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Ludovico Antonio Muratori
Delle Antichità Estensi, p. II, 1740, pagg. 544-552
Bollivano intanto gravi dissapori fra Odoardo Duca di Parma, e Papa Urbano VIII o per dir meglio fra i suoi Nipoti Barberini, per cagione di Castro e Ronciglione, riguardevoli Feudi Pontificj goduti dalla Casa Farnese, ma caricati di gravi debiti fatti dalla medesima Casa, di modo che le rendite annue appena bastavano a pagarne i frutti a i Montisti. Portossi a Roma nel 1639 lo stesso Duca di Parma per cercare temperamenti e vantaggi, e non ne riportò che disgusti; perché cedendo al peso de gli anni il già vivacissimo animo di Urbano, l’autorità quasi tutta s’era ridotta ne’ suoi Nipoti; e questi col non usare verso il Duca le dimostrazioni di stima, che convenivano al grado suo, furono cagione, ch’egli si partisse di Roma irritato al maggior segno, e prorompesse contra di loro in fierissime invettive e risentimenti. Correa voce, che le mine segrete de i Nipoti del Papa tendessero a tirare il Duca alla necessità di cedere e vendere alla lor Casa il Ducato di Castro contiguo ad altri lor beni. Ora Odoardo, Principe caldo, e di gran cuore, ma superiore alle forze sue, al vedere sempre più attraversati e abbattuti gli affari suoi in Roma, spedì alcune poche soldatesche a Castro sotto il comando di Delfino Angelieri Gentiluomo di Monferrato, con ordine di fortificar quella Città. Non ci volle di più, perché i Nipoti del Papa trattassero Odoardo da ribello, facessero pubblicar Monitorj contra di lui, e raunassero in Viterbo fanti, cavalli, e artiglierie, per sostener colla forza le minaccie della scomunica e della privazione del Feudo. Alle nuove di questo armamento la Repubblica di Venezia, il Viceré di Napoli, Ferdinando gran Duca di Toscana, e Francesco Duca di Modena, a’ quali premeva non poco la quiete d’Italia, né potea piacere la depressione del Duca di Parma: s’interposero per maneggiare accomodamento e concordia. Fu a questo fine spedito dal Duca Francesco a Roma il Marchese Francesco Montecuccoli; ma né egli, né i Ministri dell’altre Potenze seppero ricav’altro che belle parole, e dilazioni, tanto che spirassero i termini prefissi ne’ cedoloni. Già aveano fisso nell’animo i Nipoti del Papa di occupar Castro; e in fatti adì 27 di Settembre del 1641 si mosse coll’armi Pontificie il Marchese Luigi Mattei, Mastro di Campo Generale, ed entrato nel territorio di Castro, senza gran fatica s’impossessò di tutto. Allora fu, che maggiormente i Principi vicini accalorarono le loro istanze per qualche onorevol’accordo, con proporre varj ripieghi; e intanto in Roma l’un dietro all’altro fioccavano i Monitorj e le citazioni contra il Duca di Parma, si aumentavano i corpi delle milizie, de’ quali ancora un grosso nerbo fu spinto sul Bolognese e Ferrarese, con dar principio in quelle parti a nuove fortificazioni: movimenti tutti, che diedero non poca gelosia a i Principi confinanti, e li costrinsero a non istare colle mani alla cintola, e ad armarsi anch’essi alla difesa propria. Fece perciò il Duca Francesco nel 1642 istanza alla Corte Cesarea per riavere il Conte Raimondo Montecuccoli, suo Vassallo, che divenuto poi Generalissimo de gl’Imperadori, colle gloriose sue imprese in servigio dell’Imperio, e dell’Augustissima Casa d’Austria, assicurò di lunga vita il suo nome. Venne egli, conducendo con seco alcune truppe Tedesche, e fu dichiarato Generale della sua Cavalleria dal Duca. Fu appresso fulminata dal Papa la sentenza contra del Duca di Parma, con dichiararlo incorso nella Scomunica, e privato de gli Stati, Feudi, e dignità, e col prendere possesso anche de’ suoi Allodiali in Roma, e ne’ contorni. Nuove premure perciò vennero fatte dalla Repubblica Veneta, e dal Gran Duca in Roma, per fermare il corso alla