestò i piedi come se il pavimento scottasse davvero, e si tese a prendere il cappello per andarsene.
Andare, andare. Gli pareva che il suo destino fosse ormai questo; camminare senza pace, senza meta, come l’Ebreo errante, inseguito dalla maledizione di Dio.
Annalena gli afferrò una mano, per trattenerlo, per consolarlo.
— Ricordati, Urbano, come parlavi un tempo. La tua saggezza se n’è dunque tutta andata?
Ma egli la guardò dall’alto, lontano, estraneo, ed ella sentì la mano di lui scivolarle fra le dita come quella di un morto.
E un’ombra di morte gravò da quel momento sulla casa dei Bilsini.
Annalena e Baldo si consultarono in segreto: il giovane fu del parere di non dir nulla ancora a Pietro nè ad altri.
— Sarebbe meglio pedinarlo e riuscire a sapere dove ha fatto nascondere Lia.
La madre però, in fondo, sperava e temeva che Pietro fosse estraneo all’avventura, e non voleva che gli altri dividessero il loro sospetto; anche perchè il presunto colpevole, orgoglioso e puntiglioso, poteva reagire e vendicarsi. Ma qualche cosa bisognava fare. Allora decisero di parlare solo con lo zio Dionisio e consigliarsi con lui.
In quei giorni stava poco bene, lo zio Dionisio, o meglio era preoccupato per la paura di un nuovo colpo che poteva immobilizzarlo completamente. Ricordava il bisnonno Luigion, quello che si faceva comprare di nascosto il vino dalla zingara; e si domandava se, dopo tutto, considerato che il suo destino era questo, non valeva la pena di concedersi pure lui il conforto di un buon bicchiere di lambrusco, e magari di due.
Più che credente egli si sentiva filosofo, e come tale, poichè non aveva paura dell’inferno, cercava di persuadersi che, la vita avendo una fine, bisogna passarla alla meglio, salvo sempre a non far male a nessuno.
Il vino, poi, non c’era bisogno di procurarselo di nascosto: tutti glielo offrivano, compresi i bambini, ed egli lottava contro sè stesso e gli altri per privarsene.
Con questi pensieri se ne andava in giro per i campi, col suo bastone ed il peso morto della sua carne; osservava il lavoro dei nipoti e viveva della loro vita. Il cane ed i bambini invariabilmente lo accompagnavano: egli parlava un linguaggio adatto a loro, e rispondeva a tono alle loro osservazioni: per questo non potevano fare a meno gli uni degli altri.
I bambini, come i più vicini alla terra, trovavano di continuo qualche cosa da raccogliere o da studiare: tutto era buono per la loro curiosità e la loro ammirazione; ed anche per i frequenti contrasti, subito combattuti e dispersi dal bastone del vecchio.
Il cane, coi suoi occhi umani sempre fissi a scrutare in viso i suoi padroni, prendeva parte attiva ai loro discorsi e movimenti, abbaiava se i bambini si azzuffavano; correva avanti e poi tornava indietro coi suoi lunghi cernecchi tutti in festa se la compagnia procedeva allegra e d’accordo. Se i bambini si aggrappavano a lui si accucciava per sottomettersi meglio, e tentava di abbracciare il vecchio rizzandoglisi tutto caldo e fremente addosso, se egli lo accarezzava col bastone.
Quel giorno, mentre nell’ingresso della casa si svolgeva la torbida scena fra il mendicante ed i giovani fratelli Bilsini, egli se ne stava appunto in fondo al campo dell’erba medica, mentre Osca provava un aratro nuovo, a carrino, che avevano acquistato da pagare a rate.
I giovenchi ed i buoi faticavano meno, ed anche lui, Osca, che anzi si faceva trasportare sul carrino per forzare meglio l’aratro, il cui rullio lo divertiva come una musica nuova.
Il vecchio, tenendo fermi i bambini che volevano montare anch’essi sul carrino, non approvava e non disapprovava il nuovo metodo: di solito egli accoglieva con ostilità le innovazioni, e quando si parlava di macchine elettriche diceva che erano opera del demonio per togliere all’uomo il suo maggior bene sulla terra: il lavoro. E poi la terra deve essere fecondata dal sudore dell’uomo e delle bestie, altrimenti i suoi frutti non hanno sapore: tuttavia nel vedere adesso il nuovo strumento rimaneva perplesso.
In realtà le bestie faticavano di meno, ed il lavoro procedeva rapido, la terra balzava su più folta che sotto l’aratro ordinario, quasi con molle obbedienza, come l’onda scavata dal remo; e l’odore delle radici dava l’impressione che lo scasso fosse di una grande profondità.
Arrivato in cima al campo, Osca fermava il carrino, per dar tempo alle bestie di riprendere respiro, ed esse brucavano qualche foglia, ansando come se bevessero: allora egli balzava a terra e si piegava a guardare e toccare tutti i congegni dello strumento come un bambino col suo giocattolo nuovo.
Dapprima fu Gina che, col viso viola, affannata, ma più per la novità dell’avvenimento che per il dolore dello stesso, venne di corsa a dare la misteriosa notizia.
— La Lia del Giannini è scomparsa: da mercoledì; è andata dai nonni e non è più tornata. È sparita nel viottolo dei Gelsi: l’hanno rubata, certo. Ed i suoceri volevano ammazzare il Giannini. Egli sembra pazzo; è andato anche in fondo al Po, per cercarla. L’hanno fatta sparire nel fiume e.... e....
I bambini si strinsero al vecchio, fissando la madre con occhi impauriti: poichè per conto loro pensavano entrambi fosse stato l’orco a rubare la fanciulla.
Osca, tutto felice del suo aratro, si mise a ridere per le frasi ingarbugliate della moglie; e lo stesso zio Dionisio osservò con calma:
— Ma che dici? Racconti una favola?
— Altro che favola, — ella disse, offesa; e riprese a raccontare meglio il fatto.
Il vecchio osservò ancora:
— È curioso che da noi non si sia saputo nulla fino ad oggi; — ma Osca replicò che nessuno di loro, tranne Pietro, era stato nel paese accanto: e di solito Pietro non si interessava dei fatti altrui, riguardassero pure il padrone.
— La ragazzina sarà scappata con qualche bellimbusto, — disse poi saltando di nuovo sul carrino dell’aratro: ed il vecchio sospirò:
— Sono così, le ragazze d’oggi. Ad ogni modo tutto è strano, in questa faccenda.
Rientrando in casa, più tardi, osservò sul viso di Annalena, insolitamente pallido, una preoccupazione evidente. Nell’accorgersi che egli la guardava con curiosità, e poichè i giovani erano di nuovo usciti nei campi, dove anche Gina e i bambini s’indugiavano, ella non esitò oltre a parlare. Chiuse la porta in fondo all’ingresso, lasciando fuori il cane perchè neppure lui sentisse, poi tornò a riprendere il suo posto sulla scranna lasciata vuota dal Giannini; e le parve di investirsi della parte di lui, come un attore che sente fino al sangue il dolore del protagonista che rappresenta.
— La figlia del padrone è scomparsa: ve lo hanno già detto? Mercoledì, nel pomeriggio, è andata in casa dei nonni, passando per il viottolo dei Gelsi, poi nei campi dei Gelmini: al ritorno fece la stessa strada: fu veduta imboccare il viottolo e da quel momento nessuno sa più dire nulla di lei.
E poichè il vecchio, seduto davanti a lei, l’ascoltava insoddisfatto, ella fece un gesto con la mano come per dire «aspettate e poi vedrete».
— Questo avvenne fra le cinque e le sei: tenete bene a mente quest’ora. Il Giannini, non vedendola ritornare, corse dai suoceri, che dapprima piansero e gridarono, poi si rivoltarono contro di lui come serpi rinfacciandogli di aver rovinato la loro famiglia. Poi tutti andarono nei campi, a ricercare la ragazza: furono sguinzagliati i cani, si esplorarono i fossi e le siepi. Nulla. Il disgraziato avvertì i carabinieri, fece ricerche nel fiume. Nulla, nulla. E da tre notti e tre giorni prosegue questo martirio; e proseguirà ancora se a qualcuno, che forse sa dov’è la ragazza, non si sveglia la coscienza ed il timore di Dio.
