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Nell’«Antigone» si può vedere in pieno effetto la nuova drammaturgia di Sofocle. Antigone è l’eroina; e tale eroina, che il suo semplice gesto basterebbe ad empir di sé la tragedia; ma Sofocle non si stanca di cercare elementi e inventare particolari per arricchire l’azione. E la pone in fiero contrasto con la sorella. E le attribuisce un fidanzato, Emone, figlio di Creonte. Ed Emone, a sua volta, ha una madre che si uccide pel suicidio del figlio. L’azione, cosí allargata, perde, non c’è dubbio, d’intensità lirica; ma guadagna, è anche piú certo, d’intensità drammatica. Alle esecuzioni di Siracusa, si poté valutare nel cimento pratico il grande effetto dell’ultima parte, che, a giudicare teoricamente, sa un po’ di strascico, perché Antigone, l’eroina, è già spenta.
Anche il contrasto appare qui sviluppatissimo. Antigone è in lotta, prima con Ismene, e poi con Creonte. E Creonte, con Antigone, col proprio figlio Emone, e, infine, quando già l’azione volge al termine, col profeta Tiresia. E i dibattiti sono sempre svolti con larghezza d’argomentazioni, e con fitta insistenza di repliche.
Ma, anche qui, siamo súbito distolti dalla minuta disamina dei particolari. La meravigliosa figura d’Antigone assorbe tutta la nostra attenzione, e lascia in ombra, con la sua luce prodigiosa, tutti gli altri elementi del dramma.
E l’impressione complessa e più immediata che essa produce sul nostro spirito, riesce bene adombrata, mi sembra, nelle seguenti parole del Masqueray: «Per comprendere la figura di Antigone, dobbiamo pensare alle nobili statue di Dee e di mortali che Fidia e i suoi discepoli scolpirono pei frontoni e pel fregio del Partenone: sono sue contemporanee. La beltà delle donne d’allora — beltà interamente perduta — era maestosa e semplice, grandiosa e calma, serena e dolce. I volti non erano tormentati da verun pensiero troppo sottile, da verun desiderio: i gesti erano ampii, misurati, tranquilli: le vesti cadevano in pieghe simmetriche, sopra corpi armoniosi e gravi. Antigone, s’intende, non mantiene sempre nel dramma quest’attitudine; ma conserva, nel volontario sacrifizio della vita, una serenità dolorosa che la ricorda».
Non si potrebbe dir meglio. Però, quando dalla impressione generica il Masqueray scende ad una più minuta analisi dello spirito d’Antigone, riesce assai più difficile seguirlo. E ricordo il Masqueray, perché è uno dei più autorevoli e il più recente rappresentante d’uno dei gruppi o «partiti» nei quali sogliono esser divisi gli ammiratori di Antigone.
«Presso i Greci — ragiona, su per giù, il Masqueray — le donne ebbero sempre poca voce in capitolo, e neanche goderono eccessivamente la deferenza e la stima del sesso maschile. Il massimo elogio a cui potesse aspirare una donna, era di dimostrar sensi virili, di rassomigliare ad un uomo. E cosí è avvenuto che Sofocle, volendo esaltare la sua eroina, l’ha troppo mascolinizzata: sicché la fermezza imperiosa della sua volontà ha qualche cosa di pedantescamente virile, che ci lascia un po’ sgomenti. E stringi stringi — parla sempre il Masqueray — riesce più vera ed umana la figura d’Ismene».
Davvero, per arrivare a simile conclusione, ce ne vuole. Ci vuole la mentalità d’un filologo moderno infatuato di femminismo. Il quale, poi, per uno strano contrappasso, finisce per diminuire il proprio idolo. La fermezza di Antigone non è durezza, e nemmeno è quella singolar tenacia di molti personaggi sofoclei, che rassomiglia qualche volta alla testardaggine: bensí è la inflessibilità di fronte ad un sacro dovere: è puro eroismo. Ed eroismo degli anni di giovinezza e di verginità, quando l’immacolatezza dell’animo e del corpo rende le creature piú devote a tutte le bellezze morali, piú intransigenti verso gli altri e verso sé stesse. E chi di simile eroismo crede incapace Antigone perché donna, quegli, senza avvedersene, reca offesa alla causa che presume difendere. Giacché l’esperienza insegna che le donne, come hanno essenzialmente un concetto piú serio della vita, cosí sono anche, assai piú degli uomini, capaci di piccoli e grandi eroismi e sacrifici. Ed è piú che naturale che una fanciulla come Antigone, per non deflettere una linea dal suo sacro dovere, sfidi impavida i patimenti e la morte.