guerra imminente; e dal Duca Francesco fu rispedito il Marchese Montecuccoli con delle nuove istruzioni, e per proporre la permuta di Castro con altri Stati. Si frapposero ancora i Ministri di Francia e di Spagna; ma inutilmente tutti, perciocché avendo maggiormente alzato il capo i Barberini per la fortuna e potenza, e già ammassato un numeroso esercito, cominciarono a meditar cose più grandi, cioè anche la conquista di Parma e Piacenza. In effetto convenne al Marchese Montecuccoli di ritirarsi, veggendo così mal ricevuti tutti i progetti di pace e d’accordo. Né tardò molto, che più sensibilmente si scoprì l’intenzione de’ Barberini, i quali spedirono a Modena per addormentare il Duca, Frate Diodato Cappuccino con proposizioni di pace, e con offerta di depositar Castro in mano del Cardinale Rinaldo d’Este, ma con disapprovarle eglino, dappoiché seppero, che il Duca vi aveva prestato l’orecchio. Ed essendo che già s’erano uniti sul Bolognese, e avanzati fino a Castelfranco presso a i confini del Modenese, circa diciotto mila tra fanti e cavalli, all’improviso comparve a Modena Giovanni Agostino Marigliani a chiedere al Duca per parte del Legato di Bologna il passo per l’Esercito Pontificio verso Parma. Turbossi non poco a tal chiamata il Duca, e senza concedere e né pur negare, prese tempo per informare di quanto accadeva i Signori Veneziani, e il Gran Duca, a’ quali non meno rincrebbe l’animosa idea e risoluzione del Papa, o sia de’ suoi Nipoti, quantunque non passassero più oltre, che a calde istanze col Papa, acciocché si sospendesse la mossa delle sue genti. Ma nulla giovando le loro istanze, e conoscendo il Duca Francesco, che l’armi Pontificie avrebbono per forza potuto prendere quel passo, che chiedevano amichevolmente, dopo essersi lungamente schermito, in fine all’udir le minaccie del passaggio, portategli di nuovo dal Conte Ambrosio Carpegna, e al vedere pronta la gente e l’artiglieria per marciare: l’accordò, passato che fosse un mese, a condizione d’essere sei giorni prima che si movesse l’Armata avvisato per disporre gli alloggi, e con patto che si marciasse in qualche distanza dalle Piazze e Città principali.
Comunicò il Duca di Modena quanto accadeva alle amiche Potenze, con significare nello stesso tempo, che essendogli stato estorto dalla necessità l’assenso, egli nondimeno, se fosse stato assistito, si sarebbe risento di questa violenza, ed avrebbe contrastato il passo. Sopra gli altri si alterò a tale avviso il Gran Duca, dispiacendogli troppo, che la tempesta andasse a cadere sopra il Duca Odoardo, egualmente Cognato suo, che del Duca di Modena. Però conoscendo sì egli, come la Repubblica Veneziani, che a frenar le impetuose speranze de’ Barberini occorrevano rimedj più forti, inviarono soccorsi di danari al Duca di Parma, il quale aveva già unito mille Dragoni, mille e dugento Cavalli, e cinque mila fanti con postarsi al fiume Enza per disputare a i Papalini l’entrata ne’ suoi Stati. Spedì in oltre la Repubblica tre mila fanti, e trecento Cavalli in rinforzo al Duca di Modena; poscia si trattò Lega fra essa Repubblica, il Gran Duca, & esso Duca Francesco, il quale a tal fine inviò a Venezia il Marchese Tassoni, e poscia il Principe Luigi suo Zio. Spirato che fu il mese, tornò il Carpegna a Modena a dimandare il passo accordato, ma con ricevere per risposta dal Duca, ch’egli non poteva più disporre de’ suoi Stati senza participazione della Repubblica e del Gran Duca. Intanto fu conchiusa in Venezia la Lega fra le tre suddette Potenze a comune difesa, nel dì ultimo d’Agosto del 1642 e ratificata dal Duca di Modena adì 3 di Settembre. Armò esso Duca sei mila Fanti, e mille e dugento Cavalli, co’ quali presidiò le sue Città, e le Terre più importanti. La nuova di questa Lega fece il suo buon’effetto di reprimere