Il vecchio capì immediatamente, più che dalle parole, dall’accento tragico e accorato di lei, che questo «qualcuno» era in famiglia. Come colpito alle spalle da una mano che l’avvertiva e gli faceva del male, abbassò la testa e domandò!
Chi è?
— Ascoltate, zio. Io ho detto forse, perchè quando si tratta di coscienza bisogna prima di tutto badare alla propria. Dunque, andiamo adagio. Domenica sera Baldo, mentre noi si stava in cucina, chiacchierava con Bardo e Pietro, nell’aia. D’un tratto, poichè Pietro si lamentava di dover riprendere a lavorare come un forzato, avendolo Baldo ripreso, cominciò a parlar male ed a bestemmiare; tanto che il piccolo si allontanò; ma dal posto dove si mise, continuò a sentir Pietro sacramentare e dire che non voleva più sposare Isabella, perchè non gli piace, perchè la vecchia Mantovani è avara e lo costringerebbe anche lei a lavorare come un servo, mentre lui intende di godersi la gioventù e la vita.
E, dunque, concluse col dire che aveva un progetto per la testa; fare la corte alla Lia Giannini, sedurla, o nasconderla in qualche posto, onde costringere il padre a lasciargliela sposare. E tutto questo per interesse, per fare una vita conforme ai gusti suoi che noi conosciamo. Ora, il più grave è che mercoledì, nel pomeriggio, fra le cinque e le sei, quando Lia è scomparsa, Pietro era là. Non vi pare strano tutto questo?
— È strano, sì.
Le parole del vecchio furono aspre, dure. Egli si strinse la barba con la mano sana, tirandosela, come uno che nel momento del pericolo si afferra ad un sostegno. Le sue sopracciglia bianche parvero arruffarsi, un’espressione di sgomento gli scompose il viso; poi d’un tratto si rasserenò e si scosse: l’istinto gli diceva che Pietro, suo nipote, Pietro che egli aveva condotto per mano, bambino, in chiesa e pei campi guardati da Dio, non poteva aver commesso il misfatto di cui lo si accusava.
— Pietro non è cattivo, in fondo: è turbolento, è riottoso, e pare diverso dalla nostra razza, quasi abbia nelle vene sangue di zingari; ma non è cattivo. Può chiacchierare, ma non osare. Non è lui che ha fatto sparire la Lia.
Il suo accento quasi ispirato sollevò momentaneamente la madre: poichè anche lei sperava nell’innocenza di Pietro. Le parole del vecchio «può chiacchierare, ma non osare», le rimbalzarono però nella mente come respinte da un ricordo fisso e sinistro: il ricordo di Gina sconvolta, quel giorno d’inverno, dopo l’assalto bestiale di lui. Oh, s’egli osava!
— Anch’io spero sia così, — disse, con una voce pallida e triste che contrastava con quella di poco prima; — però le circostanze lo accusano; ed io sono qui non per cercare di nuocergli, ma di giovargli. Consigliatemi voi.
Egli si stringeva la barba: piegò di nuovo la testa, corrucciato, poi domandò!
— Tu sei certa che la ragazza non avesse qualche spasimante?
— No, no. Voi l’avete veduta: è quasi ancora una bambina, brutta, religiosa fino alla mania. È poi affezionata al padre come nessun’altra. Volete che lo lasciasse così, in questo modo, giusto adesso che la disgrazia della moglie l’opprime tanto? Bisognerebbe che fosse pazza anche lei.
— Eh, non si sa mai! I figli dei pazzi possono diventare pazzi anche loro.
E parvero tutti e due afferrarsi a questa sinistra probabilità, che, se non salvava Lia ed il padre, almeno salvava la famiglia Bilsini.
La donna fu la prima a scivolare di nuovo sulla china buia del sospetto.
— No, no, caro: troppe ricerche si sono fatte, perchè la ragazza, se scappata in un momento di pazzia, non venisse ritrovata.
Anche si fosse buttata nel fiume, a quest’ora il cadavere sarebbe stato ripescato. Il ragazzo Trolli, che s’è annegato giorni fa, dopo ventiquattro ore è riapparso a galla.
— Tante ricerche! Sei certa, poi, che sono state fatte? Intanto qui, il Giannini s’è lasciato vedere solo oggi, e noi ancora nulla si sapeva.
— È vero, — ella esclamò colpita; e d’istinto guardò fuori, in alto, verso la torre sopra la quale i colombi svolazzavano bianchi e neri come grosse rondini. Lassù c’era una stanza con vecchi arnesi lasciati fin dal tempo degli antichi padroni; e vi si poteva benissimo nascondere qualcuno: ma subito fece una smorfia di derisione verso sè stessa. Quelle erano fantasie da lasciarsi a Baldo.
— Quando si pensa al male, tutto pare possibile, — sospirò. — Baldo, per esempio, crede che Lia sia nascosta nell’Isola, dove Pietro avrebbe preparato una capanna e le porterebbe da mangiare. Il fatto è che, dopo mercoledì, egli non è più uscito di casa, se non per lavorare nel campo.
Il vecchio seguiva con profonda attenzione ogni parola, ogni espressione del viso di lei: ancora una volta piegò la testa, la cui calvizie rosea, circondata dai raggi dei radi capelli argentei, luccicava al riflesso del tramonto come quella di un profeta ispirato, e appoggiò la barba al bastone.
Egli si piegava sulla sua coscienza, come sopra un pozzo del quale a tutti i costi bisognava vedere il fondo: quando gli parve di averlo veduto, si sollevò e disse:
— Parlerò io, con Pietro, questa sera stessa. Lasciateci soli, e che da questo momento nessuno più accenni alla cosa.
Ella si alzò e andò in cucina a riaccendere il fuoco. Egli invece rimase lì, immobile, col viso rivolto al tramonto, come un vecchio fachiro in contemplazione: ed in realtà egli guardava uno spazio misterioso, di là dall’orizzonte sopra il muro dell’aia, dove sul cielo di viola il sole, accompagnato e seguito da nuvolette simili a piume d’oro e di carminio, pareva un favoloso uccello di fuoco che volasse oltre l’universo.
E aveva l’impressione che qualche cosa di lui, una piuma della sua anima, si fosse staccata e accompagnasse quel tramonto che gli pareva l’ultimo della sua vita. Sentì rientrare i bambini e la Gina, e questa mettersi a preparare la polenta: sentì entrare i giovani, e, all’oscurarsi del cielo, vide Giovanni ritornare in bicicletta da una gita di affari.
Anche il giovine portava la notizia ed i commenti che se ne facevano in tutti i paesi dei dintorni: la Gina e Bardo rispondevano, ed anche Osca, mentre Annalena, Baldo e Pietro, come d’intesa fra di loro, non aprivano bocca.
Quando fu chiamato per la cena, il vecchio parve destarsi da un lieve sonno; mangiò la sua polenta, e quando Giovanni, come al solito, gli offrì da bere, accennò ad accettare, poi scosse la testa, avvicinò a sè la bottiglia dell’acqua e vi guardò attraverso, con gli occhi alquanto vitrei, sembrandogli di vedere i nipoti in una grande lontananza, come di là di un largo fiume.
Il dubbio che Pietro avesse commesso il reato, che per lui era un delitto, e tuttavia sedesse tranquillo alla mensa famigliare, come Giuda fra gli Apostoli, più che collera e paura gli destava uno stupore angoscioso. Dunque, tutto nella vita è possibile: dunque, anche gli altri nipoti, dei quali egli credeva di veder l’anima come ne vedeva la presenza, lo stesso Giovanni, la stessa Annalena, potevano essere colpevoli di qualche misfatto: e si sentiva la terra mancare sotto i piedi: così l’albero secolare sulla china del monte, quando la terra frana alle sue radici.
La solita filosofia gli veniva a mancare con la stabilità della sua credenza cieca nel bene: sì, tutto passa, tutto un giorno sarà dimenticato: ma se non portiamo di là, nello spazio dove ci scioglieremo, un atomo di questa credenza nel bene, forse, ritornati atomi pure noi, continueremo a soffrire: mentre nel caso contrario tutto sarà gioia per noi, anzi saremo noi stessi la gioia.
Egli pensava queste cose a modo suo, e tornava a sperare che Pietro non fosse colpevole.
