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Sotto il nome di lui vanno per le stampe, da circa sette anni in qua, dopo il primo volumetto dell’Antica Madre (1900) due volumi di novelle, Anna Perenna (1904) e i Primogeniti (1905); un romanzo satirico, degli Uomini rossi (1904), e un altro romanzo, Il Cantico (1906); senza contare due libretti descrittivi (un’illustrazione del paese da Argenta a Comacchio, per l’«Italia Artistica»; e poi una specie di monografia, Ravenna la Taciturna, del 1907), e altre cose minori.
Ma per parlare della sua arte queste date non contano niente.
Tutta l’opera di Beltramelli par nata della stessa ispirazione, in un sol giorno. L’impronta è unica, in tutte le pagine. O stile o maniera o altro che s’abbia a chiamare, è pure una nota, particolarissima, alla quale una scrittura sua si riconoscerebbe a colpo d’occhio, tra mille.
Dire in che propriamente consista, e di che, è più difficile; e io non saprei rappresentare l’impressione mia se non con l’impressione che mi resta alla lettura di una poesia voltata in una prosa, da un’altra lingua. Si sente un disagio, una scontentezza indefinita; pare una musica sorda, soffocata dentro uno strumento imperfetto: c’è qualche cosa che è fuor di posto, fuor di tono, qualche cosa di oscuro, che vorrebbe giungere alla pienezza dell’espressione, e non può. Manca la grazia e il dono divino. Anche se il traduttore è uomo di garbo e d’abilità grande (provate a vedere Heine nella traduzione francese delle liriche, a cui lavorò egli stesso; ovvero Goethe, o i pezzi lirici di Shakespeare, o quale altro lirico vogliate, antico o moderno, in prosa italiana), il lavoro non è mai felice; quel che era luminoso, leggero, vivace divien greve e opaco. Quel che era fervore lirico, movimento inesprimibile di immagini e di suoni, ragione intima o musicale della poesia, viene meno alla traduzione: o resta solo, in prosa, come una stonatura; come un’accensione a freddo, uno sfarzo di parole e frasi ricercate, che non hanno più ragion d’essere; e la noia è grande di quelle pose enfatiche e ispirate, a cui l’effetto non risponde mai.
Ora molte volte mi son chiesto se Beltramelli non scriva per avventura le cose sue prima in bellissimi versi, d’una lingua ch’io non conosco; e poi le volti o le faccia voltare, in prosa italiana; qualche volta bene, altre volte mediocremente, più spesso molto male.
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Bene o male, è sempre una traduzione; che riesce per eccellenza inadeguata. L’anima dello scrittore traluce come in uno specchio torbido.
La dovizia dei vocaboli è grande, copiosa, eletta; ma non ha qualità espressiva propria. Pare che il traduttore li abbia sostituiti un poco materialmente a quelli dell’originale, senza rendersi troppo conto della loro convenienza; talora s’è fidato troppo al caso, all’orecchio. Parla dell’arrubinarsi di un viso; dell'aggricciarsi dei capelli: di «un folle popolo che si affolla e si accarna....». Certe parole suonano con rarità preziosa, ma non significano nulla; certi aggettivi, come ferrigno sopra tutti, e poi rossigno, ramigno, salcigno, certi verbi come sbisciare, saettare, e via via, cadono un po’ da per tutto, a proposito e a sproposito.
Allo stesso modo le composizioni di parole, le clausole, i periodi mostrano un’architettura sapiente, che non ha nè efficacia nè vera eleganza: il traduttore non sa accomodare i suoi modi ai bisogni dell’argomento. Il moto del discorso non rappresenta se non molto all’ingrosso, talora duramente e goffamente, il movimento che s’indovina del pensiero. Le immagini hanno di rado la freschezza delle cose nuove, la evidenza felice di quel che è nato a un punto con l’oggetto. Si sente che qualcuno le ha trovate dopo, a stento. C’è di peggio: il traduttore molte volte non ha saputo riconoscere la immagine sincera dell’originale, e si prova a sostituirla, con un’infilata di immagini generiche che le somigliano tutte: ma nessuna ce la rende.
Più fa il dabben uomo: ha in mente di render perfetto l’originale. La sua intenzione è ottima, ma io temo molto che debba menarlo all’inferno. Egli riprende i motivi che non gli sembravano sviluppati abbastanza, e li commenta lungamente, affastellando le frasi sulle frasi, le metafore sulle metafore: alla fine ogni cosa è diluita in un brodo lungo di luoghi comuni, di astrazioni, di vernici generiche. (Me ne capita sott’occhio una fra cento, Pujàn: «Il giovane taciturno, la scure scintillante, l’aspro grido della vittoria umana su la natura selvaggia»).