gli strepitosi disegni de’ Nipoti del Papa, i quali si rivolsero a ben munire i confini del Bolognese e Ferrarese; ma intanto davano abbastanza a conoscere di abborrir la pace, sperando colle dilazioni di stancare e consumare il Duca di Parma, e di aprirsi poi l’adito a più felici tentativi. I pensieri del Duca di Modena, che dicea davvero, e non mancava di coraggio, erano di spignere l’armi sue nello Stato Ecclesiastico con isperanza di qualche conquista, che o costrignesse i Barberini alla pace, o avvantaggiasse le condizioni dell’accordo desiderato; e se non altro, si sarebbono le milizie sue procacciato il quartiere del verno alle spese del nemico, e col sollievo proprio. Ma avendo ricevuta la negativa da i Signori Veneziani, cominciò per tempo ad accorgersi da i tanti riguardi e riflessi, co’ quali procedeva la Repubblica, che mancava il calore da quella parte, e si cercava bensì, che non perisse il Duca Odoardo, ma nello stesso tempo non si voleva vantaggio alcuno de i Collegati. Antepose il Duca Francesco la soddisfazione altrui a i suoi proprj desiderj e disegni, tuttoché conoscesse chiaro, che la sola forza potrebbe mettere in dovere i Barberini, i quali nelle parole altro non sonavano che disposizioni d’accordo e di pace, ma co i fatti sempre più se ne allontanavano. Non così fece il Duca di Parma, il quale veggendosi spogliato di Castro, e aggravato del soverchio peso di tante milizie da lui raccolte, senza ricavarne intanto alcun frutto, quasi spinto dalla disperazione, prese una risoluzione, che da i più fu giudicata per troppo rischiosa, e non assai guidata dal consiglio. Fece egli chiedere il passo al Duca di Modena, e quantunque questi inviasse a Parma il Conte Testi per dissuaderlo, e per rappresentargli i pericoli, a’ quali si esponeva, pure stette saldo nel suo pensiero di non voler morire in quel letargo, col minacciare insino, che passerebbe per forza. Gli fu permesso il passaggio: ed eccoti muoversi quell’ardito Principe nel Settembre del 1642 con circa tre mila Cavalli alla volta dello Stato Ecclesiastico, ma senza fanti, ma senza artiglieria, e senza quegli altri apparati, che si esigono alla difesa e all’offesa nelle guerre, e massimamente nelle contrade nimiche. Contuttociò l’animoso Duca, seco avendo per Tenente Generale il Maresciallo d’Etrè, passò allegramente sul Bolognese, e indusse tal terrore nell’esercito Pontificio, che dianzi sembrava volere ingoiare il Parmigiano, che il Prefetto di Roma, Nipote del Papa, stimò bene di ritirarsi a Ferrara; né il Marchese Mattei poté formare di tanta gente un picciolo corpo, che osasse di opporsi, né d’inseguire il baldanzoso nimico. Così con maraviglia di tutti, e cangiata in plausi appresso non pochi la precedente disapprovazione, il Duca Odoardo si aprì il passo per lo stato della Chiesa; e senza molestare i Bolognesi, che stettero queti ed umili, s’incaminò per la Romagna. Imola gli spalancò le porte; Faenza si fece alquanto pregare, ma anch’essa ben tosto trovò le chiavi delle sue; le minaccie adoperate con Forlì ottennero il medesimo intento. Passò per queste Città il Duca senza inferir danno alcuno, contento de’ soli viveri; e per la via di Meldola s’inoltrò verso la Toscana, con essere perciò biasimato da molti, perché potendo fermarsi e fortificarsi nella Romagna, dal cui ubertoso paese gli sarebbono stati somministrati i mezzi di accrescere e svernar le sue truppe, e di sperar poi colla permuta la restituzione di Castro, continuasse innanzi il suo viaggio. Ma noi troppo facilmente facciamo i Mastri di guerra in lontananza. Sul fatto converrebbe essere per poter meglio giudicar delle cose. Arrivò il Duca di Parma adì 9 di Ottobre ad Acquapendente, che non osò di resistere; e quivi fece alto per dar mano a i trattati d’accordo, e di deposito o restituzione