Dopo cena si mise a fare con le carte un complicato solitario, domandandogli la soluzione del problema: il gioco rispose che Pietro era innocente; ed egli se ne compiacque ingenuamente.
Quando sollevò gli occhi dalle carte tutte disposte sulla tavola come un quadrato di giardino fiorito, vide che nella cucina rimaneva solo Pietro che leggeva un giornale.
Come Annalena avesse manovrato per far sparire gli altri, egli non se n’era accorto, e non seppe spiegarselo; ma provò un’impressione strana; gli parve di essersi addormentato sulla sedia, nell’ingresso, davanti al tramonto, e che vi dormisse tuttora e sognasse.
Con una voce senza suono, come appunto nei sogni, chiamò:
— Pietro?
Il giovine sollevò il viso: era ancora lui, il bruno e bello piccolo Pietrino, quando, tenuto per mano dallo zio, camminando e inciampando lungo i sentieri dei campi, si protendeva per domandare la spiegazione di una cosa difficile.
Anche adesso era una cosa difficile che bisognava spiegare, ed il vecchio esitava: infine domandò:
— Dove sono andati gli altri?
Anche Pietro si guardò intorno alquanto trasognato.
— Mah! Sono spariti tutti.
— Spariti, — ripetè il vecchio; e questa parola parve ricordargli tutto un mondo lontano. Si sollevò il più che poteva, appoggiandosi bene alla spalliera della sedia, e con un moto istintivo si sparse la barba sul petto, come per apparire più imponente, con una maestà primitiva di Dio giudice.
Del resto Pietro non se ne accorse: s’era rimesso a leggere: leggeva un fatto drammatico di cronaca, che lo teneva avvinto come un romanzo; e tornò a sollevare gli occhi alquanto impazientito quando si sentì di nuovo chiamare.
— Pietro? Hai sentito la faccenda della figlia del nostro padrone?
Le due ultime parole, che di solito gli riuscivano ostili, finirono di urtarlo.
— Padrone un corno. I padroni qui siamo noi.
— Questo non importa. Io volevo solo domandarti che ne pensi della scomparsa della bambina.
— Anzitutto non è una bambina perchè ha diciassette anni; e poi, che volete che ne pensi? Che ne so io?
— Insomma, tu te ne disinteressi completamente?
La voce del vecchio s’era fatta acuta: Pietro se ne sentì punto: i suoi occhi si accesero, fissarono lo zio Dionisio; e confusamente egli dovette trovare nell’aspetto di lui una parvenza solenne, perchè corrugò la fronte come alla visione improvvisa di un misterioso pericolo.
Respinse sulla tavola il giornale e si mise sull’attenti, ricordando i suoi recenti superiori militari.
— Perchè mi fate queste domande? E perchè ci hanno lasciato soli? — aggiunse, fra di sè, con un senso di congiura da parte della madre e dei fratelli.
— Sei tu che devi rispondere alle mie domande, Pietro. La spiegazione verrà dopo.
— Ed io non voglio rispondere, finchè non ho capito di che si tratta.
— E allora, ascoltami: questa è la pura verità. Qualcuno è venuto a dirmi che tu, forse, sai dove la ragazza si nasconde. Ed io, in mia coscienza, vengo a domandarti quanto c’è di vero in questo sospetto.
Pietro pareva non capisse bene; e stette lì sospeso, fra la curiosità, lo sdegno, l’allegria.
— Chi è che è venuto a dirvelo?
— Ricominciamo? Questo non importa, o importerà a suo tempo. Tu, intanto, devi rispondere alla mia domanda.
— Ed io non vi voglio rispondere, finchè voi non mi direte per quale ragione io devo sapere dove quella scimmia s’è andata a nascondere.
Il vecchio si scompose: sollevò il bastone come in atto di minaccia, poi lo depose sulla tavola, sopra le carte.
— Questo è un gioco di parole, Pietro. Basta. E allora ti dirò nettamente di che si tratta. Si tratta che tu vieni sospettato di aver rapito e nascosto la ragazza, per costringere il padre a lasciartela sposare.
— Questo è quell'imbecille, mascalzone, baciapile, figlio d’un prete, di mio fratello Baldo, che è venuto a dirvelo, — gridò Pietro: e rise; ma di un riso digrignante, che lasciava vedere i denti feroci come quelli di un lupo: e lo zio Dionisio ebbe d’un colpo la convinzione della colpa di lui.
Una tristezza infinita lo circondò, col freddo terrore di un’acqua invadente nella quale si deve affogare.
— Pietro, Pietro, — disse, fra la minaccia ed il rimprovero, — c’è poco da ridere, di questa brutta faccenda. Se è vera, c’è sempre tempo a rimediarla; se non è vera, il tuo riso è come quello di Satanasso, che si compiace del dolore altrui.
Pietro si fece serio, anzi accigliato e cupo.
Pensava a quello spione di Baldo, con rancore mortale, e al modo di vendicarsi. E doveva esserci di mezzo anche la madre, e tutta l’onorata famiglia, che lo teneva in punta di naso, e lo perseguitava, lo sospettava, gli metteva sempre i bastoni fra le ruote, per impedirgli di camminare e fare il fatto suo.
Un momento. Si sentì gonfiare le tempie; si sollevò anche lui, di fronte al vecchio, con un viso di brigante, minaccioso e sanguigno.
— Che cosa intendete dire: rimediare, se la cosa è vera?
— Intendo dire andar dritto, immediatamente, dal disgraziato Giannini, confessargli il misfatto, chiedergli perdono, e togliendolo dalla sua mortale angoscia, rimettersi umilmente a lui per il resto.
— Oh, che bella festa; oh, che bella festa! E se, ammesso che io, come voi dite, sia colpevole, il Giannini, invece di accogliermi a braccia aperte, mi tirasse una schioppettata, o mi denunziasse ai carabinieri?
— Egli non lo farà. È troppo angosciato, per farlo; e se lo facesse, sarebbe un giusto castigo per te.
— Grazie tante, — sogghignò Pietro; e parve riflettere; poi rise di nuovo, col suo riso di boia. — Io non andrò mai dal Giannini, a fare quella parte. Se anche lui mi crede colpevole, venga lui da me.
— Tu però ancora non hai detto se lo sei o no.
— Questa è una faccenda che riguarda solamente me. Ed io solo devo distrigarla.
— Pietro. — disse allora il vecchio, scomponendosi d’un tratto, come una figura fantastica che sta per disfarsi, — tu credi di giocare con me come il gatto col sorcio. E ti sbagli; perchè in questo caso il sorcio sei tu, e preso in trappola per bene. Inutile che io mi rivolga ancora a te come ad un uomo onesto, poichè tu, parlando come parli, ti metti fuori d’ogni legge. Ed allora ti dirò che se continui così, a burlarti della pena altrui, a non mettere in chiaro le cose, ad affermarti e non affermarti colpevole, per tagliare corto, io stesso domani mattina ti denunzierò ai carabinieri.
Pietro lo guardava fisso, or con cipiglio selvaggio, or sogghignando con ironia; e gli pareva che loro due recitassero la commedia, e che dietro gli usci i fratelli e la madre ascoltassero come spettatori, o attori pur essi fra le quinte di un teatro.
Quando lo zio Dionisio gli ebbe annunziato la sua estrema decisione, balzò in piedi, respingendo con un calcio la sedia che cadde con fracasso.
— Ebbene, — disse, con rabbia e crudeltà, — accomodatevi pure. La ragazza l’ho fatta scomparire io, e farò di lei quello che mi pare e piace.
Poi andò a prendere il suo berretto; se lo calcò bene sulla testa come quando soffiava il vento, e uscì fuori di casa.
La madre, su, seduta sullo scalino sotto la finestra della sua camera, lo sentì attraversare l’aia, socchiudere il portone e andarsene nella notte chiara di luna e di stelle. Che era accaduto, giù? Lo zio Dionisio non si moveva: ed il cuore di lei cominciò a battere forte, come se giù fosse accaduta una tragedia; o come quando, appunto nelle notti di vento, ella credeva di sentir gli alberi schiantarsi e i ladri tentare di assalire la casa e rovinare la famiglia.
Piano piano, scalza, aprì l’uscio, attraversò le camere dove già gli altri dormivano, s’affacciò all’erta scala dove, nel buio, si respirava d’abisso.
