< Asolani < Libro primo
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Libro primo - Capitolo XXIII
Libro primo - XXII Libro primo - XXIV

Ora facendo vela da questi duri e importuni scogli del disio, il mare dell’allegrezza fallace e torbido solchiamo. Manifesta cosa vi dee adunque essere, o donne, che tanto a noi ogni allegrezza si fa maggiore, quanto maggiore ne gli animi nostri è stato di quello il disio che a noi è della nostra gioia cagione; e tanto più oltre modo nel conseguire delle cercate cose ci rallegriamo, quanto più elle da noi prima sono state cerche oltra misura. E perciò che niuno appetito ha in noi tanto di forza, né con sì possente impeto all’obbietto propostogli ci trasporta, quanto quello fa che è dalli sproni e dalla sferza d’Amore punto e sollecitato, aviene che niuna allegrezza di tanto passa ogni giusto segno, di quanto quella de gli amanti passar si vede, quando essi d’alcuno loro disiderio vengono a riva. E veramente chi si rallegrerebbe cotanto d’un picciolo sguardo, o chi in luogo di somma felicità porrebbe due tronche parolette o un brieve toccar di mano o un’altra favola cotale, se non l’amante, il quale è di queste stesse novelluzze vago e disievole fuor di ragione? certo, che io creda, niuno. Né perciò è da dire che in questo a miglior condizione, che tutti gli altri uomini, siano gli amanti, quando manifestamente si vede che ciascuna delle loro allegrezze le più volte, o, per dir meglio, sempre, accompagnano infiniti dolori, il che ne gli altri non suole avenire, in modo che quello che una volta sopravanza nel sollazzo è loro mille fiate renduto nella pena. Senza che niuna allegrezza, quando ella trapassa i termini del convenevole, è sana, e più tosto credenza fallace e stolta che vera allegrezza si può chiamare. La quale è ancora per questo dannosa ne gli amanti, che ella in modo gli lascia ebbri del suo veleno che, come se essi in Lete avessero la memoria tuffata, d’ogni altra cosa fatti dimentichi salvo che del lor male, ogni onesto ufficio, ogni studio lodevole, ogni onorata impresa, ogni lor debito lasciato a dietro, in questa sola vituperevolmente pongono tutti i loro pensieri; di che non solamente vergogna e danno ne segue loro, ma oltre a.cciò, quasi di se stessi nimici divenuti, essi medesimi volontariamente si fanno servi di mille dolori. Quante notti miseramente passa vegghiando, quanti giorni sollecitamente perde in un solo pensiero, quanti passi misura in vano, quante carte vergando non meno le bagna di lagrime che d’inchiostro l’infelice amante alcuna volta, prima che egli una ora piacevole si guadagni? la qual per aventura senza noia non gli viene, sì come di lamentevoli parole spesse volte e di focosi sospiri e di vero pianto mescolata, o forse non senza pericolo stando della propria persona o, se alcuna di queste cose no ’l tocca, certo con doloroso pungimento di cuore che ella sì tosto fuggendo se ne porti i suoi diletti, i quali egli ha così lungamente penato per acquistare. Chi non sa quanti pentimenti, quanti scorni, quante mutazioni, quanti ramarichii, quanti pensieri di vendetta, quante fiamme di sdegno il cuocono e ricuocono mille volte, prima che egli un piacere consegua? Chi non sa con quante gelosie, con quante invidie, con quanti sospetti, con quante emulazioni e in fine con quanti assenzi ciascuna sua brevissima dolcezza sia comperata? Certo non hanno tante conche i nostri liti né tante foglie muove il vento in questo giardino, qualora egli più verde si vede e più vestito, quanti possono in ogni sollazzo amoroso esser dolori. E questi medesimi sollazzi, se aviene alcuna fiata che sieno da ogni loro parte di duolo e di maninconia voti, il che non può essere, ma posto che sì, allora per aventura ci sono eglino più dannosi e più gravi. Perciò che le fortune amorose non sempre durano in uno medesimo stato, anzi elle più sovente si mutano che alcuna altra delle mondane, sì come quelle che sottoposte sono al governo di più lieve signore che tutte le altre non sono. Il che quando aviene, tanto ci appare la miseria più grave, quanto la felicità ci è paruta maggiore. Allora ci lamentiamo noi d’Amore, allora ci ramarichiamo di noi stessi, allora c’incresce il vivere, sì come io vi posso col mio misero essempio in queste rime far vedere. Le quali se per aventura più lunghe vi parranno dell’usato, fie per questo, che hanno avuto rispetto alla gravezza de’ miei mali, la quale in pochi versi non parve loro che potesse capere.

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