di Castro, che furono portati da Roma dal Signore di Lionnè, adoperato in questo affare dal Papa, e da i Nipoti, sbigottiti per gli avanzamenti del Duca, e per la commozione di tutta Roma, irritata contra di loro, quasi che il Duca fosse già alle porte, e avessero a rinovarsi le Tragedie del Duca di Borbone. Fu anche spedito il Cardinale Spada Plenipotenziario, che cominciò a far gustare le lusinghe di un vicino accordo, guadagnando con ciò tempo, tantoché i Barberini rinforzati di gente, e ben munita Roma, Viterbo, & altri luoghi, ripigliarono coraggio, e si diedero a stancheggiar colla sola sinfonia delle dolci parole il Duca Odoado, e i Principi Collegati. Parve conchiuso il deposito di Castro in mano del Duca di Modena; la Capitolazione era stesa; si fece anche una sospension d’armi; ma in fine si trovò l’affare ne’ termini di prima; di modo che scoperta la lubrica fede, e l’ingannevol maniera di trattare de’ Ministri adoperati da i Nipoti del Papa, che partecipavano ad esso Papa quel solo, che loro parea bene: il Duca di Parma non potendo più sussistere in quegli angusti paesi per mancanza di foraggi e di viveri, e veggendo accostarsi il verno, determinò di ritornarsene a casa. Sul fine d’Ottobre del 1642 sen venne egli per le poste, lasciando che l’Etrè più agiatamente riconducesse le truppe, ma con lagnarsi forte del Gran Duca, il quale non l’avea punto voluto secondare colle sue armi (fu anche opinion comune, che gliel’avesse dianzi promesso) e s’era lasciato avviluppar troppo dalle speranze della concordia. Nella stessa guisa ebbe anche il Duca di Modena occasione d’essere mal contento de’ Signori Veneziani, che pieni di mille rispetti, e studiando troppo ne’ libri della loro somma Saviezza, nulla facevano di rilevante per la causa comune, e nulla permettevano di fare a lui, che intanto languiva senza azione alcuna sotto il peso delle sue e delle straniere milizie. Furono eziandio attraversate dal Gran Duca tutte le idee d’esso Duca di Modena, tendenti a sguainare il ferro, e a penetrare nello Stato Ecclesiastico. In somma le Leghe sono un Leuto, che troppo facilmente dissuona, non permettendo sincera e stabile armonia le diffidenze, e i diversi particolari interessi e mire de’ Collegati. Perciò svanì l’intelligenza, che aveva in Ferrara il Duca di Modena, la quale scoperta nel Novembre del 1642 costò la vita a non so quanti, che d’ordine suo erano iti colà ad arrolarsi.
Si prevalse nondimeno il Duca di Modena di queste congiunture per pubblicare sul principio del 1643 le Ragioni della sua Casa sopra Ferrara, Comacchio, Argenta, Cento, & altri Luoghi, occupati dalla Camera Apostolica al Duca Cesare; e per mezzo del P. Diodato Cappuccino inviolle al Cardinale Antonio Barberino, con pregarlo di umiliarle a’ piedi di Sua Santità. A questa Scrittura fu risposto per parte de’ Camerali; né tardò molto a comparire altra più ampia Replica per parte del Duca, il quale si portò anche a Venezia in persona nel Carnovale per trattare delle risoluzioni, che si aveano a prendere nel corrente Anno, stante il vedersi sempre più lontano l’aggiustamento, e ingrossato forte a’ suoi confini l’esercito Pontificio. Quivi trovò egli le solite irresoluzioni, che forse avrebbono avuto più lungo il corso, se non arrivava un accidente, che accese fuoco nell’animo alquanto tepido di quel saggio Senato. Fecero i Ministri del Papa fabbricare Fortini alla Stellata e a Melara sul Ferrarese: e nel primo di que’ Luoghi si diedero a piantare sul Po una forte Catena di legnami, per impedire a lor piacere il passaggio delle navi. Trovarono i Signori Veneziani pregiudiziale a gli Stati loro questa novità, e contraria eziandio alle Capitolazioni fatte co i Duchi di Ferrara; e però accesi di sdegno prestarono l’orecchio a gli altri Principi desiderosi di