Un lieve chiarore che d’un tratto scivolò su dall’ingresso ai primi scalini in fondo, la rassicurò. Lo zio Dionisio s’avviava a letto. La figura di lui, tutta dorata dal lume ch’egli teneva in mano assieme col bastone, apparve giù, accompagnata dalla grande ombra sulla parete, come quella di un eremita in fondo ad una grotta.
Con meraviglia Annalena, che gli andò incontro per aiutarlo, vide che egli saliva da solo, lentamente, sì, gradino per gradino, ma senza bisogno di sostegno. Gli occhi di lui, però, erano strani, e la fissavano senza riconoscerla.
Ad un cenno interrogativo di lei, parve svegliarsi di soprassalto, come un sonnambulo: si ricordò, si fermò: accennò col lume alla camera dove dormiva Giovanni, poi si mise lo stelo del candeliere attraverso la bocca, in modo che la fiammella del lume gli arse sopra la fronte.
Tacere. Non era il momento, quello, di parlare. La notte, poi, porta consiglio, e l’alba dissipa le ombre.
Annalena tornò nella sua camera quasi riconfortata; sicura, ad ogni modo, che la saggezza del vecchio avrebbe aggiustato le cose: ed egli, dopo tenaci sforzi per non svegliare Giovanni, riuscì a mettersi a letto.
Il letto era tanto grande che i due uomini non si toccavano; quella notte, poi, il giovine, ch’era stato tutto il giorno fuori viaggiando in bicicletta, dormiva profondamente.
Il vecchio dunque, spento che ebbe il lume, provò l’impressione di essere solo; e quando si fu disteso dalla parte destra, col peso sopra della parte viva, sentì una gradevole sensazione di calore e di benessere: gli parve di essere penetrato in un luogo sconosciuto, dove tutto era piacevole: una strada erbosa, fra alti alberi, gli si stendeva davanti, ed egli la percorreva, d’improvviso guarito e ringiovanito. Tutto il passato, anche il più acre e recente, era scomparso: egli camminava per la nuova strada, verso una meta che non conosceva ma che sentiva buona e serena.
D’un tratto sussultò: risalì dal suo improvviso sopore: e gli parve che il suo cuore fosse incappato, come la lieve lepre che corre felice tra il fieno, in una trappola mortale.
Si mise supino e disse a sè stesso:
— Che hai fatto, vecchio porco, che hai fatto?
Il delitto di Pietro, che gli riapparve alla memoria chiaro e sinistro come una saetta, gli sembrò un gioco in confronto a quello che aveva commesso lui, quando, rimasto solo dopo il triste colloquio, si era sentito ingoiare dalla disperazione.
Aveva bevuto. Due, tre bicchieri di vino forte; o forse quattro; fino a sentirsi un altro, come ringiovanito da un sangue misterioso che gli ridonava la forza dell’uomo vicino a Dio.
Così era riuscito a salire la scala, come la scala di Giacobbe, ed a rimetterei da solo a letto: ma adesso Dio lo castigava, per la sua temerità e l’infrazione alla legge del dolore.
Stette lungamente sveglio, senza però agitarsi. Tutte le preghiere che sapeva fin da bambino gli tornavano alla memoria: non le recitava, ma le passava come in rivista, una per una, parola per parola, e questo esercizio tornava a sollevarlo. Poi ricadeva nel ricordo di Pietro e del suo misfatto: ed il pensiero dell’incapacità di Pietro a sentire il bene, era sempre lì, come un macigno mostruoso, uno scoglio nero, intorno al quale tutto era ombra e pericolo.
Dov’era adesso, Pietro? Forse era andato nel nascondiglio della sua vittima, per nascondersi anche lui.
Ma ecco che Pietro rientra in casa: si sente il suo passo giù nell’ingresso: un uscio cigola, una sedia viene smossa: poi tutto è silenzio.
Il vecchio riprende le sue preghiere: ringrazia Dio di aver ricondotto Pietro a casa, e di permettere a lui, Dionisio, vecchio peccatore, di pentirsi e domandare perdono.
Così, a poco a poco, si riassopì: sogni cattivi però cominciarono a farlo soffrire.
La bella strada del primo sogno si mutò in un sentiero erto eppure scivoloso, fra due siepi spinose dalle quali penzolavano, attorcigliandosi come fruste agitate, serpi e bisce. Egli saliva carponi, pieno di angoscia e di paura, ma spinto da una volontà insuperabile di compiere il proprio dovere.
In alto, in un nascondiglio fra le pietre, si trovava Lia: ed egli doveva cercarla, trovarla e riportarla al padre.
Ma il sentiero d’un tratto cessa; ed egli si trova sopra un argine altissimo: sotto c’è il fiume, o meglio il letto del fiume, poichè le acque si sono ritirate, e solo un po’ di sabbia umida circonda le isole che sembrano grandi cesti di verdura.
In una di queste è Lia, e bisogna andare a cercarla e riportarla al padre.
Egli si mette a sedere sul limite dell’altura, deciso a lasciarsi scivolare giù per la china, se non può scendere in altro modo: l’argine però cede sotto il suo peso ed egli si sente sprofondare lentamente come ingoiato dalla terra.
Potersi abbandonare a questo richiamo delle profondità, sarebbe quasi dolce, se egli non avesse ancora quel dovere da compiere: tuttavia si lascia tentare: è come un sonno nel sogno, un discendere quieto nel mistero della morte.
È la morte: egli lo sente, e non ne prova terrore: gli pare anzi di andar giù, dentro un luogo di pace, nel centro della terra, dove è Dio.
E si meraviglia di aver sempre creduto che Dio è in alto, nel vuoto dei cieli, e che si debba volare per giungere a Lui; mentre è sotto di noi, nella profondità della terra, e si deve scendere per ritornare a Lui.
— Ecco perchè si seppelliscono i morti, — pensa, e non si sgomenta nel vedere le pareti del suo strano sedile alzarsi, alzarsi, fatte di terra umida e grassa come quella dei campi arati.
D’un tratto però si scuote; capisce che sogna, che l’incubo della paralisi mortale lo inghiotte inesorabilmente: ma per quanto faccia non riesce a muoversi. Ed egli non vuol morire: ha dei conti da aggiustare ancora, con la vita, con la sua coscienza.
Dio è in alto, e bisogna volare liberi a Lui, come la fiamma che si spegne nell’aria.
Nel centro della terra è Satana, ed è lui che lo attira facendogli sembrare bella anche la morte.
Un’angoscia sovrumana lo investe, come se davvero un abisso lo seppellisca vivo: bisogna uscirne, e poichè il suo corpo rifiuta di aiutarlo, egli si ricorda che l’anima ha uno strumento divino: la voce. Allora cerca di chiamare Giovanni: anche la lingua si rifiuta; ma dalla sua gola esce un suono stridente, ed egli lo percepisce come un grido non suo.
Si svegliò tutto coperto da un velo freddo di sudore: anche Giovanni si svegliò, accese il lume e con terrore vide il vecchio steso rigido giallo come una statua di legno rivestita di uno strato di cera. La paralisi lo aveva completamente immobilizzato.
Al richiamo di Giovanni tutti furono in piedi, e Pietro, nel vedere lo zio Dionisio in quello stato, ebbe l’impressione di averlo colpito lui, e colpito a morte. Mezzo nudo, scarmigliato e con gli occhi pieni di lagrime, si piegò su quel viso triste e amareggiato di vecchio Cristo agonizzante e chiamò sottovoce!
— Zio, zio?
L’infermo parve riscuotersi, risalire dalla sua fossa: le palpebre peste e verdognole si sollevarono e gli occhi apparvero, come cristallizzati, con appena una scintilla del riflesso del lume; poi subito si richiusero; sembrò a Pietro per sfuggire alla vista di lui: e come preso da un contagio di paralisi egli si abbattè, freddo e rigido, sulla sedia dove stavano le vesti del vecchio. Intorno, tutti gli altri si davano da fare. Annalena fece sorbire un po’ di liquore all'infermo, tentò delle fregagioni, infine mandò Giovanni a chiamare il dottore; poi s’accorse dell’accasciamento di Pietro e si passò con disperazione le mani sul viso.
Egli se ne accorse e balzò in piedi, volgendosi a guardare indietro, come se qualcuno lo avesse violentemente colpito alle spalle. Poi disse, forte:
— Sì, la colpa è mia.