E poi ha la malinconia filosofica; tratto in tratto interrompe il discorso per introdurre qualche sentenza; non abbandona una descrizione, una scena, una persona, senza aver soggiunto con quel suo tono d’oracolo una riflessione che vorrebbe esprimere la intima essenza delle cose, fissarne quasi per l’eternità l’anima e la ragione suprema.
Non basta ancora: quando ha bene commentato e filosofato, egli si piace di abbellimenti minuti. La sua prosa gli pare ancora troppo sciatta, in paragone dei versi di cui gli giunge la lontana melodia, e ricomincia ad adornarla: qui trova un nome senza aggettivo, e glie lo rende: qua apre una parentesi per una piccola descrizione di qualche accessorio dimenticato; aggiunge un po’ d’oro e un po’ di vermiglio alle tinte; arrotonda, lustra, rassetta.
Io non giurerei che le cose vadano proprio a questa maniera: ma son sicuro, che se andassero così, ne nascerebbe qualche cosa di molto simile a quanto abbiamo dinanzi. E valga il vero.
Questo è un ritratto di fanciulla. «Ell’era bionda, ell’era come il sole di maggio. In lei era il sorriso delle albe infinite, il balenio dei gioielli, il saettare della fiamma; ardente a un tempo e queta, impetuosa e mite; due estremi confini chiudevano l’anima sua e, nel segreto tesoro, era ogni sentimento ed aspro e squisito. Chiara a somiglianza dell’alabastro era Fiora d’Vurlàn, alla quale ogni parola d’esaltazione formava spontanea corona come a termine fisso».
E’ prosa poetica, che non rappresenta, ma vorrebbe cantare: e ci dà infine, intorno a una impressione mal definita e per se stessa debole, un commento liricamente appassionato. Non la bella figlia ci appare, ma alcuna sua qualità astratta, sorriso, balenio, ardore; illustrata con immagini molto generiche. Alla fine una cosa semplice è detta con ricercata solennità. Eppure, non si può dire che l’insieme sia brutto: o almeno, non è volgare.
Nella stessa novella la visione di Fiora addormentata sorge alla fantasia di un innamorato. «Non eran forse in quel riposo aspettante le dolcezze delle albe prime?» (Questa è la battuta, che chiude la strofe della visione; si sente la pretesa e la vanità. Poi riprende con lirica abbondanza). «Frutto di more, soavità di biancospino, profumi di giardini e di vigne, e candori d’alabastro, tutto sarebbe stato suo....».
Ormai, la maniera si vede; osserviamola in un saggio più pieno. Le «belle figlie del mare» son parte principale di una novella, Il gioco, dove si vedono prender diletto gaio e crudele di un povero mostriciattolo. Il poeta le presenta così: «Andavano a gruppi le gioconde figlie del mare e delle sabbie ardenti, a stuoli numerosi chè la pesca è un opera grave! Partivano al levarsi della diana, seminude coi brevi capelli disciolti, e, poichè l’aurora saliva nei cieli erano su la spiaggia a gettare le reti».
È il preludio; date le abitudini dello scrittore, è abbastanza misurato. Ma il calore crescerà a mano a mano. (Mi contento di sottolineare qualche particolare dove il buon traduttore si dimostra più ingenuamente).
«L’energica vita le aveva rese agili come fiamme guizzanti, forti come tenaglie e non v’era gagliardia ch'esse temessero». Noto soltanto che quelle immagini di fiamme e di tenaglie sono nate dall’aggettivo: che, sulla carta scritta, ha nascosto le figlie del mare.
«Sotto il vento, sotto le grandi tempeste passavano indifferenti, le chiome scompigliate, superbe nella perfetta linea della loro magnifica persona ».
La, bella immagine risorge; e con essa un desiderio di rappresentarne tutta la bellezza nel canto, un ardore che si esalta a un tratto e prorompe con foga vasta.