E, d’altra parte, non bisogna dimenticare, che, compiuto intrepidamente questo dovere, Antigone, sul punto di andare alla morte, si sente venir meno il cuore. L’Antigone dell’Alfieri, movendo al supplizio, dice alle guardie:
Su, vi affrettate, andiam; sí lento passo |
E queste parole, sulle labbra d’una giovinetta, non dirò neppure che suonino troppo mascoline; ma, nella loro implacabilità, hanno qualche cosa di voluto, di accademico, di falso.
Ma ben differente è l’Antigone di Sofocle. Al momento di abbandonare la vita, ella sente profondamente tutti gl’incanti di questo universo terribile e paradisiaco, il cui fàscino ammalia anche le creature piú percosse dalla sventura: al suo pensiero virgineo, balenano le gioie che la giovinezza promette facili e inebrianti; e dinanzi alla inetta pietà dei vecchi signori della sua patria, giunge, cade, come un povero uccello ferito. E l’ultimo lamento — gemito d’usignuolo — che ella esala verso le are, i fonti, i boschi della patria, intenerirebbero un cuore di pietra. Antigone è una eroina, ma non è una fanatica del martirio.
E, d’altronde, basterebbe il suo spirito di sacrificio, costante fino alla morte, prima verso il padre, poi verso il fratello: ché il sacrificio è la nota piú caratteristica della psicologia femminile: basterebbero le parole che essa rivolge al disumano Creonte, e che hanno avuta tanta risonanza nei secoli:
Gli amori teco, e non gli odii partecipo.
E che essa non dica neanche una parola d’Emone, che ella certo doveva amare, se tanto teneramente ne era amata, per quanto orrendamente macchiata dalla sua nascita, è un nuovo tratto squisitamente femminile; quasi direi manzoniano.
No: come Antigone non ha nessuna declamatoria durezza tragica, così non ha neppur l’ombra della mascolinità che veramente caratterizza le viragini di Eschilo. È donna. È la donna rappresentata nelle sue piú alte doti morali. Shelley — al solito, un poeta — ha vista intera la verità, e l’ha espressa con parole indimenticabili: «Ciascuno di noi, in una vita anteriore, ha amata un’Antigone; e ciò fa sí che nessun legame umano possa piú appagarci».
Un solo punto, se mai, della condotta di Antigone, ci lascia meno convinti, e gitta un’ombra, se è possibile, sulla nostra simpatia: ed è la sua durezza verso la sorella. Ismene, che non ha la sua tempra eroica, non osa trasgredire gli ordini del re, tituba, rifiuta. Ma poi, quando Antigone viene scoperta, e sta per essere condannata, Ismene trova anch’essa una forza eroica, ed è pronta a seguir nella morte la sprella diletta. E Antigone seguita a respingerla fieramente, con asprissime parole. Perché?
Il Jebb vorrebbe dimostrare che è infinita durezza, volta a convincere Creonte della innocenza d’Ismene; ma sembra sofistica difesa. Si può pensare piuttosto che la posizione di contrasto in cui ella si trova con Ismene, abbia indotto Sofocle, quasi suo malgrado, a forzare le tinte: che, insomma, come spesso avviene, un atteggiamento prediletto abbia un po’ rubata la mano al poeta. Comunque, è innegabile, che, per questo lato, un’ombra dell’arcaica durezza tragica si stende ancora sulla soave figura di Antigone. E così, alcune delle considerazioni che ella fa su la perdita d’un fratello in confronto con quella d’uno sposo, sono tanto ostiche al sentimento moderno, che qualcuno le ha credute senz’altro apocrife, e ha pensato ad espungerle. Però non bisogna dimenticare che erano perfettamente corrispondenti al sentimento greco.