Vide Baldo drizzarsi come una vipera e la madre sbiancarsi in viso: allora si rimise a sedere, torvo, quasi crudele: e senza guardare nessuno, come parlando solo a sè stesso, riprese:
— La colpa è mia, e di tutti. Perchè mi si deve sempre calunniare? E perchè avete incaricato lui, disgraziato, ad incolparmi? Si aveva paura di me? Ed ecco che cosa è successo.
La madre lo afferrò per le spalle.
— Pietro, tu vaneggi. Che è successo?
Allora egli si alzò di nuovo, di nuovo si piegò sul vecchio, e col suo respiro ansante di rimorso e di pena parve tentare di richiamarlo alla vita.
— Zio? Zio Dionisio? Voi però dovevate capirlo, che per far dispetto a quelli che mi calunniavano, anch’io mi sono calunniato. Io non so nulla della ragazza Giannini, che vada all’inferno. Non ne so proprio nulla, — ripetè scandendo le sillabe; — lo giuro sulla memoria di mio padre.
Nessuno fiatò. Le palpebre molli dell’infermo si gonfiarono come se egli piangesse di nascosto. E una calma improvvisa, triste ma grandiosa come quella dopo una tormenta che lascia vittime e rovine, si sparse intorno.
Il dottore, dopo aver visitato due volte il vecchio, chiamò Annalena in disparte e le disse ch’era bene chiamare il prete.
Baldo dunque andò dal suo amato parroco: lo trovò in procinto di uscire per recarsi d’urgenza al paese accanto; ma saputo di che si trattava, e poichè la strada da percorrere era la stessa, seguì senz’altro il giovine Bilsini.
Era la prima volta che Annalena lo vedeva, e ne rimase disillusa: quel prete lungo e tutto ossa, col viso scavato, con gli occhi pallidi sotto la fronte alta a picco come una roccia, senza labbra e senza capelli, era dunque il famoso prevosto che faceva miracoli? Egli passò davanti a lei senza vederla, rapido, con un fruscio d’ali, e neppure si accorse della Gina che lo guardava turbata, coi bambini nascosti fra le gonne a spiare il passaggio dello straordinario personaggio: salì l’erta scala tirandosi in su la sottana, e quasi fosse già pratico della casa andò difilato al letto del vecchio.
Il vecchio non parlava; aveva però ripreso un po’ di coscienza, e alla vista del prete l’anima gli si ravvivò in fondo alle pupille; aspettava l’estrema inquisizione ed il viatico della parola dell’uomo di Dio.
Tanta luce di lealtà e di speranza si raccoglieva nei suoi occhi, come il chiarore del crepuscolo d’una serena giornata si raccoglie all’occidente dopo il tramonto del sole, che il prete gli diede senz’altro l’assoluzione; poi gli domandò sottovoce se desiderava gli altri sacramenti.
— Sì? Allora vado e vengo; intanto state tranquillo, poichè il regno di Dio è già venuto per voi.
I nipoti si meravigliarono di vederlo uscire così presto dalla camera del vecchio, e con la sua fretta silenziosa accennare ad andarsene senza neppure salutarli: ma quando fu nell’aia egli si fermò di botto, nello scorgere un uomo che entrava in quel momento.
Ed il miracolo, al quale Annalena si rifiutava di credere, avvenne.
L’uomo era Urbano Giannini.
Grigio, vuotato e barcollante, simile a un moribondo che s’è alzato dal suo letto ed erra fra le ombre del mistero, quando il prete, che gli mosse incontro quasi per sostenerlo, gli mormorò sul viso: — voi? io venivo appunto a cercarvi; — si drizzò sulla persona ed aprì le braccia: e apparve come uno che dopo una corsa ardente affannosa, sbocca in riva al mare e ne respira il grande respiro.
— Vostra figlia è sana e salva.
Queste parole arrivarono fino ai Bilsini, e tutti, dimenticandosi che c’era in casa la morte, esultarono di gioia. Si vide il Giannini ritornare quello che era una volta, grande e forte, e, quasi le parti fossero invertite, fare lui un segno di benedizione verso il prete.
Annalena li invitò ad entrare nella saletta; e poichè voleva lasciarli soli, il Giannini, mentre il parroco gli porgeva da leggere una lettera, l’afferrò per il braccio e la costrinse a restare. Poi egli lesse ad alta voce la lettera. Era della Madre Superiora di un convento dei dintorni, diretta al parroco.
«Mercoledì scorso, verso sera, si presentò qui, chiedendo rifugio, una giovinetta che dapprima fu scambiata per una fanciulla dodicenne. Dietro le sue affermazioni, di essere sola, orfana, perseguitata, fu per la notte accolta nel nostro convento. Il giorno dopo, da me interrogata, dichiarò di essersi spontaneamente allontanata dalla sua casa, spinta da una irresistibile vocazione religiosa; e mi pregava di accoglierla come novizia. Ma le referenze da lei date sul suo stato di famiglia non corrisposero al vero; onde fu ripresa e minacciata di denunzia. Ella cadde in grande prostrazione e malore, con febbre alta: solo questa mattina si riebbe e confessò di chiamarsi Lia Giannini, figlia dell’industriale Signor Urbano Giannini, di Casalotto, e di intendere realmente di fortemente seguire la sua vocazione religiosa. Dice di aver questa notte sognato il padre morente, ed è ancora in grande agitazione e pena. Onde mi rivolgo d’urgenza alla Signoria Vostra Reverendissima perchè voglia conferire col Signor Urbano Giannini, e riferirmi le sue intenzioni.»
— Orfana, sola, perseguitata. — declamò con voce tonante il Giannini; e si fece vento con la lettera, poichè in realtà un violento calore gli ardeva il viso. Ma la sua enfasi tosto si sgonfiò, per dar luogo ad un accento di sommesso dolore: — tu avevi ragione, bambina. Orfana, perseguitata dalla sorte, abbandonata dai tuoi genitori. Che potevi stare a fare nel tuo focolare distrutto? Sei andata verso Dio ed egli non respinge chi soffre.
— Allora? — domandò il prete con voce secca.
— Allora dico che Lia fa bene a sfuggire questo maledetto mondo.
— Speriamo che voi ripenserete bene ai fatti vostri ed a quelli di vostra figlia, — disse brusco il parroco, con grande sorpresa di Annalena.
Il viso di lui s’era indurito e imbiancato, come la cera messa al freddo, e gli occhi ammiccavano quasi maligni. Era scontento, insomma, che il padre della fuggitiva non protestasse contro di lei, e, dopo averla lasciata scappare, si rassegnasse in quel modo.
L’uomo era intelligente e capì. Disse, umile e fiero assieme:
— Lei sa chi sono?
Infatti il prete, alla cui parrocchia il Giannini non apparteneva, lo conosceva solo di vista e attraverso i riferimenti di Baldo: lo guardò dunque con occhi subito mutati e rispose incerto:
— Vi conosco poco; ma so che ad un padre attento e amoroso non succedono di queste disgrazie.
— Lei ha ragione. Sono come uno di quei minatori che cercando l’oro vivono nel buio. Ma ci sarà bene qualcuno che, oltre Dio, m’illuminerà.
Allora il viso del prevosto ricordò la descrizione che Baldo ne faceva:
— È come una fiamma che rischiara.
Tutto ardeva e scintillava, in quel viso, come se le vene, sotto il bianco velo della pelle, fossero d’oro fuso, e le pupille più fulgide del diamante.
Annalena capì che il restante colloquio fra i due poteva assurgere ad una forma di confessione; e piano, ritraendosi senza farlo notare, se ne andò.
Ai giovani, che nell’ingresso aspettavano curiosi, disse solo che la ragazza era in un convento; poi salì dal vecchio e diede anche a lui la notizia: ma egli pareva ormai distaccato dalle cose di questo mondo, libero da ogni vincolo umano.
Morì nella notte, senza più parlare, senza più muoversi, quasi andandosene di nascosto per non dare disturbo a nessuno.
I nipoti ne vegliarono la salma, seduti in fila lungo la parete, sullo sfondo delle loro ombre sonnecchianti: ed Osca si appoggiava al bastone dello zio come ad uno scettro che questi gli avesse lasciato in eredità.
