< Antonio Rosmini
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Capitolo XXIII
XXII XXIV


E acciocchè questo non paia un panegirico d’imperatore o un’orazione funebre di duchessa o di letterato, confesserò ma non senza esitazione e pur per iscrupolo di sincerità che faccia essere la lode più pura e più piena, confesserò che difetto pareva a me nel Rosmini giovane il sospettare d’altrui qualche rara volta, come sogliono i fortunati del mondo: del qual moto primo che non era giudizio ma imitazione forse d’esempi autorevoli, nè mai nuoceva all’esercizio del bene, egli poi con potenza represse i minimi impulsi; tanto che pochi felici e infelici, e virtuosi per abito, e per natura indulgenti, credo offrissero prova di fiducia più veggente insieme e più affettuosa. E confesserò che una volta nella prima gioventù vedendo un suo concittadino di belle speranze non corrispondere alle sue cure, preso da zelo inesperto, gli rammentò con modestia qualcosa di quanto egli aveva fatto per esso, non per umiliarlo ma per riscuoterlo, sentendo forse con chi avesse che fare, e accomodando al temperamento il rimedio. E questo trascorso di zelo perdonabile ad uomo sì severo in sè stesso, io non ne so in tutta la vita sua che quest’unico esempio, il quale fa tanto più notabile la sua temperanza di poi, quando la cresciuta autorità poteva dargliene pretesto, e la virtù farsi quasi tentatrice a sè stessa.

Ch’egli dovesse in ciò temperare l’indole propria e la brama del meglio, e l’amore del Vero chiaramente veduto, ce l’indica una sua disputa giovanile, alquanto acre intorno alle opinioni di Gian Domenico Romagnosi, le quali egli del resto non giudicava dietro a induzioni lontane e a forzate interpretazioni, ma sì mettendo accanto l’uno all’altro i luoghi che meno ambiguamente contengono quelle idee, dall’affettata improprietà e dalla inutile novità del linguaggio fatte a chi più profonde e a chi più leggiere, a chi più rette e a chi più torte che forse non fossero nella sua mente. Il Rosmini, che amava le cose chiare, riducendo le idee altrui a quella chiarezza che non avevano, pare talvolta a’ passionati o a’ pregiudicanti che voglia a bello studio svisarle facendole spropositate. Ma egli che da un principio deduceva le conseguenze con severità inesorabile a sè non meno che ad altri, e così metteva alla prova le proprie dottrine e le altrui, vedendo in certe proposizioni il germe d’errori funesti alla vita, dal germe svolgeva la pianta, e pareva che alle intenzioni dell’autore imputasse tutte le deduzioni possibili, alle quali se il povero uomo poneva mente, ne avrebbe inorridito o riso egli stesso. Così per istinto di rettitudine rigida e della mente e dell’animo, egli applicava alle dispute filosofiche il principio del possibile, l’applicava in maniera tremenda. E in gioventù gli piacevano le esagerazioni, tra di predicatore e di retore, di quel Rousseau in vesta talare che fu il Lamennais, ancorchè non ne seguisse l’esempio, egli intelletto e cuore più forte; e un giorno, dolendomi io di cotesta logica troppo fedele che accagionava un errore di tutte le conseguenze deducibili da esso come se fossero dall’autore premeditate, e che con infausto vaticinio convertiva l’avvenire in presente e in passato, il Rosmini levando gli occhi e la mano in atto d’additare un’altura, rispose e’ si colloca lì...; come dire: di lì vede tutta nella valle la via dell’errore, e ne mostra i vicini e lontani pericoli. Ma altr’è mostrare, come l’Italiano voleva, i pericoli d’una opinione o d’un atto; altr’è accagionarne un sol uomo come di bestemmie o misfatti consumati, a modo che il Bretone faceva; punito memorabilmente del suo esagerare in un verso dalle esagerazioni alle quali nel verso contrario fu poi strascinato, più debole che pertinace, e nelle stesse mutazioni costante al vezzo e all’indole propria. Lo conobbe il Rosmini in Italia, e al primo colloquio presentì i divagamenti di quel prete infelice, e dalle arti mondane di certuni assai più che dallo zelo austero di certi altri irritato. Scrisse a lui privatamente, e poi per le stampe, parole d’ammonizione che, conoscendo meglio e lui e le cose, avrebbe o taciute o espresse altrimenti.

E qui sia concessa al mio cuore una memoria di gratitudine e di pietà riverente. Io conobbi in Firenze il Lamennais l’anno 1832, quand’egli da’ principi schiettamente cattolici deducendo le norme del vivere libero, e, contraddetto dai Gallicani, aizzati per vero da lui con parole più incaute che maligne, per disfarsi di loro si pensò di prendere il bordone di Pellegrino e ire a Roma a provocare l’oracolo della S. Sede sopra questioni che non eran di domma: e, interrogato da me che sperasse, rispose: nulla; la qual parola mi fu augurio sinistro. Egli sperava però per lo scrittore dell’Avenir parte almeno della festosa accoglienza già fatta all’autore dell’Essai sur l’indifférence: tant’era nuovo degli uomini e di sè il prete letterato che aveva già cinquant’anni. Andò, e non ebbe udienza dal Papa che a patto non s’entrasse punto di quello perchè egli veniva. Gregorio gli diede non so che cose sante, e lo rimandò pe’ fatti suoi, cioè a scrivere Les Affaires de Rome, e quel di più che sapete. Quand’io giunsi in Parigi, il Lamennais si profferse a procacciarmi utili conoscenze e a fornirmi della sua poca mobilia, egli povero e devoto a sempre più rigida povertà, una stanza da spendere meno. Non profittai nè delle conoscenze nè de’ mobili; ma la profferta di quell’illustre infelice, di quel valido traduttore di Dante, mi starà nel cuore fin ch’io abbia memoria di me stesso. E diviso poi d’opinioni, sempre l’amai; e, rivistolo nel quarantotto, non gli nascosi (nè egli se ne adontò) il desiderio di vederlo ricomposto nel seno di quella grande società che gli aveva data già fama e pace.

Ma il Rosmini era giovane ancora; e la sua virtù non ascesa a quel punto di dove, nulla concedendo al falso e al male, imparasi non pertanto a discernerne le occasioni che non lo giustificano ma l’attenuano, e quindi a compatire senza condiscendenza vile nè rea connivenza, a curare con mano meno grave le piaghe rinciprignite già da medici ignoranti e caparbi e spietati. Così quando egli in quel Frammento d’una storia dell’empietà, ch’è tra’ suoi primi lavori, numerava tra gli empî il Constant, pareva che non sapesse assai grado alla Provvidenza del passo ch’aveva fatto dal Voltaire al Constant la povera scienza umana, pareva non discernere nell’errore gradi; egli che poi tanto sapientemente insegnò come gli errori stessi diventino via a verità.

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