operare, convenendo finalmente, che la Lega, stata fin’allora difensiva, passasse a dichiararsi offensiva: e per tale fu pubblicata adì 26 di Maggio del 1643. In questo mentre l’animoso Duca di Parma, in favore di cui spezialmente fu conchiusa questa Lega, tuttoché non vi fosse egli compreso come parte d’essa, pure punto non atterrito dall’infelice successo di tre mila uomini, che aveva tentato di spignere per mare in soccorso di Castro, e che furono impediti da fiere burasche, voglioso di sgravare il territorio suo dalle soldatesche raunate, e di tentar la fortuna: con tre Reggimenti di fanteria Italiana, tre altri di Oltramontana, sei di Cavalleria, uno di Dragoni, ed otto pezzi d’artiglieria, nel dì 21 di Maggio uscì de’ suoi Stati alla volta del Ferrarese. Occupò egli valorosamente il Bondeno, il cui presidio si diede alla fuga; passato alla Stellata, s’impadronì ancora di quel sito; e nell’uno e nell’altro con nuove fortificazioni si assicurò la stanza. Mossesi anche Giovanni Pesari Generale de’ Veneziani, e andò con facilità a sorprendere Trecenta, Figheruolo, e Lago Scuro sulle rive del Po. Da un’altra parte Niccolò Delfino si rendé padrone delle Torri dell’Abbate e di Goro, prese Arriano Terra grossa, e giunto a Codegoro, incendiò quel Luogo. Il concerto era, che anche il Duca di Modena uscisse in campagna, per unirsi colle truppe di Parma, e della Repubblica, le quali doveano passare di qua da Po; ed egli in fatti con un corpo di tre mila e cinquecento Fanti, con mille Cavalli, cinquecento Dragoni, e dodici pezzi d’artiglieria, era ito a postarsi alla Chiesa Rossa lungo il Panaro tra il Finale e il Bondeno, per aspettare l’arrivo del Pesari colle forze Venete, e l’unione de’ Parmigiani. Ma né il Pesari compariva; e quello che più è da stupire, il Duca di Parma, per quante istanze gli fossero fatte, non volle muoversi, adducendo varie scuse o di fortificare i posti occupati, o di ristorar le sue truppe; anzi né pur volle entrar nella Lega, a cui nondimeno aveva egli principalmente data l’origine. Pertanto osservatasi dal Cardinale Antonio Barberino l’irresoluzione e tardanza de’ Collegati in assalire il Ferrarese, ordinò al Marchese Mattei, che preso un corpo di quattro mila soldati da Castelfranco, dove era il grosso delle sue genti passasse ad invadere la parte superiore de’ confini Modenesi. Eseguì egli il comandamento, e trovata poca difesa, perché gli abitanti erano dietro alla messe matura, occupò S. Cesario, e Spilamberto. Fece far la chiamata alla Rocca di Savignano; la risposta fu data alle sue genti con un colpo di spingarda, che gittato da cavallo l’Ufiziale, da cui era condotta la truppa, consigliò gli altri a passare innanzi. Maggiore resistenza avrebbe potuto fare Vignola, perché munita da una fortissima Rocca; ma quel Governatore Suddito del Papa, posto ivi dal Duca di Sora, Marchese di quella Terra e di ventidue altre Comunità, indusse gli abitanti ad arrendersi tosto. Occuparono eziandio Guiglia, e minacciavano altri Luoghi, usando dapertutto crudeltà ed incendj. Nelle Lettere stampate del Conte Fulvio Testi una se ne legge, scritta al Reggimento di Bologna, con cui il Duca si duole de’ medesimi incendj, facendo loro conoscere, che non mancavano a lui squadre di Cavalleria, dalle quali si potea render loro facilmente la pariglia. E non furono scritte indarno, perciocché i Bolognesi con calde preghiere indussero i Comandanti Papalini a far da lì innanzi la guerra, qual più si conviene fra gente Cristiana. Spinse il Duca un buon nervo di fanteria e cavalleria per tagliare il corso a i progressi de’ nimici; e poscia unite le sue colle truppe Venete condotte dal Corraro Provveditore della Repubblica, passò al Finale il Panaro, e mandò a riconoscere Cento, dove si trovò il campo de’ nemici, che costrinsero alla ritirata