< Antonio Rosmini
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Capitolo XXV
XXIV XXVI


La riverenza di lui verso il popolo aveva dunque più ragioni, le une dalle altre corroborate e nobilitate; il riconoscere nella lingua, della quale il popolo è il più fido custode, il germe di tutte le verità, il vestigio di tutte le buone tradizioni; il sentire nell’uso che il popolo fa d’essa lingua quell’istinto di convenienza ch’è prima condizione alla proprietà filosofica e alla letteraria bellezza, l’ammirare nelle moltitudini non depravate dalle dicerie de’ saputi e dall’esempio de’ ricchi quella rettitudine di ragionamento e d’affetto ch’è guida sicura alla vita; il compatire a’ dolori e alle ignoranze della plebe misera, l’amare in essa gli amati da Dio e da Gesù. E si doleva che ne’ riti del culto il popolo fosse con l’intelligenza diviso dal prete; le preci voleva veramente comuni, perchè dal consentire nella chiesa non può che non segua il consentimento e nella piazza e per ogni dove. Al catechismo dava quel peso che si dee, senza farne pesante l’insegnamento per la materialità delle forme; ch’anzi l’offriva secondo l’ordine delle idee: e un ammaestramento speciale destinava, come il Neri, al popolo i dì di festa. E le Suore della Provvidenza, secondo la regola da lui data aprivano scuole minori ne’ luoghi ov’altre mancassero, sì in Isvizzera e sì in Piemonte: e in Inghilterra i suoi dànno cura segnatamente all’educazione de’ poveri. Fin da giovane egli aveva tradotto il libro d’Agostino, Del catechizzare gl’indotti; giacchè a’ più de’ grandi pensatori e scrittori il tradurre è stato esercizio più che di stile: e nel proemio raccomandava che la religione insegnassesi per via della storia; con che l’intelletto è aiutato dalla memoria e dalla immaginazione, e nelle idee s’ispira l’affetto, e i fatti narrati sono dichiarazione insieme e conferma alle massime. Ma sebbene egli apprezzasse il servigio reso da coloro che in forma semplice o di viva voce o ne’ libri fanno accessibile a tutti la verità, e riprendesse coloro che questi umili lavori dispregiano, e si peritasse a rigettare per inutili anco i condotti men bene; non è maraviglia che la natura dell’ingegno suo lo portasse più su; e che fin nel dare Esercizi spirituali egli ascendesse a generali principî rifacendosi dal fine dell’uomo, riducendo a sistema le pratiche cristiane. Ma quanto l’ingegno saliva più alto, tanto la virtù lo riconduceva a ragguagliarsi ai meno perfetti; e le pratiche appunto di cotesti esercizî e’ consiglia contrarle secondo le occupazioni e lo stato delle persone differenti.

Appena affacciatosi alla vita, s’accorse che quella del pensiero la quale era pure in lui sì feconda, non è piena vita; e ne’ versi al De Apollonia scritti dell’età di circa vent’anni, lo dice con quell’asseveranza evidente ch’è il linguaggio della coscienza riflessa sopra di sè[1].

Non conosceva egli cose lievi o piccoli ministeri; e tutti gli erano dall’idea riingranditi; ma l’idea poi accomodava alla proporzione degli uomini e de’ tempi. La misura una e immutabile, le proporzioni varie. Egli giovane teneva in sua casa conferenze in cui spiegare a’ preti più attempati di lui le dottrine del gigante d’Aquino, e per adattarsi all’intelligenza e all’umore di certuni di loro, usava o lasciava ch’altri usasse similitudini da dover parere a tal mente materialissime e puerili, delle quali lo stesso Aquinate talvolta non si vergogna, per porgere, come dice egli stesso, il latte a’ parvoli, imitatore di Platone e di Cristo. Ma quando trovava uditore più attento, allora godeva di poter congiungere alla chiarezza la profondità. E mi rammento che, interrogandolo io di quel che le Scuole intendessero per la parola forma, me ne porse una dimostrazione insieme e un’imagine da pensatore artista, da maestro oratore; e giovava che lo ascoltassero que’ biasimatori del Dizionario che alla Crusca rinfacciavano con ignaro disprezzo l’aver detto forma l’anima umana secondo il linguaggio del tempo loro e di tanti secoli d’antichità, meritatamente ripresi da G. B. Niccolini.