Grigi ed opachi furono i giorni che seguirono. I bambini ed il cane erravano smarriti, in cerca di qualche cosa che non si trovava più; e quando Annalena portò accanto al pozzo, per lavarle, le vesti smesse del vecchio, Tom vi si accucciò accanto, mugolando, poichè le riconosceva dall’odore.
Poi la vita riprese, in apparenza, il suo solito ritmo; anzi i giovani lavoravano con più lena; e Osca, d’un tratto divenuto serio, investito dallo spirito di capo di famiglia trasmessogli dal morto, sorvegliava i fratelli con occhi da padrone.
Aveva preso lui, del resto, anche prima che il vecchio morisse, l’indirizzo di tutto; lavoro, spese, guadagno; e chiedeva alla madre, che faceva da cassiera, conto dell’ultimo centesimo.
Questo piaceva ad Annalena, disposta anche lei a seguire d’ora in avanti la più ferrea disciplina morale.
Anche il Giannini non s’era lasciato più vedere e non mandava notizie. Un giorno però giunse una cartolina illustrata da Trieste, firmata da lui e dalla figlia: allora si seppe che egli aveva convinto Lia a tornare a casa, e per distrarla la conduceva con lui in viaggio.
Baldo non era contento di questa soluzione mondana del dramma di Lia: non fiatava più, però, coi fratelli, quando ancora si parlava del fatto, perchè nei primi giorni dopo la morte dello zio, mentre lui e Pietro si trovavano soli nel campo, d’un tratto il fratello gli si era avventato contro, col viso digrignante, e l’aveva acciaccato a furia di pugni e di schiaffi.
— Questi per me, — diceva ansando; — e questi per il povero zio che è crepato innanzi tempo per colpa dei tuoi pettegolezzi. E se ne vuoi ancora fiata pure. Sicuro!
Questo sfogo, del resto, fece bene a Pietro: d’improvviso egli si sentì un altro. Divenne taciturno e serio; e questo suo contegno conferiva al suo carattere fisico: con quella sua faccia nera, dove il bianco degli occhi e dei denti ricordava gli squarci di cielo lunare nelle notti nuvolose, anche lui sembrava, come la Gina, un personaggio di altra razza, intruso in quella famiglia di biondi allegroni.
Ecco che cinque settimane appena erano passate dalla morte dello zio, e nessuno ci pensava più: anche Annalena rideva, contenta che la stagione andasse bene, che la prospettiva dell’inverno si presentasse di un colore ben diverso di quello dell’anno scorso; che un nuovo piccolo Bilsini stesse per venire al mondo.
Si sperava fosse un maschio, ed era già pronto il nome: Terzo.
Nacque però, in una notte di bufera, una piccola settimina, coi capelli argentei come una bambola da pochi soldi: e fu chiamata Dionisia.
— Sembra figlia d’Isabella, — disse la madre quando gliela fecero vedere; e non nascose un certo senso di ripugnanza e di ostilità contro la bambina.
Anche Bardo sogghignò nel vederla.
— La pare un gnocchin.
Il nomignolo di «piccolo gnocco» rimase alla bimba. Gnocchin andava, Gnocchin veniva. I fratellini, aggrappati alla coperta del letto ove giaceva la puerpera, volevano ogni momento vedere e baciare la piccola Gnocchin; Giovanni e Bardo apostrofavano ironicamente Osca che invece di un terzo maschiotto aveva procreato quel piccolo gnocco di farina gialla, e lui stesso, Osca, rideva di cuore, dicendo che forse, invece di lui, ci aveva messo mano il parroco.
Baldo taceva, ingrugnato, sempre più gonfio di sdegno per la poca religione dei fratelli: e quella meschina creatura, venuta innanzi tempo al mondo fra la beffa dei parenti e degli stessi genitori, gli sembrava un segno dell’ira di Dio contro l’ambiziosa sua famiglia.
Solo con la madre, doppiamente affaccendata per la mancanza dell’aiuto di Gina, egli si sfogava sommesso.
— Se si restava nel nostro campo, poveri ma contenti, tutto questo non succedeva. E adesso si andrà sempre peggio: cresceranno i soldi, ma con essi i guai.
La madre lo respingeva col gomito.
— Ma va là: il più bel guaio sei tu, brontolone. La Gnocchin crescerà, diverrà la più bella ragazza della provincia, e se Dio vuole la più fortunata. La faremo studiare da professora.
Baldo disapprovava più che mai.
— Ma bene! Fareste meglio, intanto, a farla battezzare.
Fu battezzata la domenica seguente: madrina Isabella. E Isabella, sì, era entusiasta della sua figlioccia, alla quale già parlava come ad una persona adulta. La vestì lei, col lungo camice di velo tutto infioccato, ch’era il dono battesimale, le mise in testa la cuffietta simile ad una rosa; poi la tirò su, in alto quanto poteva, fra le sue mani, la presentò di qua, di là, a tutti gli astanti, perchè l’ammirassero come una piccola sposa.
La piccolina, coi minuscoli pugni stretti, lucidi e giallini come due albicocche, apriva e chiudeva gli occhi verdognoli che, in mezzo ai merletti ed ai volantini della cuffia ricordavano i maggiolini nascosti nelle rose, e pareva si prestasse graziosamente al gioco. Ed anche la piccola madrina, col suo vestito corto di lana arancione, le guancie rotonde rivestite di buccie di pesca, gli immancabili orecchini d’oro, che questa volta parevano due riccioli alquanto più lucenti di quelli dei suoi capelli, sembrava una grande bambola che si divertisse con una più piccola.
— Questa volta è bella, è proprio bella, — esclamò Bardo: e non si sapeva per chi parlasse così.
— Questa volta me la rubo proprio, questa signorina piccinina piccinina; state attenti, signori, — gridò Isabella, e volta la bimba verso di sè cominciò a stringerla e baciarla.
Annalena protestò.
— Così tu me la rompi, senti.
Ma Isabella fuggì via nella camera attigua ripetendo: — la rubo, la rubo.
Bardo la seguì, a passi di lupo.
— Oh, per questo, — le disse sottovoce, — te la puoi mettere in tasca; oppure la madre te la regala volentieri. Oppure ce ne fabbricheremo una noi, così.
Isabella però non era più disposta ad assecondarlo; anzi lo guardò sdegnata e nonostante tutto il suo entusiasmo per la bambina minacciò di scaraventargliela addosso.
— Se ho da fare di queste fabbriche, non sarai certamente tu il muratore.
Egli abbassò la testa: poichè se le sue parole corrispondevano a quelle di una spicciativa dichiarazione d’amore, la risposta di Bellina suonava recisamente un rifiuto.
Del resto anche con Pietro ella si mostrava contegnosa, e lui altrettanto con lei.
Osca disse che parevano una coppia di fidanzati di famiglia reale.
Ma quando Pietro, aiutandola a salire e accomodarsi sul calessino battesimale, le strinse di nascosto la caviglia, ella s’accese tutta e lo guardò come lo rivedesse dopo una lunga assenza e una lunga attesa.
Sul calessino, rinnovato per l’occasione, presero posto anche Baldo e Osca che guidava: la piccolina fu messa sulle ginocchia d’Isabella, coi lembi invero poco pesanti del vestito battesimale sparsi sulle gambe del padre.
Una soffice coperta riparò poi tutti, e per maggiore precauzione, sebbene la giornata fosse bella, fu tirato su il mantice.
Annalena condusse per la briglia la cavalla fino al portone; e avrebbe voluto guidare lei il veicolo, come nei tempi passati; ma oramai il suo posto era lì, nella casa dov’ella conduceva la famiglia nel viaggio avventuroso della vita.
Se la Gnocchina era piccola, la festa fu grande. Per la prima volta dopo molti anni di decadenza, i Bilsini si permettevano di offrire un vero banchetto, ed a personaggi di riguardo.
Oltre il parroco che battezzava la bambina era invitato quello del paese accanto; invitati pure il dottore ed il veterinario.
Bisognava farsi onore, poichè la festa del battesimo era una scusa: la vera festa era il nuovo affacciarsi della famiglia Bilsini al mondo della gente rispettata.
Quasi per assicurarsi che quell’invito non era una trappola per i personaggi che si degnavano di accettarlo, fra un preparativo e l’altro, Annalena trovò il tempo di ispezionare rapidamente la sua proprietà.
