< Asolani < Libro primo
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Libro primo - Capitolo XVII
Libro primo - XVI Libro primo - XVIII

E così detto seguitò: - Parti, Lisa, che a questi miracoli si convenga che il loro facitore sia Idio chiamato? Parti che non senza cagione que’ primi uomini gli abbiano imposto cotal nome? Perciò che tutte le cose che fuori dell’uso naturale avengono, le quali per questo si chiamano miracoli, che maraviglia a gli uomini recano o intese o vedute, non posson procedere da cosa che sopranaturale non sia, e tale sopra tutte l’altre è Dio. Questo nome adunque diedero ad Amore, sì come a colui la cui potenza sopra quella della natura ad essi parea che si distendesse. Ma io a dimostrarloti, più vago de’ miei mali che de gli altrui, non ho quasi adoperato altro, sì come tu hai veduto, che la memoria d’una menomissima parte de’ miei infiniti e dolorosi martiri; i quali però insieme tutti, avenga che essi di soverchia miseria fare essempio mi potessero a tutto il mondo in fede della potenza di questo Idio, se bene in maggior numero non si stendessero che questi sono, de’ quali tu hai udito, pure, a comperazione di quelli di tutti gli altri uomini, per nulla senza fallo riputar si possono o per poco. Che se io t’avessi voluto dipignere ragionando le historie di centomila amanti che si leggono, sì come nelle chiese si suole fare, nelle quali dinanzi ad uno Idio non la fede d’un uom solo, ma d’infiniti, si vede in mille tavolette dipinta e raccontata, certo non altramente maravigliata te ne saresti che sogliano i pastori, quando essi primieramente nella città d’alcuna bisogna portati, a una ora mille cose veggono che son loro d’infinita maraviglia cagione. Né perché io mi creda che le mie miserie sien gravi, come senza fallo sono, è egli perciò da dire che lievi sieno l’altrui, o che Amore ne’ cuori di mille uomini per aventura non s’aventi con tanto impeto, con quanto egli ha fatto nel mio, e che egli cotante e così strane maraviglie non ne generi, quante e quali son quelle che egli nel mio ha generate. Anzi io mi credo per certo d’avere di molti compagni a questa pruova per grazia del mio signore, quantunque essi non così tutti vedere si possano da ciascuno e conoscere, come io me stesso conosco. Ma è appresso le altre questa, una delle sciocchezze de gli amanti, che ciascuno si crede essere il più misero e di ciò s’invaghisce, come se di questa vittoria ne gli venisse corona, né vuole per niente che alcuno altro viva, il quale amando possa tanto al sommo d’ogni male pervenire, quanto egli è pervenuto. Amava Argia sanza fallo oltre modo, se alle cose molto antiche si può dar fede, la quale chi avesse udita, quando ella sopra le ferite del suo morto marito gittatasi piagneva, sì come si dee pensare che ella facesse, averebbe inteso che ella il suo dolore sopra quello d’ogni altra dolente riponeva. E pure leggiamo d’Evadna, la quale in quella medesima sorte di miseria e in un tempo con lei pervenuta, sdegnando alteramente la propria vita, il suo morto marito non pianse solamente, ma ancora seguìo. Fece il somigliante Laodomia nella morte del suo, fece la bella asiana Pantea, fece in quella del suo amante la infelice giovane di Sesto questa medesima pruova, fecero altresì di molt’altre. Per che comprender si può ogni stato d’infelicità potersi in ogni tempo con molti altri rassomigliare; ma non di leggier si veggono, perciò che la miseria ama sovente di star nascosa. Tu dunque, Lisa, dando alle mie angoscie quella compagnia che ti parrà poter dare, senza che io vada tutte le historie ravolgendo, potrai agevolmente argomentare la potenza del tuo Idio tante volte più distendersi di quello che io t’ho co’ miei essempi dimostrato, quanti possono esser quelli che amino come fo io, i quali possono senza fallo essere infiniti. Perciò che ad Amore è per niente, che può essere, solo che esso voglia, ad un tempo parimente in ogni luogo, di cotali prodezze, a rischio della vita de gli amanti, in mille di loro insieme insieme far pruova. Egli così giuoca e, quello che a noi è d’infinite lagrime e d’infiniti tormenti cagione, suoi scherzi sono e suoi risi non altramente che nostri dolori. E già in modo ha sé avezzo nel nostro sangue e delle nostre ferite invaghito il crudele, che di tutti i suoi miracoli quello è il più maraviglioso, quando egli alcuno ne fa amare, il qual senta poco dolore. E perciò pochissimi sono quegli amanti, se pure alcuno ve n’è, che io no ’l so, che possano nelle lor fiamme servar modo; dove in contrario si vede tutto ’l giorno, lasciamo stare che di riposati, di riguardosi, di studiosi, di filosofanti, molte volte rischievoli andatori di notte, portatori d’arme, salitori di mura, feritori d’uomini diveniamo, ma tutto dì veggiamo mille uomini, e quelli per aventura che per più costanti sono e per più saggi riputati, quando ad amar si conducono, palesemente impazzare.

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