chi era andato a visitarli. Formato poscia il disegno di tentar l’acquisto di Crevalcuore Terra del Bolognese, nel dì 14 di Giugno del 1643 ordinò al Cavaliere della Valletta d’investir quella Terra con mille Fanti e quattrocento Cavalli. Si credeva il valoroso Condottiere di occuparla al primo assalto; ma ritrovato il fosso pieno d’acqua, fatti appressare sull’orlo del medesimo alcuni piccioli cannoni si diede a battere il muro con pensiero di empiere colle fassine la fossa, e di salire alla breccia. Il Sergente Maggiore Cauti da Ascoli, che era ivi di presidio, tanto si sostenne, che il Cardinale Antonio Legato vi accorse con tutta l’Armata, e caricò sì forte il Valletta, che bisognò sloggiar colla fuga, restandovi morti de’ suoi un Capitano di fanteria con dugento uomini, prigioniere un altro Capitano, e in preda a’ nemici uno de’ Cannoni. Riordinate poi le scompigliate truppe, ardeva di voglia il Valletta di venir di nuovo alle mani coll’esercito avversario, e stimolò all’impresa l’Armata Collegata; ma il Provveditor Veneto per varj riguardi nol consentì.
Quindi passò il Duca Francesco a Buomporto colle sue genti disegnando di mettersi a fronte de’ nemici, e coprire il paese, tantoché avessero i paesani il comodo di fare i loro raccolti. Trovava sempre il Duca delle difficultà nel Corraro per qualunque spedizione ed impresa, ch’egli proponesse. Ma perciocché gli Ecclesiastici erano tornati più forti che prima ad infestare i luoghi della Montagna Modenese, il Duca, che mirava di mal’occhio tanta loro baldanza, e il danno de’ Sudditi suoi sì vivamente parlò, che ottenuti appena mille e cinquecento moschettieri Veneti di rinforzo alle sue truppe, determinò di portarsi in persona a fare sloggiare il nimico. Mossesi egli da S. Lazzaro, luogo distante da Modena un miglio, adì 22 di Giugno, ed arrivò a Castelnuovo de’ Rangoni, dove appena preso un po’ di riposo, era per indirizzarsi alla volta di Guiglia; quando eccoti un ordine del Corraro al Gonzaga, condottiere de’ moschettieri Veneti, di non passare più oltre. Diede nelle smanie il Duca, ne fece far’aspre doglianze dal Marchese Tassoni suo Residente in Venezia a quella Repubblica; e chiarito oramai abbastanza del capitale, che s’avea a fare di Collegati sì misteriosi e guardinghi, si ritirò nelle vicinanze di Modena ad aspettare più favorevoli venti. Ma accortosi il Cardinale Antonio della sonnolenza, e poca intelligenza de’ Collegati, si animò a maggiori progressi; e però adì 19 di Luglio spedì da S. Giovanni il Signore di Valenzè all’assedio di Nonantola, per coprire il quale venne il Marchese Mattei Mastro di Campo Generale con altro corpo di gente, mandando anche ad occupare il Ponte di Navicello sul Panaro, affinché di là non potesse portarsi soccorso. Fece il Valenzè la chiamata alla Terra; ma dentro v’erano di presidio il Cavalier Fontana Modenese col Signore di S. Martino Franzese, Ufiziale de’ Veneziani, i quali animosamente risposero di volersi difendere. S’allestirono dunque l’artiglierie, le quali cominciarono dalla parte del Convento di S. Francesco a battere la Terra; e talmente se ne tenne certo l’acquisto, che lo stesso Cardinale Legato volle in persona intervenire alla bellicosa funzione. Non sì tosto intese il Duca Francesco l’attacco di Nonantola, che prese la risoluzione di soccorrerla a tutti i patti. Però la mattina del dì 20 di Luglio del 1643 spedì innanzi il Comendatore Panzetta con quattro compagnie di cavalleria, che giunto a Navicello sì coraggiosamente investì i nemici, che li mise in disordine, restandovi ferito il Commessario de gli Oddi. Finì col suo arrivo di sloggiarli e metterli in fuga il generoso Conte Raimondo Montecuccoli, Generale della Cavalleria del Duca, che sopragiunse con più grosso corpo di gente. Finalmente unitosi con loro lo