«Gaie e selvagge; dal colore del grano e delle arene e del ferro; dai candidissimi denti che ponevano, sul vermiglio delle tumide labbra e sul tono caldo del volto, improvvise dolcezze nel sorriso che trasfigura (!); passavano come le procellarie dal volo possente, tutta animando l’amara vastità della landa e la verde solitudine del mare. Nel loro cuore era la placida indifferenza dell’infinito e, negli occhi, il saettare della luce». Ho sottolineato quel che mi suonò più volgare; ognun vede come l'impeto lirico iniziale, oppresso dalla macchina pesante del periodo, fatto torbido per luoghi comuni, vada infine quasi a perdersi nel vuoto. S’ha come una pausa, e poi, una bella strofe.
«Gole d’oro, occhi di smeraldo, verdi, vivi di bagliori metallici, esse cantavano, come in maschia sfida, dall’aurora ai pallidi crepuscoli, ininterrottamente a simiglianza del grande mare del quale erano figlie; cantavano al piacere, all’offerta, senza la vereconda ipocrisia delle vecchie fole».
Qui c’è, almeno fino a un certo segno, vita, movimento, splendore; il poeta ha quasi vinta la mano al traduttore. Ma non è questi uomo da restar molto al di sotto; si rifà subito, con uno dei suoi commenti più mirabili, muovendo da quella nota astratta, «il piacere, l’offerta», così malauguratamente accennatagli.
«L’amore era il miglior frutto della terra, esse lo sapevano e lo stimavano esaltandolo. Così ai loro occhi di belle, libere fiere, tutto, che non fosse sincrono alla loro forza di vita, appariva detestabile e doveva essere distrutto. Ogni energia superiore è come un vortice nel quale le cose miserande scompaiono».
Parole non ci appulcro. Cito ancora, dove mi par di sentire strider la penna del traduttore alla goffa chiusa, una piccola descrizione. «Per assumere un aspetto cadente, Zeremi si era dipinto il viso col nero fumo, senza pensare che gli occhi suoi vivi e le larghe guancie rubiconde, si sarebbero ribellate a tale compito».
Questo poi è d’un uomo che guarda, disteso tra l’erba, le stelle. «Io mi vidi innanzi.... l’immenso giro delle costellazioni; vidi il palpito lucente del gran cuore ignoto dell’eternità, bagliori metallici, immobili come occhi spettrali, vividi nel folgorio di vile possenti e sentii soffrire la mia piccola miseria e chiusi gli occhi per udire le voci vicine, le melanconiche trame dei grilli... La terra dorme in quel breve sviluppo di suoni che hanno un tremolio stellare». Manca in italiano una parola che renda quel che per i francesi è galimatias; ma la cosa non manca per certo!
Ora, invece di richiamare altri esempi del genere — sarebbe come voler vuotare il mare — mi piace di porre qui accanto un luogo, che tocca un motivo quasi identico: ma questa volta il poeta è stato solo, o quasi, a notare quel che sentiva. Si parla della pastora di Cerbiatta. «Ella contava le stelle: tante notti serene, stesa su l’erba, all’agghiaccio, vicino alle bianche pecore che mettevano un languore ne l’oscurità, s’era divertita a contare le stelle e ne aveva contate a centinaia, poi s’era addormentata con qualcosa di bianco nel pensiero: con una inconscia leggerezza di spirito, fra le corolle che le si curvavano sul viso, ed aveva sognato di volare». Questa è la poesia nella sua purezza. Io ricordo, da una novella di Daudet, un’altra notte deliziosa, d’un pastore e d’una fanciulla, all’agghiaccio, col profumo delle pasture intorno e il fresco delle stelle sul viso. Ma non la invidio; e qui forse son qualità di poesia più lieve, più alta.
Consoliamoci ancora un poco. È un’altra notte; non tanto sentita dentro l’anima questa, ma offerta con semplicità alla gioia dei nostri occhi; una notte di primavera. «Devila si scioglieva i capelli, alla luce lunare, per evitare le malie del maggio. La vedevo eretta in un quadrato di puro argento e vedevo le sue chiome farsi opache e il profilo di lei accentuato da un albore diffuso; dietro e più lontano era la trama di una siepe e l’incrociarsi di qualche rama in fiore».
Il traduttore qui non si rivela se non a quell'accentuato; e forse all’uso costante di introdurre le immagini con una nota generale (ponendo non le rame che si incrociano, ma l’incrociarsi delle rame). Se non si rivelasse mai altrimenti! Ricordo una descrizione della pineta, d’inverno, a lume di luna. «Un bianco mantello di bioccoli e diamanti, di lane, di cristalli, di gemme aveva disteso su tutti i rami, sii ogni piccola foglia, per interminato cammino, la galaverna. Folgoreggiò la foresta, fatta quasi più viva in quel lumeggio di cristallo, (e parve un immobile mare acceso dall'apparizione del piccolo mondo morto che la legge eterna sospinse con noi verso ignote costellazioni).