Secondo il Jebb, non isolato in questa opinione, l’unità della tragedia — il presame ideale dei varii elementi — , consisterebbe nel dibattito che si effettua, massime nei contrasti fra Antigone e Creonte, intorno al conflitto fra le leggi umane e divine.
E sia pure. Ed anche si accetti l’affermazione del medesimo filologo, benemeritissimo di Sofocle, che qui «abbiamo il solo caso in cui un dramma greco abbia per tèma un pratico problema di condotta, che implica conclusioni morali e politiche da poter essere discusse, in casi simili, in ogni tempo e in ogni paese del mondo».
E si seguano pure le discussioni dei varii critici intorno alla sostanza del dibattito. Poiché alcuni sostengono che sia nel giusto Antigone; ed altri, Creonte; e chi opina (per esempio, il Boeckh) che abbiano torto tutti e due, e difendano curialescamente le tèsi rispettive; e chi, invece, che abbiano entrambi ragione, ma errino nei modi con cui la sostengono: onde la loro duplice punizione; ed Hegel, infine, sommo, qui, come sempre, nell’esprimere con piglio da Sibilla le più solenni fatuità, dice, tanto per trovare una formula nuova, che hanno tutti e due torto e ragione.
Lasciamo pure sfogare liberamente questo torrente di discussioni. Ma, quando il Jebb, poi, ci assicura che questo problema bisogna assolutamente risolverlo, perché, secondo che si adotti l’una o l’altra interpretazione, muta anche la nostra valutazione del dramma come opera d’arte, allora bisogna pur rispondere che la bellezza miracolosa dell'«Antigone» è proprio ed in tutto indipendente dalla soluzione di questi formidabili problemi, che ben volentieri si abbandonano agli aguzzi denti dei rosicanti moralisti e filologi. Potrà, tutto al più, importare se Sofocle simpatizzi con Creonte o con Antigone; ma, per fortuna, questo problema è prima risoluto che proposto.
Neanche qui insisto più oltre sulle caratteristiche estetiche del dramma, che risultano evidenti alla lettura, alla rappresentazione. Conviene però osservare due particolari nella concezione e nella condotta del coro.
Sebbene l’eroina sia una donna, i coreuti non sono anch’essi donne, come avviene in casi simili in tutte le altre tragedie greche («Elettra» e «Trachinie»; e, per venire ad Euripide, «Andromaca», «Elettra», «Ecuba», «Ifigenia in Aulide», «Ifigenia in Tauride», «Medea»); bensì di uomini, di vecchioni. Ed è ottima osservazione del Jebb che così riesce più impressionante il tragico isolamento dell’eroina.
L’Antigone dei «Sette a Tebe» è accompagnata da una schiera di fanciulle che pubblicamente le manifestano la loro simpatia.
Quanto alla forma, sono da rilevare certi strascichi di anapesti, che tengono dietro, via via, al secondo, al terzo e al quarto canto intorno all’ara, e servono, ciascuna volta, ad annunziare un nuovo personaggio che arriva. È una tecnica che sostanzialmente troviamo anche in Eschilo. Qui però è usata con una costanza e con un effetto speciale. Gli episodii si svolgono, i canti seguono l’uno all’altro, diversi di contenuto e di forma. In mezzo alla loro varietà, queste serie anapestiche, uniformi e quasi monotone, si allacciano idealmente l’una all’altra, come un filo rosso, ed evocano alla fantasia degli spettatori le originali evoluzioni del coro, in tempo di lentissima marcia.
⁂
Pel successo dell’«Antigone», Sofocle fu eletto, per voce di popolo, fra gli strateghi della spedizione di Samo. Questa notizia, che possiamo ritener sicura, ci permette di fissare, con grande approssimazione, la data della tragedia: poco prima del 400. I lettori non devono poi stupire troppo di questa nomina; perché gli strateghi non si occupavano soltanto di spedizioni belliche, bensì trattavano la politica estera, ricevevano ambasciatori, li introducevano nell’Assemblea, organizzavano corteggi religiosi: tutti uffici nei quali anche un poeta può fare la sua brava figura.