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Numerare le, non so quante ma di molte, accademie che lo ascrissero a sè, anche parlando d’uomo da meno, sarebbe ozioso. Dopo aver detto in servizio di chi amasse saperlo, che il Rosmini era dell’Istituto di Francia e dell’Accademia della Crusca e di quella di Torino, dirò ch’egli fu anco di quella di Lucca, per soggiungere che la novella gliene venne data da quel Fornaciari, degno concittadino e successore del Lucchesini e del Papi, magistrato onorando, maestro affettuoso, scrittore elegante, credente schietto, magnanimo cittadino. Di tali segni della stima altrui nè invaniva il Rosmini, nè li rigettava; accogliendo con riconoscenza e la visita del re di Sassonia e la congratulazione di giovane oscuro e il ringraziamento del rustico poveretto. Ma quando il duca di Montmorency, passando dal lago, volle vederlo come una singolarità naturale, egli però non iscese dal suo monte, non vedendo utilità morale dell’essere così veduto. In Francia ebbe estimatori e traduttori, e chi forse delle sue dottrine approfittò senza dirlo, ma leggermente ne approfittò, giacchè quell’Italiano, appunto perchè chiaro, pare non richiegga studio da’ vicini nostri d’oltremonte, i quali e per l’agilità della mente e per la conformità delle due lingue, si credono d’intendere e quando ci azzeccano e quando raccapezzano a un bel circa, e anco quando sbagliano, mettendo in vece dell’idea nuova altrui la vecchia che avevano in capo. Se d’altri uomini illustri che del Manzoni egli cercasse la conoscenza, non so: ma parecchi ne conobbe, tra quali Ippolito Pindemonte, di cui gli fu cara la malinconia affettuosa, la pietà gentile, la dignitosa modestia. E a prova della modestia d’esso Rosmini, rammenterò come un giorno passeggiando il Pindemonte le allegre strade dell’allegra Verona tra Antonio nostro e Carlo suo zio (letterato alla vecchia ne’ difetti forse più che ne’ pregi), e io col Moschini dietrogli; il Marchese interrompeva il colloquio con loro due per rivolgersi non senza compiacenza del prete gentiluomo, a me giovane ignoto e attaccare cortese disputa in favore degli dei dell’Olimpo, e recitarmi i versi del Parini Già l’are a Vener sacre, domandando come mai poter dire poeticamente senza il soccorso della mitologia una cosa così? Nè il vecchio poeta a’ cui giovanili consigli aveva con docilità coraggiosa obbedito l’Alfieri, voleva accorgersi che anima di poeta trova modi, di dire ogni cosa, quanto più semplici più potenti; e che in quel del Parini la mitologia come canzonatura ci stava; e che un’altra ironia oltre alle solite si socchiudeva in que’ versi, cioè del mostrare il galante viaggiatore devoto daddovero alle deità che la cristianità non galante ha messe da banda: nè il vecchio Cristiano, che si faceva sottomano a ogni tratto segni di croce per mettere in fuga il diavolo, pensava che nel mondo dov’era per passare tra un anno, lasciando di sè memoria purissima, avrebbe rincontrato il caduceo di Mercurio e i sorrisi di Venere Libitina.
Il Rosmini che e ne’ colloquii e negli scritti si ratteneva dalle soverchie significazioni anco della stima più profondamente sentita, è ben da credere che non profondesse le lodi per accattarsi lode, e che non degnasse adulare nessuna delle passioni e de’ pregiudizi correnti o per ambizione o per timidità o per quel riguardo umano che può parere rispetto debito alle persone e arte di fare accettabile il vero. Era fin da’ primi anni suo detto, che lo scrittore dee mettersi alla testa del suo secolo, non alla coda. Vero è che certi pregiudicati spregiatori di quelli ch’e’ chiamano pregiudizii, prendon talvolta la coda del secolo per la testa: ma qui non è luogo a una questione che diventa di fisiologia, anzi di prospettiva. E quanto al Rosmini e a’ suoi pari, dico che quello, oltre all’essere prova di virtù e di coraggio, è eziandio accorgimento, non nell’intenzione loro ma nell’effetto; e che quanto meno cercata tanto più obbediente, quanto più tarda tanto più piena e durevole, segue ad essi la gloria. Certamente la fama inuguale al merito ma ben alta che venne al Rosmini vivente, non gli fu guadagnata nè dalla facilità de’ suoi scritti nè dalla condiscendenza a’ gusti del tempo nè dal servile chinarsi alle altrui fame, già grandi, con le quali egli, quando la verità gli paresse richiederlo, s’affrontò.