«Erano diademi, gale, ghirlande, arditezze di archi sottili lanciati sul vuoto, giardini siderali, steli, indefiniti ricami lievi come fiato, e frange, e stille e aghi d'adamante che avevano al vertice un esile tremolio stellare (!). Immense corone di gemmei rovi, candidezze di innumerevoli corolle, nivei nimbi di bacche cristalline. La foresta sotto il bianco incantesimo della galaverna taceva avvolta come in un magnifico sudario».
Qui vedete il poeta e il traduttore: l'uno ha veduto lo spettacolo con occhio puro e l'ha ritrovato mirabilmente nelle sue parole leggere: l’altro ha trasportato tutto questo un poco rigidamente in astratti, ha aggiunto una sua parentesi — io l’ho segnata sulla carta — esornativa, s’è provato a rialzare il tono alla fine.... Ma non è riuscito a disperdere l’incanto.
Questa qualità di espressione, che anche per pochi esempi ha potuto rappresentarsi nettissima ad ogni occhio, non è una particolarità, come si sarebbe detto un tempo, formale, accidentale; un difetto che si possa togliere....
Tutte le operazioni dell’arte di Beltramelli sono ordinate ad essa. Se ci si pensa un poco, si capisce che non potrebbe essere altrimenti.
Dal modo com’è scritta sola una pagina si può comprendere quale sia in lui il novellatore; l’osservatore di uomini e il descrittore di paesi; il celebratore della Romagna.
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Ah la Romagna di Beltramelli! Bisogna essere romagnoli come noi, per gustarne come si conviene le meraviglie.
È un paese, dove alle solitudini alpestri succedono le pianure, popolate di immense città, e poi le amare lande interminate, le foreste millenarie. E’ un paese vasto e selvaggio; il mare lo circonda urlante, livido, con le ignote voragini.
Le cose vi appaiono come trasfigurate da una luce apocalittica; hanno bagliori foschi e sanguigni, iridiscenze portentose; ad ora ad ora si rivelano nel lume roseo dell’aurora, o nel lividore spettrale di un lampo che squarci la tenebra. Un esempio solo. Una città, che porta il nome di Ravenna, vi appare «come un’enorme muraglia frastagliata, fusa nel più solido metallo di fronte al cielo vesperale, luminoso di rossi violenti....Le sue alte torri erano come antenne nere, accennanti un saluto al mare.... Io vidi la Taciturna coronarsi di immobili incandescenze per i fuochi del sole....». Essa è anche «la terribile città nascosta in fondo agli orizzonti, Ravenna cupa, circondata perennemente da un’immane turba di uomini che la fame sogguarda e il mistero assedia».
Dall’aspetto di queste città, che appaiono a tratti, sul limite degli orizzonti, si può intendere quali e quante siano le grigie lande, «le terre deserte, dove nascono i nenufari su le grandi acque rispecchianti il sole e le stelle», «le foreste e i boschi remoti dove il mistero aleggia fra gli innumerevoli tronchi»; le montagne e la marina. Su questo scenario fantastico si muovono personaggi non meno singolari: anzi stanno «come quercie graniticamente salde di fronte al mistero», «vegliano, come lupi all’agguato», gente strana alla vista, al costume, al parlare. Vivono in fondo ai boschi, o nell’aspra fatica dei campi, fieramente, senza padroni, senza legge. Non somigliano agli uomini che noi conosciamo in nulla; hanno riti e religione loro propria; i loro capi, i loro consigli di anziani, le loro ordinanze, speciali. Accade per esempio che parentadi interi scendano l’un contro l’altro in campo, come a battaglia ordinata. Lotte, stragi sono libere. Corsari vagano per il mare su navi inafferrabili. Presso certe tribù, le giovinette all’aprile vengono ignude a una gara della bellezza, innanzi all’anziano. Altrove è gran festa, quando si radunano le mandre brade dalle pasture, per il marchio, e i giovinetti lottano con tori e le femmine si offrono a loro selvaggiamente. C’è una foresta in cui alla fine di carnevale centinaia di persone si raccolgono a un’orgia dionisiaca. Assemblee speciali degli anziani, o di tutto il popolo, in una piazza o in una selva, giudicano i delitti e ne fanno giustizia; mettono al bando della tribù le spie, fucilano i calunniatori, le streghe. Una legge impone ili maledetti, ai tigli dell’incesto, di vagare eternamente sul mare, senza toccare la terra finchè una vergine non li salvi, donando a uno di loro liberamente il suo amore.