I campi erano tutti arati e smassi, e alcuni già seminati: cadevano dai pampini le ultime foglie gialle e amarantine come fiamme che volando si spengono; e sotto il sole già invernale la terra sorrideva un po’ triste, con gli ultimi fili d’erba lungo i fossi senza più ombra, dove l’acqua lattiginosa ricordava gli occhi dei bambini quando stanno per addormentarsi.
Molte coppie di piccioni bianchi e violacei volavano sopra la torre, e giù nell’aia ed intorno alla casa descrivevano un’aureola di prosperità numerose colonie di galline, di anatre coi loro allegri anatroccoli, di tacchine e di oche giganti.
Nella stalla, sul ripiano coperto di strame, la vacca pregna stava sdraiata come una pingue sultana, e ruminava senz’aver nulla in bocca, con le corte ciglia abbassate sugli occhi pensierosi: pareva ricordasse qualche cosa o facesse dei calcoli mentali: non si scompose neppure quando Tom, che accompagnava la padrona, le saltò addosso come i bambini facevano con lui.
Del resto Annalena lo mise subito a posto.
— Giù, Tom, figlio d’un cane, sfaccendata bestia che altro non sei.
Anche il maiale giaceva in un perfetto stato di nirvana: roseo, come nudo, tutto cascante di grasso, non riusciva più a muoversi, intento alla sua conca di broda: solo di tanto in tanto grugniva di beatitudine senza sapere che le ore della sua orgia erano contate.
Eppure, nel guardarlo, la donna si rattrista: ricorda il povero zio Dionisio che non assisterà più alla festa della morte del porco; non vedrà più i visceri della vittima fumanti e rossi come il fuoco, sgorgare dal ventre spaccato; nè dalla grande ferita bianca misurerà l’altezza del lardo; e non sentirà più la forza di vita che la bestia sacrificata diffonderà intorno.
Ma già nella strada si sentiva rumore di voci e di veicoli, e Annalena trasalì di orgoglio quando il richiamo possente di una automobile risonò dietro la siepe, come il corno da caccia degli antichi signori del luogo.
Era l’automobile del veterinario.
Il gigantesco veterinario conduceva nella sua macchina, pallido satellite, il piccolo e quasi mistico dottore: arrivati al portone, che Annalena aveva spalancato completamente, e dietro il quale si nascondevano curiosi e turbati i bambini, egli saltò agile a terra e porse la mano al compagno per aiutarlo a scendere. Senza badare alla donna che li accoglieva col suo più luminoso sorriso, i due invitati cominciarono a farsi complimenti in dialetto.
— La vada avanti lei che l’è un pezzo grosso sebbene pissinin, — diceva il veterinario, spingendo il dottore per le spalle; ma questi si schermiva, affermando che il pezzo veramente grosso di detto e di fatto, era proprio il medico delle bestie.
I fratelli Bilsini, accorsi ma non con troppa furia, felici ma dignitosi, accolsero però in egual modo i due personaggi; e Giovanni presentò la madre al veterinario. Il gigante la fissò coi suoi occhi d’aquila e subito soddisfatto le mise le mani sugli omeri.
— Oh, brava. La conosco già di fama, signora Bilsini, e so che è una donna esemplare.
Nel vedere i figli sorridere, fra sarcastici e compiacenti, perchè le si dava il titolo di siòra, ella arrossì come una bambina: anche perchè l’omone, con la sua voce calda e risonante, le ricordava Urbano Giannini.
— Oh, Dio, si fa quello che si può, sior dottore mio.
Il dottore degli uomini indicò il nastrino verde che fioriva sul petto prominente del compagno.
— Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, — disse, per mettere le cose a posto.
Rientrava intanto il calessino del battesimo, seguito a breve distanza da quello del parroco che, a sua volta, trasportava il parroco del paese accanto. Se non che le parti erano invertite; poichè se il prete miracoloso era esile come uno stelo d’avena, l’altro, corpulento e colorito, poteva competere col veterinario.
E fra di loro tutti si fecero grandi feste: amiconi, si ritrovavano quasi sempre assieme ai banchetti delle grandi occasioni, nelle famiglie ricche dei dintorni, e venivano invitati, oltre che per la loro autorità, per l’allegria sana che diffondevano intorno, ed anche perchè i loro discorsi uscivano dalle solite storie di raccolto, di commercio, di denaro.
Il veterinario, poi, era galante, e buongustaio di donne: sbirciò subito Isabella e si aggiustò con un dito le sopracciglia come per guardarla meglio.
— E donde spunta questo bocciolo di rosa?
Ingelosito ma anche contento, Pietro rispose: — Eh, spunterà bene dalla pianta.
Per niente intimorita, anzi dondolandosi come una ballerina che inizia la danza, Bellina fissò negli occhi l’omone e osservò, in dialetto:
— Ma se io sono un bocciolo di rosa, lei è ben un bel pomo maturo.
— Il pomo d’Adamo, — disse il parroco grasso; e avendo bisogno di sputare, per buona creanza si volse indietro e lo fece dentro il suo fazzoletto da naso.
Tutti, compreso il parroco magro, risero con sottinteso, e più di tutti l’uomo preso di mira; profittando della subita famigliarità, egli si accostò ad Isabella e le palpò le spalle.
Ma lei, che con gli scherzi non intendeva andare oltre alle parole, fece uno scossone esagerato, accennando a liberarsi del gran peso di lui, e fuggì via in casa.
Questo piacque molto a Pietro: mentre la lieta compagnia si tratteneva nell'ingresso, egli raggiunse la fidanzata nella saletta dove ella dava un ultimo tocco alla tavola apparecchiata, e le disse quasi tragico:
— Spero bene che tu non ti metterai accanto a quel maialone.
Bellina sollevò gli occhi, stupita e contenta per la gelosia di lui, poi fuggì via ancora agitando una salvietta.
— Ma io a tavola non mi ci metto neppure.
I posti, infatti, erano solo per gli uomini ed i bambini: ed uno in più per qualche ospite improvviso.
Annalena si faceva violenza, non osando neppure confessare a sè stessa che sperava nell’arrivo di Urbano; anzi s’illudeva di credere nel suo desiderio ch’egli non venisse: eppure, quando sentì il cane abbaiare, correndo verso il portone, con quel suo modo speciale di salutare gli amici di casa, anche lei si affacciò turbata alla porta. Ma il viso le si illuminò di un riso muto, ironico e quasi cattivo, quando l’ombra di Pinon, col suo bastone da pellegrino, si disegnò nel sole davanti al portone, ed egli parve scendere come un ricco signore dall’automobile ferma lì accanto.
Benvenuto sia un’ultima volta Pinon, che come gli animali intelligenti sente anche a distanza di chilometri l’odore delle cose buone e delle cattive: questa volta tutti, in casa Bilsini, possono guardarlo negli occhi senza paura ch’egli intraveda qualche cosa di oscuro nella loro coscienza, se non le ombre naturali dell’istinto che il Signore ha dato all’uomo solo per poterle vincere.
Si discuteva appunto su questo, fra il parroco magro e il veterinario, a tavola, dopo i primi allegri discorsi ed i complimenti alle donne per i deliziosi abbondanti cibi che venivano serviti inappuntabilmente.
Il parroco magro, che mangiava e beveva quanto il parroco grasso, ripeteva la nota formula del libero arbitrio, mentre il veterinario sosteneva il contrario.
— Ma mi faccia il piacere, la vada a raccontare ai cannibali, la cristianissima teoria: in cambio, sa lei che casa fanno quei signori?
— Lo so, mi mangiano, sebbene ci sia poco da rosicchiare intorno alle mie ossa. S’accomoderebbero meglio con lei. Le farò osservare, però, che i cannibali bisogna prima farli appunto cristiani: quando saranno educati, quando la loro coscienza si sveglierà, allora ne riparleremo.
— Ma mi faccia il piacere: e i cannibali già cristiani, dove li lascia, lei? Quelli che si mangiano il proprio simile peggio di quelli veri, spogliandolo, sfruttandolo, uccidendolo?