stesso Duca col resto dell’Armata, e a bandiere spiegate passando sotto Nonantola, attaccò la battaglia co’ Papalini, i quali dopo qualche difesa sbaragliati si raccomandarono alle gambe, restandone molti sul campo, fra’ quali D. Francesco Gonzaga Mastro di Campo, e il Sergente Maggiore Fanfanelli, e non pochi altri feriti o prigioni. Diede saggio di sua prodezza anche il suddetto Cardinale Antonio, che accorse con altro corpo di gente per sostenere i suoi. Ma mossosi contra di lui il Duca, sì ferocemente l’assalì, che non tardò a mettere ancor lui in fuga, e poco mancò che il Porporato non vi lasciasse la vita tra le moschettate, l’una delle quali gli ammazzò sotto il cavallo. Volea prevalersi di questo vantaggio il Duca, e indurre il Corraro a passar seco con tutta l’Armata sul Bolognese; e trovatolo alieno dall’azzardar di nuovo le truppe ausiliarie Venete, ebbe de’ fieri contrasti con lui. Finalmente l’indusse, dopo avere spedito un convenevol presidio al Finale, a secondar le risoluzioni del suo coraggio. Perciò mosse l’Armata verso Spilamberto, da dove, non meno che da gli altri posti del Modenese occupati s’erano prima ritirati i Papalini, e nel dì 29 di Luglio prese Piumazzo, & indi Bazzano, & altri Luoghi del Bolognese. Già le scorrerie penetravano fino al Reno, e il terrore entro la stessa Città di Bologna; correva anche il pensiero a maggiori imprese, quando arrivò l’avviso, che il Cardinale Antonio per divertire l’armi de’ Collegati avea fatto passare un grosso nervo di gente di là dal Po al Lagoscuro, & ivi si fortificava con gran diligenza. Fu perciò richiamato con fretta da i Veneziani il Corraro colle sue truppe; e per quante ragioni sapesse addurre il Duca di Modena, altro non poté ottenere, se non che lasciasse quattrocento fanti in aiuto suo. Ardeva intanto la guerra anche in Toscana fra il gran Duca, e i Pontificj, riportando ora l’uno, ora gli altri de i vantaggi. E ancor qui diede il Cardinal’Antonio maggiormente a conoscere l’elevatezza de’ suoi consigli; perciocché riflettendo, che le forze del Gran Duca erano tutte impegnate verso il Perugino, fece marciare all’improvviso il Signore di Valenzè con quattro mila fanti e mille cavalli per la via della Poretta, non senza speranza di sorprendere Pistoia. Fu sì impensato l’arrivo di questa gente, che al Gran Duca non restò tempo d’introdurre rinforzo in quella Città. Contuttociò il coraggio de gli abitanti deluse la scalata tentata dal Valenzè, il qual poi si rivolse alle prede nel territorio. Questo accidente obbligò il Gran Duca a chiedere qualche rinforzo da i Collegati. Unì il Duca di Modena al soccorso inviato da’ Veneziani mille e dugento de’ suoi fanti, e ottocento cavalli, che s’avanzarono per contrastare il ritorno al Valenzè, o pure per obbligarlo ad accorrere in aiuto dell’esposto paese di Bologna, verso il quale spedì il Duca il rimanente delle sue truppe. Riuscì al Conte Montecuccoli di occupare il Vergato, Terra del Bolognese, difeso in vano da dugento fanti, e da secento paesani. Il Colonnello Colombo diede il sacco a Rocca Corneta; il Valletta, dopo avere sconfitta una compagnia di Cavalli, scorse alle porte di Castelfranco, e fino a Bologna; Bazzano fu preso di nuovo, ma non senza battaglia, in cui restarono estinti cento cinquanta fanti, e sessanta Dragoni, ch’ivi erano di presidio; e sì calda fu l’azione, che vi resto ferito lo stesso General Montecuccoli. Così Monteveglio, Serravalle, ed altri Luoghi del Bolognese, dove i popoli aveano rifugiato il meglio deì loro averi, rimasero preda delle milizie Collegate. Se la vide bella anche l’ardito Comendatore Panzetta, e andò colle truppe cavate dal presidio di Modena ad occupare la grossa Terra di Crevalcuore. La prese egli con tagliare a pezzi circa trecento uomini, che v’erano di guarnigione, e vollero far resistenza; ma avendo i suoi soldati trascurate le guardie per la cupidigia del saccheggio, inviato colà il Mompensieri dal Cardinale Legato con ordine di riacquistare quell’importante Terra ad ogni costo, sorprese i Modenesi, de’ quali cinquanta con un Capitan di Corazze furon trucidati, e il resto si salvò colla fuga. Restovvi prigioniere il Panzetta, che condotto nelle carceri di Bologna, seppe da lì a non molto trovar la via di fuggire.