V’hanno fra loro esseri strani; creature tra il pazzo e il selvaggio, che vagano senza posa mai e senza comunione con l’uomo, per le selve e pelle limile; altri che lian perduto quasi l’uso della parola e delle facoltà umane, e vivono come fauni in fondo alla foresta. È una folla di solitari; gente che vive in capanne perdute, che si nutre dei frutti della terra, o pur campa di caccia e di pesca; strani filosofi naturali, come Rabièl, «il semplice filosofo dalle inesauribili amarezze ironiche», «che scrutava il pensiero delle bestie» e «andava sempre a capo scoperto in omaggio a sua madre: la Terra; in onore al Grande Spirito; il Mistero»; come Maraviè, il saggio della landa, che «il giorno andava a visitare i inalati e la notte guardava le stelli-» come tanti altri, cenciosi, vagabondi dai piedi nudi e dalla misteriosa sapienza, stregoni e indovini di virtù non umana, tigli della solitudine e del silenzio di cui rendono fra gli uomini le voci con apologhi e aforismi di oscura solennità.
La religione lui una parte suprema nella vita di queste tribù. È una specie di paganesimo mistico, di naturalismo orgiastico. Essi vivono in comunione profonda con la natura; ne adorano !e potenze, ne celebrano i fasti con fervore assiduo e violento, l’un strana mitologia si rispecchia nei loro discorsi; con oscure allusioni al Grande Spirito che vive nella Casa dei Tuoni (il cielo): ad animali misteriosi, come Nigar, il Corvo che conosce le origini dei mondi, e la serpe Amstrèss (mi striscio): a cento altri fatti ed esseri strani.
Ma sopra tutto adorano il sole, le stelle, la terra, li invocano con nomi religiosi, li cantano in canzoni svariate, dal ritmo oscuro, che hanno insieme dell’inno e della preghiera. Il sole è invocato «anima dei grani, signore dei sorrisi, signore delle stelle, grande vecchio dei cieli....»; la luna «corpo ferrigno, anima di bambace, sorella luna....». Altri inni, altri canti vanno alla primavera, all’amore, alla divinità del mare. Cerimonie speciali festeggiano le stagioni con solennità di danze, di musiche, di orgie. Il culto ha anche una parte magica, più segreta, per cui si vincono le malie imponendo i corpi alftitturati ni roghi innalzati in mezzo alle dune, o facendo recitare alle turbe versetti e formule virtuose, o suonando musiche secondo gli antichissimi riti.
Questa gente porta dei nomi simbolici e pittoreschi. Le donne si chiamano Nuvola, Gelsomino, Alloro, Allodola, Rossa di Splendore; gli uomini Ardito. Vincitore, Olmo, Meravigliato, Velluto, Sicuro, Sole; i bimbi Cardellino, Azzurrino.... Si apostrofano col patronimico solenne: — Senti, Gabriele di Glafira, e tu, Zurdana di Era, e tu, Ombra di Telespar! — Singolari in ogni altra cosa, negli atti, nei nomi, nei visi, nei riti, non sono mono singolari nelle parole. Parlare è una delle delle occupazioni principali della loro vita: per qianto l’autore ce li soglia rappresentare in principio muti, in posa di severità assorta. Parlano dunque con un linguaggio immaginoso e lionito, tutto di metafore, di sentenze, di enimnii. Si sentono, fra contadino e contadina, frasi come questa: «Svegliati.... nube del mare, viso di perla....»; oppure «addio, occhi di fumo; addio, suora di Cristo!». — L’odio, l’amore, gli spettacoli della natura, — su cui l’occhio di costoro è sempre fisso — sono celebrati con enfasi poetica; che prende più bizzarro rilievo dalle allusioni mitologiche, che introducono la sorella nera (la morte), la reggia dei tramonti (l’autunno), la casa del tuono e via via.
Questa è la Romagna nei libri di Beltramelli: questa la gente che egli ha conosciuto, le cose che ha visto, tra Forlì, Ravenna, Cervia e Bellaria; o lì presso. Non è il caso di arrabbiarsi o di ridere. In fondo non c’è niente di male. Si potrà dire, al più, che egli ha messo, per bizzarria, nomi romagnoli a certi sfoghi tra lirici e romantici e fantastici del suo animo riscaldato dalla lettura. E forse avrebbe potuto con effetto più verisimile collocare le sue finzioni nelle praterie, dove vivevano un tempo gli eroi di Fenimore Cooper o di Gustavo Aimard; c’è tanta somiglianza fra quei poetici Pelli-rosse e le tribù beltramelliane!
