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Stettero alquanto sopra sé le oneste donne, intesa la proposta di Gismondo, e già mezzo tra se stessa si pentiva madonna Berenice d’avergli data troppa libertà nel favellare. Pure, riguardando che, quantunque egli amoroso giovane e sollazzevole fosse, per tutto ciò sempre altro che modestamente non parlava, si rassicurò e con le sue compagne cominciò a sorridere di questo fatto; le quali insieme con lei altresì dopo un brieve pentimento rassicurate, s’accorsero, raccogliendo le parole di Gismondo, che egli la fiera tristizia di Perottino pugneva e lui provocava nel parlare, perciò che sapevano che egli di cosa amorosa altro che male non ragionava giamai. Ma per questo niente rispondendo Perottino e ogniuno tacendosi, Gismondo in cotal guisa riparlò: - Non è maraviglia, dolcissime giovani, se voi tacete; le quali credo io più tosto di lodare Amore che di biasimarlo v’ingegnereste, sì come quelle cui egli in niuna cosa può aver diservite giamai, se onesta vergogna e sempre in donna lodevole non vi ritenesse. Quantunque d’Amore si possa per ciascun sempre onestissimamente parlare. Ma de’ miei compagni sì mi maraviglio io forte, i quali doverebbono, se bene altramente credessero che fosse il vero, scherzando almeno favoleggiar contra lui, affine che alcuna cosa di così bella materia si ragionasse oggi tra noi; non che dovessero essi ciò fare, essendovene uno per aventura qui, che siede, il quale male d’Amor giudicando tiene che egli sia reo, e sì si tace -.
Quivi non potendosi più nascondere Perottino, alquanto turbato, sì come nel volto dimostrava, ruppe il suo lungo silenzio così dicendo: - Ben m’accorgo io, Gismondo, che tu in questo campo me chiami, ma io sono assai debole barbero a cotal corso. Per che meglio farai se tu, in altro piano e le donne e Lavinello e me, se ti pare, provocando, meno sassosi e rincrescievoli aringhi ci concederai poter fare -.
Ora quivi furono molte parole e da Gismondo e da Lavinello dette, che il terzo compagno era, acciò che Perottino parlasse; ma egli, non si mutando di proposito, ostinatamente il ricusava. La qual cosa madonna Berenice e le sue compagne veggendo, lo ’ncominciaron tutte instantemente a pregare che egli e per piacer di ciascuno e per amor di loro alcuna cosa dicesse, disiderose di sentirlo parlare; e tanto intorno a ciò con dolci parole or una or altra il combatterono, che egli alla fine vinto rendendosi disse loro così: - E il tacere e il parlare oggimai ugualmente mi sono discari, perciò che né quello debbo, né questo vorrei. Ora vinca la riverenza, donne, che io a’ vostri commandamenti sono di portar tenuto, non già a quelli di Gismondo, il quale poteva con suo onore, miglior materia che questa non è proponendoci, e voi e me e se stesso ad un tratto dilettare, dove egli tutti insieme con sua vergogna ci attristerà. Perciò che né voi udirete cose che piacevoli sieno ad udire, e io di noiose ragionerò, e esso per aventura ciò che egli non cerca sì si troverà; il quale, credendosi d’alcuna occasion dare a’ suoi ragionamenti col mio, ogni materia si leva via di poter, non dico acconciamente, ma pure in modo alcuno favellare. Perciò che ravedutosi, per quello che a me converrà dire, in quanto errore non io, cui egli vi crede essere, ma esso sia, che ciò crede, se egli non ha ogni vergogna smarrita, esso si rimarrà di prender l’arme contra ’l vero; e quando pure ardisse di prenderlesi, fare no ’l potrà, perciò che non gli fia rimaso che pigliare.
- O armato o disarmato - rispose Gismondo - in ogni modo ho io a farla teco questa volta, Perottino. Ma troppo credi, se tu credi che a me non debba rimaner che pigliare, il quale non posso gran fatto pigliar cosa che arma contra te non sia. Ma tu nondimeno àrmati, ché a me non parrebbe vincere, se bene armato non ti vincessi -.