< Antonio Rosmini
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Capitolo XXXV
XXXIV XXXVI


Ho detto de’ suoi figli unanimi; e qui per meglio dimostrare come la vita sua fosse tutta un’armonia preordinata dalla natura e dalla Grazia, e da’ suoi propri e presentimenti e voleri, rammenterò come dell’età di sette anni leggendo gli atti de’ martiri egli si commovesse a lagrime d’ammirazione e di tenerezza; come con altri fanciulli facesse nel giardino ritiri a modo di celle, a esercitarvi atti di pietà in solitudine compagnevole, ch’era appunto l’indole dell’anima sua, e conciliava le severe necessità dello spirito co’ soavi bisogni del cuore. Nel 1814 aperse ai genitori il desiderio, egli primogenito, di farsi prete; nè lo distolsero le loro preghiere, nè i consigli del Cesari, che, interposto da essi, si prestò a questo di cuore. Il buon prete dell’Oratorio era sinceramente, ma mitemente, pio; nè alla sua innocenza nuoceva studiare il Boccaccio dappoichè il Pederzani, prete un po’ rotto, ebbe vinti i suoi scrupoli; nè tradurre Terenzio con lusso di riboboli vivi e morti, cogliendo sovente nello spirito dell’autore come dotto ch’egli era delle latine eleganze, e più assennato scrittore in lingua morta che non nella vivente, la quale sotto le sue carezze invecchiava e moriva. Quest’atto del Cesari, come di tolleranza e prudenza esemplare, m’è parso degno che sia memorato.

In abito di secolare incominciò il Rosmini in Padova a studiare teologia; nè lo stolgono dal suo proposito esempi giovanili diversi, nè distrazioni di città popolata da’ studenti, nè letture a mente acerba pericolose fatte per amore di scienza, nè celie più pericolose a anime deboli ch’altre tentazioni di molte. Il professore Mabil, veneto, di razza francese, e che accoppiava la francese all’arguzia veneziana in colloqui dove la squisitezza letterata era ammorbidita dalla esperienza del mondo, e risaltava da una originalità quasi ruvida una finezza più delicata, e sotto la sbadata allegria traspariva un non so che di mestizia, e l’acrimonia temperavasi con la bontà; al visitarlo che il Rosmini fece, per primo saluto: Ella dunque, gli disse, vuol farsi eunuco per il regno de’ cieli? - e il Rosmini fu sì poco adontato o sgomento della celia, che la ridiceva sorridendo, e lodando forse soverchio il Mabil per quella sua non invenusta ineleganza di scrivere, nella quale il giovane intelligente discerneva forse più belle disposizioni d’ingegno e d’animo viziate da tempi.

Nel 1820 il padre gli muore lasciando a lui più che all’altro figliuolo suo, buono e degno anch’esso, ricca eredità, la quale non valse che a confermarlo ne’ propositi fatti. E acciocchè la cura di quella non lo distraesse, la Provvidenza gli destinava, più prezioso delle eredità stessa, un cugino, il conte Salvadori, che gliela amministrasse con quella generosa pazienza che dona l’affetto; uomo tanto amico al Rosmini e unanime a lui, che, toccata quell’eredità a un prete estraneo, egli prosegue ad amministrarla come per il cugino vivente, senza che questi nel testamento gli lasci o memoria o parola di riconoscenza, inutile tra anime tali. Ma ben meglio che l’uso predestinato della sua rendita, allora di venticinque mila franchi all’anno, e cresciuta poi, ben meglio prova le sue intenzioni il viaggio di Roma nel 1822, quando accolto cordialmente dallo Zurla e dal Cappellari, prelati fautori de’ Veneti, e in via di crescere come il tempo mostrò, e invitato a rimanersene in Roma, non volle, ma ritornò a fare il vice-parroco in un paesello del suo Rovereto. Non solamente la voglia di lucri e di preminenze e la vaghezza di colori più o meno rossi, e la brama di fama poteva allettarlo, ma gli stessi suoi desideri di bene, l’amore della scienza, la gratitudine agl’invitanti, l’obbedienza a’ superiori, il desiderio di poterne meglio conoscere la volontà più vicino e di meglio giovare con la parola e l’esempio e il nome e la mediazione alla Patria e alla Chiesa, potevano farglisi tentazioni sante. Ma egli, non sacerdote ancora, raccontandomi con parole semplici e ferme la cosa, dimostrava chiaro che quel rifiuto non era sacrifizio ma intuito della sua mente, bisogno della sua vita, istinto dell’indole sua. Maturo in giovanezza, giovane d’anima negli anni maturi, e’ doveva crescere occulto velut arbor aevo; e siccome i pensieri suoi farsi per età più fecondi, così più ferventi gli affetti.

Contento per allora del vivere libero dall’onorata soma di Roma, affidava al tempo, cioè a Dio, le sue sorti. Mi rammento un giorno che, toccando di certi agi allo studio che gli mancavano nell’ampia e ricca sua casa, disse con voce sommessa e quasi assorto in un pensiero mesto per la sua stessa grandezza: io son qui come sotto una tenda. Pellegrino sotto il tetto paterno, ma non straniero a verun affetto nè di famiglia nè di Patria nè d’umanità, egli viveva in mezzo alle apparenze e alle noie dell’opulenza come se avesse già fatto voto di povertà; signore del molto suo avere e de’ voleri propri per virtù e degli altrui per autorità e per amore, viveva come se avesse già fatto voto d’obbedienza. Pronto a ogni chiamata che sentisse venire da Dio, quando gli parve il soggiorno di Milano più confacevole allo svolgimento de’ suoi pensieri, abbandonò la patria non per Roma ma per Milano; e si pose a vivere come dozzinante in un albergo in piazza Santo Sepolcro (quasi presagio del Calvario di Domodossola) vicino alla Biblioteca fondata da quel Federigo Borromeo la cui vita ha con la sua tanto notabili somiglianze, che il Manzoni, scrivendo il romanzo prima che conoscesse il Rosmini e che il Rosmini si desse a conoscere quale poi fu, pare raccontando del Cardinale arcivescovo suo concittadino, essersi ricordato d’esempi ancor non nati e avere dipinto il prete di Stresa. Conformità meramente estrinseche sono che avessero e Federigo e Antonio un cugino di nome Carlo, che amassero insieme con la virtù le arti belle, che pensassero a fondare una stamperia come officina e di civiltà e di pietà: ma più intime e più amabili a considerare il generoso e pur naturale distacco dal mondo, il fondare una congregazione religiosa, il provvedere segnatamente d’ammaestramento a’ parvoli e d’assistenza agl’infermi, e quelle altre cose che il Manzoni così degnamente racconta. Vate davvero e nella poesia e nella storia; perchè la storia de’ grandi esempi è vaticinio d’altri esempi grandi, e l’ideale della vera poesia consiste nel narrare fedelmente i momenti più belli dell’intima vita delle anime singolari.

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