Così terminò l’anno 1643 e venuto il verno, si ritirarono le Armate a i loro quartieri. Allora fu, che ne i Gabinetti si attese più seriamente a i trattati di pace, che non s’erano mai interrotti. Il timore di qualche irruzione nel Polesine di Rovigo, contrada fertilissima, e troppo cara alla Repubblica Veneta, era un forte stimolo in Venezia per cercare il fine di questi torbidi. Dall’altro canto la desolazione patita nel Ferrarese e Bolognese, le querele de’ Popoli, e del Sacro Collegio, che mal volentieri sofferiva il consumo del tesoro della Chiesa per sì vili motivi; ma più la vita cadente del Papa, faceva sospirare a i suoi Nipoti la quiete. Pertanto la mediazione del Re Cristianissimo, e l’applicazione del Cardinale Alessandro Bichi Plenipotenziario d’esso Re, smorzarono in fine questo incendio, con istabilire dopo molti dibattimenti nel 1644 i Capitoli della Pace fra il Papa, e i Collegati, che nell’ultimo dì di Marzo furono sottoscritti da i Ministri, e per parte del Duca di Modena dal Marchese Ippolito Estense Tassoni. Leggonsi i medesimi nelle Storie di Vittorio Siri, e quivi principalmente fu conchiuso, che il Papa restituisse Castro e Montalto al Duca di Parma con restare a i Montisti le primiere loro ragioni; che il Duca di Parma restituisse al Pontefice la Stellata e il Bondeno; e che si demolissero tutti i Forti, e le fortificazioni fatte dall’una parte e dall’altra in occasione di queste rotture. In tal maniera ebbe fine la guerra Papalina, in cui non mancò gloria ed onore a i Principi Collegati, perché giunsero ad ottener colla forza ciò, che indarno con gli ufizj e co i maneggi amorevoli aveano cotanto cercato; ma gloria comperata ben caro da tutti, e spezialmente dal Duca di Modena, che avendo quasi sempre a fronte le forze maggiori de’ nemici, portò anche il peso maggiore di quella briga, e trovò tante volte deluso il suo animoso fervore nell’operare dal freddo, e dalle politiche riflessioni (per non dire dalla mala fede) altrui; e finalmente, senza che si parlasse punto delle sue Ragioni colla Camera Apostolica, fu costretto a segnar la Pace da chi moriva di voglia di dar fine alla Guerra. Restarono bensì delle differenze fra la Repubblica Veneta, e i Ministri del Papa per la demolizion delle fortificazioni di Comacchio, che questi pretendeano di non essere tenuti a distruggere; e se ne alterarono in guisa i Veneziani, che tentarono d’impegnare il Duca Francesco a star pronto con essi per nuova guerra, la quale si credea che darebbe adito a lui di sostenere i suoi diritti sopra quelle Città, e massimamente essendo languente la vita del Papa. Ma il Duca oramai abbastanza chiarito della differenza, che passa fra le promesse e i fatti, e dove vadano per lo più a terminar le Leghe: cortesemente se ne scusò, e attese da lì innanzi al riposo proprio, e de’ suoi Sudditi. Terminò in fatti il corso della sua vita e del Pontificato Urbano VIII adì 29 di Luglio del 1644 con aver lasciato in alcuni Stati viva la memoria delle sue fantastiche guerre con gli aggravi, che tuttavia vi durano, ed ebbe per Successore il Cardinale Panfilio, da cui fu preso il nome d’Innocenzo X. Finì ancora i suoi giorni in Modena adì 24 d’Agosto di quest’anno il Principe Obizzo d’Este, Fratello del Duca, e Vescovo di questa Città, e fu seppellito in S. Vincenzo presso l’Infanta Isabella sua Madre.