Dopo il trenta il Rosmini avviava chierici nella sacra eloquenza, della quale stimava essere prima dote la semplicità dell’affetto, e in certi parrochi di campagna la sentiva più efficace che in certi predicatori di corte. E appunto perciò egli il predicare chiamava una carità intellettuale, e impone per norme a’ suoi confratelli della Carità di predicare in tutte le forme. Non già che sprezzasse le diligenze dell’arte, ch’anzi troppo n’era ne’ primi anni vago; e anche poi inaspettatamente invitato a predicare, ciascuna predica meditava, egli sì ricco d’idee, ma appunto perciò più severo nello scegliere e nell’ordinarle, per rispetto del vero e degli uditori e di sè, per coscienza e di mente e d’anima, per quell’alta necessità che sentono gli spiriti eletti del tendere in ogni cosa alla possibile perfezione, del prendere, anco negli atti più passeggeri, abiti buoni, del vigilare sè stessi e non ricadere languidi sopra di sè. Poi uno degli assunti del suo Istituto fu l’educazione de’ chierici, per rinfondere ne’ religiosi quella spiritualità di religione che gli pareva in certuni venuta meno. E sulla Pedagogia in generale e sul Metodo meditava teoricamente; e ne lasciò lavori abbozzati. Ma la pratica di queste cose e’ non voleva serbata per privilegio a’ preti; e affermava che tutti i fedeli, i padri di famiglia specialmente, debbono a certi ministeri del sacerdozio partecipare. E per comprovare la conciliazione perpetua delle due cose, egli parroco nel 1835, occupato in tante cure spirituali e già autore illustre, non isdegnò di rimettere il piede e di leggere un suo ragionamento in quell’Accademia Roveretana, detta degli Agiati, che l’aveva accolto fra’ suoi giovanetto.

Note

  1.  
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . o dotto
    Spirto e gentil, tu sol sovra il cor mio
    Che te ne’ giuochi e te ne’ studi indarno
    Cerca or dolce ora grave, amabil sempre;
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    A te l’arguto suon da questa valle
    Porti sull’ali sue vento cortese,
    Chè al bisbigliar degl’inusati accenti
    Forse l’orecchio v’apporrai gentile;
    O sia che al patrio focolar te trovi
    Del vecchio genitore a udire intento
    I perigli, onde rende esperta e cauta
    La famigliuola, che, raccolta intorno
    Di lui narrante, con socchiusa bocca,
    Pende dal labro; o ch’e’ ti trovi all’ombra
    Del tuo boschetto, ragionando teco
    Alcun d’Atene o Roma antico Saggio,
    O che in silenzio audaci voli imprendi.
    Quivi mi par vederli or sotto un faggio
    Della natura modular gli amori,
    Onde la terra e l’acqua e l’aere e ’l foco
    Generan sempre, di fecondo seme
    Unquanco scarsi, e con mirabil giro
    A nuovi figli fragil vita dànno,
    Struggendo i vecchi testè nati; ed ora
    Dell’alta selva in un recesso opaco,
    Sacro, soave, meditar profondo
    Dell’universo il gran poema, in cui
    L’armonie delle sfere esprimi e canti.
    Ai grand’ingegni grand’imprese: or poi
    Quel fra’ mortai di vero a me par grande,
    Che grande è in picciol’ cure, e non tra gli astri
    Mai sempre affisso, il guardo unqua chinando
    Alla terra ed a sè, nè mai rimembra
    Che carne il veste, e non è al mondo ei solo;
    C’ha i genitori od i fratelli o i figli.
    Tu sai ben d’esser uom; tu non trascuri
    Della virtù, che in faccenduole abbiette
    Grande, sovente di velarsi è vaga,
    Minimo ufficio; e il pueril trastullo
    Col lieve riso serba alacre e pronto
    ad opere canute.

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