Viso, nomi, costumi, mitologia, linguaggio, pose e fioriture fantastiche; senza i moccassini e il ciuffo delle penne in capo, ci sarebbe da scambiarli.
Se non che il poeta nelle sue creazioni è libero. Ha voluto servirsi del nome di Romagna? E Romagna sia.
⁂
A patto, s’intende, che non s’abbia a prender sul serio, come una testimonianza della nostra terra bellissima e cara. Chè testimonianza non v’ha in ciò d’altro che della infelicità dello scrittore, della sua insufficienza a osservare e rappresentare nettamente.
La realtà gli sfugge. Delle cose resta nella sua mente solo un’ombra informe, una impressione vaga e astratta. Egli s’affatica a realizzarla; se così posso dire, vorrebbe esprimerla in tutta la pienezza; e non riesce ad esprimere se non lo sforzo suo vano e la pretesa e l’impotenza.
Egli è sempre e sopra tutto un poeta tradotto in prosa, come dicevamo, inadeguatamente.
Il lirismo oscuro della sua anima, i suoi ardori di passione di eroismo e di magnificenza riescon sulla carta figure d’uomini e di paesi; e gli uomini son fantocci e i paesi son scenari di cartone. Egli è l’uomo di tutte le contraddizioni e di tutte le stonature. Scrive delle novelle, ma non sa novellare. I suoi racconti non hanno nè ordine nè economia nè svolgimento; le sue favole non hanno nè consistenza logica nè interesse drammatico. Sono descrizioni, o meglio pretesti a descrizioni. Quando la descrizione dei personaggi e dei luoghi è finita, anche la novella è finita. O se qualche cosa segue, è un altro quadro, un’altra descrizione; una successione di visioni staccate, come lampi che squarcino la notte e rivelino col breve splendore gli oggetti fissati in una immobile posa.
Inoltre la descrizione è poetica, cioè intesa a soddisfare i bisogni e i desideri del poeta. E come questi bisogni sono oscuri, ma generali, e in quel che rendono le qualità o i caratteri del suo lirismo, immutabili, la loro impronta sulle cose e sugli uomini è inevitabile e monotona.
Non cambia nel poeta il sentimento; non cambiano nelle sue pagine i tipi, i motivi, le formule, le parole.
Tutto esce dalla sua mente trasfigurato, ridotto a luogo comune, a commento enfatico e appassionato.
Infine, è un romantico; non meno violento che ingenuo. Dovrò io dimostrare anche una volta tutto quel che c’è nella sua arte di coreografia e di dismisura? Gli eroi, tipi convenzionali ed eterni, della bruttezza, della bellezza, della forza o della miseria; il tragico destino che li avvolge:
la qualità portentosa dei loro dolori, dei delitti, delle passioni; l’eccesso dei chiaroscuri e delle antitesi; l’enfasi delle descrizioni e delle tirate; e quell’accento ispirato e quella posa di vate e di filosofo; quella tumultuosa signoria infine del temperamento lirico su tutte le cose, non son questi i segni, o se volete, gli scenari e i ferri vecchi del romanticismo?
Romantico è il suo paganesimo: nella mistura bizzarra degli antichissimi miti della terra latina (non certo della Romagna) con reminiscenze letterarie modernissime; nel contrasto fra un sentimento della natura squisito nativo con la goffaggine preziosa e spettacolosa dei riti e delle orgie, che dovrebbero simboleggiarlo.
Romantico anche quel che meno sembra; per esempio lo sfarzo della lingua e l’artificio accademico dell’elocuzione, in cui si sfoga l’odio del volgo, la posa aristocratica e fastosa, il bisogno di singolarità che sono in fondo di ogni natura romantica. I vocaboli rari e i periodi numerosi sono qui un poco come il gilet rosso e la berretta di velluto dei primi cavalieri del romanticismo francese.
Ma romantica sopra tutto in lui è la tensione e l’accensione poetica, nella quale, così come nel cieco abbandono alla foga della torbida ispirazione, è da vedere la ragione ultima della sua maniera.
E la maniera è unica per tutto. Regna ugualmente nelle novelle, e nei libretti descrittivi, dove l’immagine della città o del paese traluce come incerto miraggio in mezzo agli inni e alle parabole: e nei romanzi.