— Io parlo dei cristiani nel vero senso della parola: pur troppo, sì, essi sono ancora in piccolo numero, forse meno numerosi che nei primi anni dopo Cristo: sì, ma essi sono al mondo per continuare, anzi per riprendere l’opera del Maestro: e quando l’uomo avrà capito che bisogna vincere i cattivi istinti, non solo ritroverà la salute dell’anima, ma anche quella del corpo e la perfetta felicità.
— Il povero zio Dionisio diceva lo stesso, — intervenne Giovanni, che sedeva accanto al posto vuoto e istintivamente versava l’acqua nel bicchiere, come se il vecchio, ritornato dall’altro mondo, fosse l’ospite atteso.
I fratelli lo guardarono beffardi, specialmente Bardo, che gli fece anche una smorfia; ed egli arrossì, pentito di aver messo il becco nella discussione dei personaggi.
Tuttavia uomini e donne seguivano con interesse curioso quei discorsi, e Pietro pensava che lo zio Dionisio non sarebbe morto così presto ed in quel modo se egli non si fosse lasciato vincere del suo istinto di malvagità.
Intervenne anche il parroco grasso, che non parlava mai, ma i cui piccoli occhi turchini nel viso di luna d’estate sorgente, correvano dall’uno all’altro degli invitati e ne coglievano ogni gesto, ogni parola.
Disse in dialetto:
— L’è proprio vero. Lo dice anche il proverbio: mente sana in corpo sano.
Questa volta fu il dottore a intervenire, con la sua voce sottile ma squillante come il suono di un campanello d’argento; ed un sorriso fra triste ed arguto accompagnava le parole:
— Il signor prevosto inverte un poco le parti; ma ha ragione anche lui: quando la mente ed il corpo sono sani, l’anima è anche lei tranquilla e ci pensa due volte prima di scomodarsi a fare il male.
Il parroco magro, piegato a spolpare un bianco femore di pollo arrosto, scuoteva la testa e stringeva le labbra invisibili: no, non lo capivano, quei signori, e d’altronde era inutile insistere: ai tempi d’oggi non si può predicare a tavola la legge di Cristo: bisogna dettarla dal pulpito, sulle folle silenziose, come si semina il grano sulla terra muta: se il seme è buono, germoglierà da sè e darà frutto.
Ed i grandi occhi di Baldo, sedutogli di fronte, che non cessavano di guardarlo e splendevano come due finestre aperte su un orizzonte infinito, gli annunziavano la buona novella: non solo, ma gliela presentavano fatta realtà, in quella mensa intorno alla quale si riuniva una famiglia onesta, già educata alla ferrea legge del bene.
E poichè Baldo gli aveva già confidato le ultime vicende accadute in casa, egli rivolse l’attenzione a Pietro, che gli sedeva accanto.
Pietro era ancora un po’ l’ombra del quadro; la sua figura scura poteva ricordare quella di Giuda, senza gli occhi che, quando egli dimenticava una sua segreta inquietudine, divenivano dolci e sognanti.
Mentre la conversazione era generale, il parroco magro gli chiese sottovoce:
— Pietro, quando ti sposi?
Dapprima Pietro si sentì tutto freddo, come se il prevosto gli avesse confidato un terribile segreto, poi pensò: già, devo sposarmi con Bellina, eccola lì, quella civetta.
E s’incantò a guardarla, mentre ella si piegava, con un vassoio luminoso e fumante come un vulcano, a servire il budino al rum al veterinario che fiutava golosamente il dolce e la fanciulla assieme.
— Presto, — rispose Pietro con gelosia.
— Oh, bravo. Resterete qui?
— No, no. Qui s’è già in troppi: andiamo a stare con la mamma di Isabella; la conosce, lei, la vecchia Mantovani? È ricca, ma avara.
— Glieli farai tirar fuori tu, i soldi; e farai benissimo.
Parlava sempre sottovoce, e parlava da uomo pratico e di mondo, il sacerdote che Pietro riteneva un santo burbero e cavernoso: anzi il giovine continuava ad aver l’impressione che fra loro due si parlasse in grande confidenza e con una certa complicità da parte del parroco; ed ebbe desiderio di dirgli che, sì, i denari della vecchia lo attiravano molto; ma vide Isabella che, forse indovinando il sommesso colloquio che la riguardava, veniva verso di loro offrendo l’ardente e fragrante vassoio come se contenesse il suo cuore stesso, e rispose rapido, non senza fierezza:
— Perchè devo farglieli tirar fuori proprio io? Non saranno nostri lo stesso, un giorno? Io lavorerò: che altro ho da fare?
E gli parve realmente che questo fosse il suo migliore destino.
— Bravo, — approvò l’altro, e mentre col cucchiaio d’argento scavava nell’edifizio già bene intaccato del budino, tese l’orecchio alla nuova discussione intrapresa fra il dottore ed il veterinario; il quale non sapeva vivere se non per disapprovare le opinioni altrui.
Adesso si trattava di cose solide: della nuova sistemazione della proprietà delle terre; e il dottore sosteneva che i contadini stavano meglio quando queste appartenevano, ancora pochi anni or sono, ai proprietari di città che le avevano comprate a vile prezzo dai nobili decaduti e scialacquatori.
— Allora il contadino si godeva veramente, con tutta la sua numerosa famiglia, il fondo che coltivava. Non aveva responsabilità, non spese. Il padrone, che non conosceva il vero valore della sua terra, e non sapeva coltivarla per conto suo, era in un modo o nell’altro, si trattasse di mezzadria o di fitto, nelle mani del contadino.
Questi si prendeva la parte grossa e metteva da parte fior di quattrini. Tanto è vero che, mezzadri e fittabili, di prima della guerra, sono diventati proprietari essi delle terre.
Il veterinario smetteva ogni tanto di sorbire il dolce per ascoltare atterrito le parole del dottore; e quando si trattò di rispondere parve non trovare il modo di esprimersi.
— Ma.... ma.... mi faccia il piacere: lei parla per scherzo, o sul serio? No, no, per carità, non riprenda a parlare. Lei dunque dice che il contadino stava meglio quando stava peggio? Quando era servo?
— Dico proprio questo. Era più libero e senza pensieri. Anche materialmente stava meglio, perchè non badava a quello che mangiava alle spalle del padrone. Infine, per esprimermi bene, dirò che stava meglio come lo stavo io quando, prima di essere dottore, ero studente.
— Questa è poesia. La realtà è altra: è quella che si tiene nel pugno. E vada un po’ a domandare ad un contadino se veramente stava meglio quando serviva il padrone, o adesso che il padrone è lui. Lo domandi un po’ a questi bravi ragazzi intorno.
— Noi non siamo ancora padroni di questo fondo, — rispose pronto Osca, ma i suoi occhi scintillanti esprimevano la speranza, anzi la certezza di diventarlo un giorno.
E il veterinario afferrò subito e tradusse questo pensiero.
— Ma lo diventerete un giorno, e quando lo diventerete, mi userete la cortesia di far sapere al signor dottore se state meglio adesso o allora.
Osca sorrise, con furberia.
— Oh, allora, certo.
Il dottore si volse a lui, con improvvisa vivacità.
— E come puoi dirlo, fin d’adesso? Ma non vedi che è proprio la speranza, anzi la ferma volontà di diventare padroni, che vi tiene qui uniti, concordi, sottoposti a vostra madre, come nella felice età dell’infanzia, mentre allora....
Annalena si era fermata dietro la sedia del veterinario ed ascoltava con l’anima tesa, rossa in viso come si parlasse di cose sue intime: una voglia quasi anelante d’intromettersi nella discussione le gonfiava la gola: quando il dottore ebbe accennato a lei, non potè più trattenersi. Disse con voce ferma:
— Servi o padroni, i miei figliuoli saranno sempre sottoposti alla madre.
Il veterinario si alzò di scatto, si volse, e attraverso la sedia abbracciò vigorosamente la donna.
Ed il gruppo parve così grottesco che tutti scoppiarono a ridere.
Il parroco grasso si volse in là per sputare dentro il suo fazzoletto; poi fece una proposta.
— E allora si beva alla salute dei futuri proprietari.
I bicchieri furono in un attimo colmi di lambrusco violetto ribollente di spuma rosea; s’incrociarono e tinnirono sopra la tavola: uno fu rovesciato sulla tovaglia che parve incendiarsi: e la macchia fu come il sigillo sulla promessa della buona fortuna.
FINE
- ↑ Circa duemilacinquecento metri quadrati.