< Antonio Rosmini
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Capitolo XXII
XXI XXIII


Giudicava se stesso più rettamente che molti tra i privilegiati di autorità e d’ingegno non sogliono. Non si avvedere del proprio ingegno e del sapere acquistato e del bene ch’egli amava e operava non gli era certamente possibile: giacchè la coscienza di quel che uno è e fa, è condizione di virtù e di scienza e di non irragionevole vita: ma sentiva insieme, tanto più vivamente quant’era più buono e più grande, quello dove il suo ingegno era minore di tale o tal altro, dove la sua virtù era minore dell’alta idea che ne aveva egli stesso. Onde la sua stessa altezza lo difendeva dall’alterigia vana; ed e’ soleva dire parergli impossibile la vanità. E veramente chi mediti quel ch’è Dio e quel ch’è l’uomo, quel poco che l’uomo sa e può e quel moltissimo ch’egli desidera e deve, non può insuperbire se non in momento di distrazione o di letargo o di spirituale malattia che gli tolga il vero sentimento di sè. Non intendeva il Rosmini che uomo non potesse appisolarsi o ammalare; intendeva ch’e’ non potesse patire di superbia, desto e sano. Ond’egli, avvertito, confessava l’innavvertenza commessa. E nel correggere, parlando, l’altrui sbaglio, usava assai volte delicatezza rara, mostrando di voler meglio dichiarare l’altrui pensiero non bene significato, e dandone il merito a quello con tutta sincerità: perchè spesso le cose che paiono spropositate non sono che trascorsi di lingua o di penna. Esso però ritrattava francamente le proprie opinioni, vista meglio la verità: e così circa gli studi del magnetismo, pendeva da ultimo a stimarli più fruttuosi, ancorchè non debitamente avviati. La modestia de’ suoi portamenti e delle parole vinceva quella che appare dagli scritti di lui, dove il senso profondo del vero lo zelo del persuaderlo, e l’essere lui persuaso che l’asseveranza del dire aggiunga autorità in quanto attesta la fede e l’affetto intimo di chi scrive. lo trassero a maniere talvolta un po’ risolute. Ma quella ch’io dicevo abituale modestia della sua vita, dove l’affettazione e la finzione son meno possibili che negli scritti, dimostra che quel sentimento era indole in esso, e mi conferma nel credere che negl’Italiani, al contrario d’altre nazioni, l’uomo è sovente miglior dell’autore, l’animo più ben fatto del libro. Era l’umiltà all’edifizio del viver suo base e cima, sostegno e ornamento; e però congiunta a decoro. Nè egli avrebbe imitate certe ingegnose stranezze di quel Santo civilissimo e veramente fiorentino, ch’era Filippo Neri; col quale del resto il Rosmini si conviene nell’amore degli studi eleganti e nell’ardente e quasi tenero amore di Dio, e nella piacevolezza de’ modi e nella cura del formare gli animi giovanili a virtù ilare e disinvolta, e nell’intento d’accomodare le istituzioni religiose e l’educazione alla natura de’ tempi.