Non parliamo del Cantico, dove i soliti procedimenti fanno dei pescatori di Comacchio una schiera di comparse da operetta, tragiche, selvagge e ridicole: di Roma una specie di Babilonia, delle maledizioni dei profeti biblici. Se non die qui la maledizione lisi avuto il suo effetto, e travaglia libro e lettori col flagello delle descrizioni implacabilmente estetiche; innanzi al (piale ogni interesse, della parte autobiografica e di confessione, vieti meno.
Ma Gli uomini rossi sono una rappresentazione, che vorrebbe riuscir nuovamente satirica, dei repubblicani di Romagna. E come satira valgon poco; poiché l’autore ha troppo voglia di descrivere e troppo si lascia andare a spiegare le ragioni e magari a far la teoria scientifica del carattere romagnolo. La sua fantasia è troppo accesa od enfatica per esser gaia. La fata ironia consola più volentieri la povera gente, che della sua condizione mortale accetta tranquillamente ogni disgrazia, che 11011 i vati e gli eroi, stirpe divina: e Beltramelli era forse, o voleva essere, troppo in alto per riceverne i doni. Così egli è condannato a prender tutte le cose sul serio; a far del bello stile, delle antitesi, delle tragedie, ma non a ridere mai, con la fantasia o con la parola.
Ma nei limiti d’una rappresentazione un poco caricata ed esagerata dal vero, Gli uomini rossi hanno qualche grazia non volgare. Cercando lo spirito e l’arguzia, l’autore ha trovato almeno la semplicità: si è contentato di accennare, di abbozzare. Certe figure come il cavalier Moscardo, Bortolo Sangiovese, il gruppo degli anarchici; certe scene come il banchetto e l’inaugurazione del monumento al naturalista; pur non superando di molto il pupazzetto convenzionale o la cronaca, acquistano, dallo stile, accademicamente ma sobriamente fiorito, un sapore non comune e non ingrato. La materia non è trasfigurata tanto da perdere ogni segno proprio e ogni interesse: ma abbastanza per riuscirci, in quel tramutamento tenue e bizzarro di cose tutte famigliari, piacevole. V’ha poi una scena al castello degli Elei, su nell’Alto Appennino («in quelle solitudini dove non si udiva se non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti passando nel loro viaggio vertiginoso»), degna di speciale ricordo. È la prima notte di due timidi adolescenti, sii cui la paura, alitando notturna nelle vecchie sale del castello, operai quel che solitudine e amore insieme non aveano saputo. Alle linee e alle ligure leggiere manca solo un tocco, un alito, un nulla per uscir libere e vive dagli ultimi ritegni della maniera.
Nè questa scena è sola. Ma dovunque la mano dell’artista ha avuto ventura di calcar meno insistente, dovunque un’esile trama o reale o fantastica può rivelarsi, pare che una grazia particolare l’accompagni. Ricorderò la novella di Pirigiuli, il campanaro che rinnova, non senza efficacia propria e forse con più gentilezza psicologica, la difformità e l’amore di Quasimodo. E se lo spazio mi consentisse vorrei mostrare la bellezza, non importa «e disuguale o imperfetta, del Gioco, dove indimenticabile è la visione delle belle pescatrici danzanti in una limpida mattina torno torno al povero gnomo attonito, nella gaiezza serena e crudele della loro gioventù trionfante.
Vorrei ricordare la figura del vecchio novellatore che incanta i bimbi con le vecchie fole. Ma la più bella forse è quella, delle Figlie di Iudèc.
Sono tre belle giglie della montagna, votate dal padre a perpetua verginità che le consuma; e scendendo per guarire alla marina di Cervia il dì di San Lorenzo, il mare è galeotto alla lor voglia d’amore. La rustica avventura non perde il suo sapore romagnolo, di visi e costumi e paesi colti dal vero clic ci è più famigliare; ma pur dalla sostenuta e talora squisita eleganza del narratore, acquista gentilezza; e l’idillio, nella grande spiaggia piena di sole e di risa e di gioia, ha una felicità, che oserei dire poetica. Le stonature, e sieno pure stridenti, non bastano a spegnerla.
