< Antonio Rosmini
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Capitolo XXVII
XXVI XXVIII


Riprese sul serio Ugo Foscolo di quel suo declamare intorno alla speranza che pasce d’illusioni l’uomo dannato a illudersi sempre: che se sistema fosse, l’avrebbe creato per celia e a fine di moralità il buon Gaspare Gozzi, attribuendolo in due versi a Circe, la trasformatrice nota degli animali noti. Il Foscolo allora era vivo, e nel vigore tuttavia dell’ingegno, e nel pieno della fama, fatta più cospicua dalla lontananza e da un quasi esilio. Poi riprese il Rosmini Melchiorre Gioia del suo raccomandare il lusso e la moda, il Gioia, stato collega del Foscolo ne’ giornali di libertà sulla fine del secolo, ma più animoso di lui: e mi raccontava egli stesso come, ricusando Ugo di sottoscrivere il proprio nome a parole che potevano portare pericolo, esso, chiamandolo a viso anima di coniglio, ci appose il suo nome. Io non posso senza un sentimento di gratitudine rammentare Melchiorre Gioia tuttochè nè adesso nè allora le mie concordassero con le opinioni di lui; ma debbo pur raccontare come pregandolo io di raccomandarmi a un qualche giornale, io non noto a lui se non per un compendio fatto del suo Galateo (lavoro meschino più d’una volta), egli sì brusco ne’ modi e sì diligente spenditore del tempo, non si contentò di promettere, non di darmi una delle lettere solite, ma appena sentito il mio desiderio, si vestì, prese il cappello, e mi condusse dal direttore d’un giornale, dicendomi schietto i patti a’ quali scriveva egli stesso; e perchè il Direttore, al vedere la mia giovanezza e timidità tra altera e impacciata, parendogli impossibile ch’io fossi degno di scrivere nel suo giornale, guardava quasi stupito, il raccomandatore; egli il Gioia lo veniva rassicurando con quell’accento d’asseveranza che viene da cuore buono. Questo io non l’ho dimenticato mai, e mi gode l’animo che, lodando l’avversario del Gioia, mi sia caduto di dirlo, per raccomandare a quelli tra’ giovani a’ quali è promessa l’autorità della fama, che vogliano spenderla piamente in pro degl’ingegni crescenti; e nella fiducia abbondino anzichè nella diffidenza, e non temano i disinganni e le ingratitudini; che ne avranno nel proprio cuore e nell’onore stesso del nome compenso più desiderabile d’ogni gloria.

Il Rosmini a combattere il Gioia prese le armi sue stesse, il fare reciso e arguto, le citazioni frizzanti, facendo prova di rara pieghevolezza d’ingegno, ma con quelle leggere forme velando concetti gravi e sensi severi. Se ne adontò il vecchio non uso a tali obbiezioni, e rispose non assai civilmente per vero, dandogli dell’ostrogoto, perchè nemico alla moda; e il Rosmini rispose acremente, e prese a notare altri principî del Gioia ch’egli vedeva tanto più pericolosi quanto più que’ libri avevano facile spaccio. Ma sebbene, approvati com’erano dalla censura la quale non li poteva punire senza riprovare se stessa, e’ non dovessero portare all’autore pericolo, combattuti a quel modo; pur nondimeno era da desiderare che il giovane prete non gl’imputasse addirittura tutte le conseguenze erronee che ne potevano derivare, ma si contentasse di far manifesta la falsità della massima risparmiando le intenzioni segrete dell’autore, che non sempre son ree quanto pare nè anco negli uomini più sviati.