Egli sentiva sì naturale il bisogno di quel che scrivendo disse equilibrio della scienza con la virtù, che, avendogli ne’ prim’anni un maestro date gran lodi e promessagli fama, il giovanetto fu scontento che non gli si promettesse piuttosto facoltà di giovare. Or veggasi se tale uomo potesse mai mendicare le lodi degli uomini. Vero è che anco i grandi, anco i buoni, in momenti di dubbio o di afflizione ricevono di buon grado una parola di lode, come consiglio e conforto, come indizio del buono effetto che produce in altrui la lor opera e la parola, come stimolo a fare più e indirizzo a fare meglio, come testimonianza resa non a loro ma a quel Bene e a quel Vero ch’eglin veggono splendere sopra se anzi che in sè, come significazione d’affetto: e però ne sentono gratitudine e verso Dio autore del merito, e verso l’uomo che li ha giovati togliendoli da un’incertezza la qual risicava di diventare orgogliosa più dell’orgoglio stesso, e ritardarli o sviarli. Or la gratitudine è di per sè cosa modesta; nè il superbo o il vano la provano, che tengon debito a sè ogni onore e vantaggio, e non riscuotono mai tanto da altrui, che non si figurino tuttavia creditori. In questo rispetto il compiacersi della lode è lecito e debito: ma gli spiriti alti e gentili s’avveggono alla prima dove la lode pecchi d’eccesso, e se n’adontano più che altri della lode manca; e quella accolgono come offesa fatta alla verità, offesa fatta alla coscienza loro propria e alla coscienza del lodatore mal capitato, il quale si mostra o credulo giudice egli medesimo, o, ch’è peggio, perfidamente credulo alla credulità del lodato, e par voglia tendergli insidie puerili. Anco nella lode meritata, anco nella minore del merito, può essere eccesso quando il lodatore non n’abbia coscienza, quando non sappia trovare le parole appropriate, o le smentisca con quegli atti della persona che la simulazione o la dissimulazione non può nè comporre nè ascondere, e che agl’intelligenti parlano assai più della stessa parola. Non dico delle lodi triviali, delle goffe, delle sbadate, delle superbamente dispensate come largizione o come elemosina, delle fredde, delle affettate; di quelle che intendono esaltare l’uomo per il difetto ch’egli ha appunto voluto evitare, e queste ultime sono di quelle che mortificano più, perchè o turbano il giudizio, o dimostrano che il giudizio altrui è miseramente falsato, e imperfetta del bene, non che l’operazione, l’idea. Lodi tali, se l’uomo buono le conosce insidiose, le accoglie come lo spassionato e l’esperto osserva i vezzi di donna galante che tenda a incalappiarlo, e si creda averlo inebbriato delle sue moine, e non vede chi è il gabbato de’ due: se poi in lodi tali il buono non ci conosce altro che inscienza del conveniente e che grossa semplicità, le patisce con rassegnazione tra cortese e distratta, e s’ingegna di pensare ad altro, e non le interrompe per non le prolungare, aspettandone finalmente la fine. Questo anche al Rosmini accadeva talvolta; ed era sofferenza quello che a’ vani poteva parere vanità. Egli soffriva anco i men sinceri, sebbene leggesse loro nel cuore; e indovinava i non buoni, uso a studiare così l’animo come l’ingegno ne’ lineamenti e nelle attitudini, pronto ad accogliere il bene d’onde che gli venisse, e a discernerlo, fatto accorto dalla propria esperienza; ma pronto altresì a ripararsi dal male ch’egli conosceva e per l’istinto provvido che i buoni n’hanno, e per lo studio fatto su i movimenti delle azioni umane e sulle coscienze, e per l’esame de’ suoi stessi difetti, de’ quali nessun uomo va senza, e che sono i germi del vizio e del misfatto, siccome Socrate confessava e il Cristianesimo divinamente chiarì.

I motti frizzanti di ch’altri si sarebbe adontato, non l’arricciavano punto. Quando in Rovereto il cugino suo Carlo, lo storico, fu colto da un tocco che gli prenunziò la sua fine di men che due anni dopo (giacchè le morti subite non sono improvvise se non a chi tali le voglia), riavutosi lui un po’, ma tuttavia con viso di morto, un tale o per pietà o per cortesia o per adulazione o per sbadataggine o per tutte insieme queste cose, si rallegrava della sua buona cera; ma lo Zamboni, temendo che quel complimento mettesse il letterato in più apprensione e non amando canzonature in momento così serio, soggiunse di botto: chi dice il contrario? Del qual modo d’accordare insieme la verità e la pietà si compiacque il Rosmini, che pur poteva prenderlo come un atto d’irriverenza contro i cugini nobili in genere, schizzinosi non meno de’ nobili Zii.

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