Infine, meno felice forse, ma più significativa di tutte, ricordo la novella Alle porte del cielo. Il tono del racconto per la prima volta si trova che conviene al l’argomento. È una scappatella di ragazzi, i quali han creduto a quelle porte del cielo, di cui contavan loro le fole, e giù dai loro monti, come in fantastica avventura, sono discesi mi bel giorno lino ai limiti della pianura, fino alla pineta, dove le porte del cielo si aprono veramente per le loro piccole anime curiose: e mostrano il mare. In questa pagina di ricordi infantili è naturale che ogni cosa, anche piccola e comune, risorga come nuova, grande e strana in vista; con quello splendore che dopo la prima volta nessuno ili noi ha saputo più ritrovare, trasfigurata quasi, in una luce di sogno e di nostalgia.
Ma tutta l’opera di Beltramelli io vorrei dire che è nata così; da una nostalgia di sogno infantile!
Lo montagne e le lande e il grande bosco misterioso di cui egli ci narra, dovettero alcuna volta apparire all’occhio meravigliato di un fanciullo. In quell’età in cui tutto è nuovo e miracoloso, in cui basta un campo di terra nuda, e un rio, e un ciuffo di salici o di robinie a render nella piccola anima l’impressione di ogni infinito di lande e di acque e di selve, egli visse certo, fanciullo muto e assorto, in qualche parte più sei-’ vatiea della nostra terra, dovei! monte è più aspro, dove la pineta è più folto. Ili quei luoghi, fra gli uomini d’aspetto e di parola rude, che sorgevano intorno a lui come ombre gigantesche, egli vide ciò che dal cuore non gli doveva cadere mai più. Fuggiva quel mondo agli occhi del giovane, dell’uomo usato oramai nelle città alla vita comune, ma dentro glie ne restava l’oscura visione, glie ne cresceva il desiderio.
Gli toccò forse — e qualche traccia ne traluce dalle sue pagine — una giovinezza solitaria e chiusa? In cui gli ardori dell’animo o dei sensi 10 consumarono silenziosi e segreti, in cui l’uso e l’esperienza delle cose reali gli mancò, e realtà per lui fu quella che il violento desiderio gli tingeva?
E forse il mondo interiore gli scemava voglia e potere di mescolarsi al commercio comune; e forse il senso della sua solitudine in mezzo al mondo reale lo spingeva a esaltarsi più fortemente nella visione interiore; e tutti gli impeti e. le forze del suo sangue e della sua giovinezza erano dentro lui come mi fuoco, che in quelle fantasie consumava oscuramente il suo caldo e i suoi bagliori.
Tutto questo gli cresceva dentro una piena di lirismo tanto più torbida e bollente quanto più 11 silenzio e la solitudine valevano a far fioca la voce, che avrebbe dovuto sfogarlo.
Alle quali disposizioni e qualità dell’artista se s’aggiunga che molto probabilmente egli non ritrovò se stesso, con lenta e tranquilla ricerca, nella consuetudine (li una cultura vera; ma forse si riconobbe, con improvviso stupore, nello specchio delle più vili scritture moderne, nelle prose decadenti, preziose, simboliche, estetiche e peggio s’è possibile, sì che in quei modi e in quello stampo gli proruppe il torrente della poesia che nel suo animo non aveva, nè forma nè nome, alla fine io credo che l’arte di Antonio Beltramelli ci sarà rappresentata in un modo molto simile al vero. E ne sorgerà, anche nella nostra mente, un’immagine un po’ oscura, un abbozzo confuso, il cui profilo non è netto, in cui l’impronta del viso non si riesce a distinguer chiaramente.
Ma tale è lo scrittore; a cui le qualità e le viltà abbondano per riuscir grande, ma l’eccesso quasi di esse e il confuso tumulto lo fermano a mezza, via. Nulla dalla natura par che gli manchi; se non la felicità. La bellezza gli resta ribelle; non cede al suo desiderio se non rara e fuggitiva; più spesso par che irrida i suoi sforzi vani, o lo inganni grossamente, con immagini false.
Ma non importa. Noi vediamo — ed io ho posto ogni cura in rilevarli senza riguardo — i difetti, le disuguaglianze, le goffaggini; e sentiamo insieme che tutto questo procede da un’origine 11011 volgare, da- un’ispirazione pura, anche quando i pià vili mezzi la aiutino a manifestarsi. Sien pure vecchi e falsi e frusti gli artifici; a lui sono nuovi, e nel suo ardore è come se li ricreasse per sè. La sua retorica è violenta, dicemmo, ma ingenua; e questo lo salva. La poesia si sente nelle sue pagine come un dio che è fuggito; ma l’aura del suo passaggio ancora non è venuta meno. Si fermerà alcuna volta?