Poi si volse, ripeto, il Rosmini contro le dottrine di Gian Domenico Romagnosi, uomo di povertà dignitosa, di mente acuta e in certe deduzioni ordinata; ma come possa parere profonda, questa m’è parsa sempre la maggior profondità delle opere sue; nelle quali il linguaggio è ricercatamente barbaro; e lo fanno oscuro le circonlocuzioni che involgono cose chiarissime e note. E così ne’ colloqui la bontà si vedeva, ma con qualche affettazione di cattedratica gravità, che nel Gioia non era punto. Mi rammento che nella prima mia visita), avend’egli seco un bambino del suo servitore (il qual era consigliere al buon vecchio e gli faceva l’uomo addosso quand’e’ si perdesse in lavori che non fruttavano) e’ c’insegnò come qualmente nell’infanzia dell’uomo studiava l’infanzia de’ popoli; e nella seconda visita, dopo additataci l’Atlantide nelle isole voluttuose del mare Pacifico, accennate da Isaia profeta dicente: Ite Angeli alla gente lacerata e divulsa, mi fece recitare un suo articolo di giornale semplicemente per la contentezza del sentirsi leggere, stando con faccia serena ad ascoltare se stesso. Egli era morto di poco; non però richiedevasi meno coraggio a raffrontare le ire di certi suoi seguaci co’ quali il Rosmini discese a pugna non degna di lui. Quegli stessi che l’amano e ammirano, appunto perciò confessano ch’egli non sempre in tali prove serbò carità nè pacatezza di mente; e lo diceva egli stesso. Io non ho diritto di farmene giudice. Quando agitavansi le miserabili zuffe per i quindici canti del Grossi io stavo per uscire con una risposta che m’avrebbe procacciati disgusti assai; ma il Rosmini me ne rattenne quasi supplichevole, affermando per tutta ragione che ne l’avrei poi ringraziato: e obbedii, e stracciai le bozze di stampa. Poi quando seppi ch’egli si preparava a rispondere al Sr Mamiani, esule allora e malato degli occhi gravemente e che trattò lui con rispetto, io che dall’esilio avevo smesso di scrivergli, scrissi pregando che si temperasse. Non so se la mia lettera tra le difficoltà di quel tempo gli sia capitata; e credo che no: ma egli fu soverchiamente severo al cortese riprenditore; e questo non per odio o disprezzo della persona, non per cocciutaggine o boria, nè per l’ebrietà della fama acquistata; ma per un troppo zelante amore del vero, per una persuasione fermissima della importanza delle verità da lui propugnate, forse per la non ancor matura esperienza de’ mali effetti che può portare una parola anco detta a buon fine, per non conoscere di persona l’avversario (e il conoscerlo se talvolta aizza, più sovente mansuefà), e per il peso stesso ch’e’ dava al detto di lui, ch’era una indiretta, tuttochè non desiderabile, significazione di stima. Giacchè le cose del mondo sono congegnate così che dal biasimo esca lode, dalla lode biasimo; e la nostra parola e l’opera sortisca talvolta effetto contrario all’intendimento. Inoltre il Rosmini scrivendo s’infervorava nel dire (nel che l’uso del dettare accresce il pericolo), e per fare l’argomentazione più viva e la lettura men grave, scappava in celie da non ferire mai la persona, ma che, cogliendo le cose, ferivano forse più intimamente. E qui è da riconoscere quanto possano in bene o no gli abiti dell’età giovanile; perchè quell’anima rara che si compiaceva del vedere i condiscepoli suoi in vena di celia e s’armava anch’egli d’arguzie innocenti e d’acumi; nel più serio della vita e delle questioni ritornava talvolta a quell’arte difficilissima a esercitare con garbo e con pietà. E alla smania di trattare con vivacità soverchia può forse essere stimolo anco quel figurarsi, come molti uomini pii e savi fanno, la difesa del vero come una guerra, e quelle imagini di vittoria e di vessillo e altre tali, che ne’ libri della legge cristiana sono simboli e non precetti. La vittoria del credente è come quella di Dio, cantata dal Manzoni e da Dante E sia divina ai vinti - Il vincitor mercè - E non già come l’uomo all’uom sobranza, - Ma vince lui perchè vuole esser vinta, - E vinta, vince con sua beninanza. Nè nel Vangelo io rammento altra imagine di battaglia se non là dove il re mansueto, l’Agnello di Dio, dice d’esser venuto a portare non la pace quaggiù ma la spada, e intende chiaramente la guerra co’ propri affetti tiranni, quella guerra che sola può preparare l’armonia dell’uomo seco stesso e con tutti gli uomini quanti sono.

Ma l’uomo, ripeto, era migliore de’ suoi libri: sì poco e’ curava d’imbellettarsi o di mascherarsi. Conversando soffriva obbiezioni e contraddizioni, non tanto per ismania d’insegnare quanto per amore d’apprendere; rispondeva in voce e per lettera dichiarando; e gli era scuola anche questa, a studiare le indoli e i bisogni delle menti altrui, e meglio riflettersi nella propria. Accettava e seguiva i consigli, confessava gli sbagli; riconosceva pregi ne’ suoi avversari più acri. E quella sua stessa acrimonia, ancorchè paia troppa talvolta, egli la temperava scrivendo; chè i frizzi, a lasciarli andare, gli sarebbero scoccati assai più pungenti. E dalla risposta al Sr Mamiani, per ristamparla, s’era messo a torre via ogni acerbità, riconciliatosi con sincero animo già da anni parecchi; e il Sr Mamiani, da Italiano vero e da degno amico del Bello, usava ragionando di lui parole di nobile riverenza. A lui toccarono poi guerre ben più dolorose; e fu chi gli negò fede e probità, scienza e mente. Ma destino de’ più perfetti è sovente l’esser più odiati; e i pregi sommi, in chi li sconosca per debolezza o per passione, irritano più incredibili spregi. Io sentii un medico scemo stupire della fama acquistatasi dal Rosmini, e dire: io gli fui condiscepolo; e posso attestarvi che non c’era niente di raro. Più gli uomini benemeriti fanno, e più certuni richieggono arrogantemente da loro, come se il dato già nulla fosse. Mi si racconta che, passeggiando un giorno il Rosmini, cert’uomo gli si accostò domandando danaro; e avutone quattro lire, e volendone cinquanta, si mise a gridargli villania; ma egli seguitò riprendendo il colloquio interrotto. E così molti fanno, che non sapendo bene usare del già ricevuto, e pretendendo di più, si rendono a sè più che al donatore spietati.


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