< Asolani < Libro primo
Questo testo è completo.
Libro primo - Capitolo XXXII
Libro primo - XXXI Libro primo - XXXIII

Poscia che ’l mio destin fallace e empio
Ne i dolci lumi de l’altrui pietade
Le mie speranze acerbamente ha spento,
Di pena in pena e d’uno in altro scempio
Menando i giorni, e per aspre contrade
Morte chiamando a passo infermo e lento,
Nebbia e polvere al vento
Son fatto e sotto ’l sol falda di neve;
Ch’un volto segue l’alma, ov’ella il fugge,
E un penser la strugge
Cocente sì, ch’ogni altro danno è leve,
E gli occhi, che già fûr di mirar vaghi,
Piangono e questo sol par che gli appaghi.

Or che mia stella più non m’assecura,
Scorgo le membra via di passo in passo
Per camin duro e ’n penser tristo e rio;
Ch’io dico pien d’error e di paura:
Ove ne vo, dolente? e che pur lasso?
Chi mi t’invidia, o mio sommo desio?".
Così dicendo, un rio
Verso dal cor di dolorosa pioggia,
Che può far lacrimar le petre stesse;
E perché sian più spesse
L’angoscie mie, con disusata foggia,
U’ che ’l piè movo, u’ che la vista giro,
Altro che la mia donna unqua non miro.

Col piè pur meco e col cor con altrui
Vo caminando e de l’interna riva
Bagnando for per gli occhi ogni sentero,
Alor ch’io penso: ’Ohimè, che son, che fui?
Del mio caro tesoro or chi mi priva,
E scorge in parte, onde tornar non spero?
Deh perché qui non pero,
Prima ch’io ne divenga più mendico?
Deh chi sì tosto di piacer mi spoglia,
Per vestirmi di doglia
Eternamente? ahi mondo, ahi mio nemico
Destin, a che mi trahi, perché non sia
Vita dura mortal, quanto la mia!’.

Ove men’ porta il calle o ’l piede errante,
Cerco sbramar piangendo, anzi ch’io moia,
Le luci, che desio d’altro non hanno;
E grido: "O disaventuroso amante,
Or se’ tu al fin della tua breve gioia
E nel principio del tuo lungo affanno".
E gli occhi, che mi stanno
Come due stelle fissi in mezzo a l’alma,
E ’l viso, che pur dianzi era ’l mio sole,
E gli atti e le parole,
Che mi sgombrâr del petto ogni altra salma,
Fan di pensieri al cor sì dura schiera,
Che meraviglia è ben com’io non pera.

Non pero già, ma non rimango vivo;
Anzi pur vivo al danno, a la speranza
Via più che morto d’ogni mia mercede:
Morto al diletto, a le mie pene vivo;
E, mancando al gioir, nel duol s’avanza
Lo cor, ch’ognior più largo a pianger riede;
E pensa e ode e vede
Pur lei, che l’arse già sì dolcemente
E or in tanto amaro lo distilla,
Né sol d’una favilla
Scema ’l gran foco de l’accesa mente,
E me fa gir gridando: "O destin forte,
Come m’hai tu ben posto in dura sorte".

Canzon, omai lo tronco ne ven meno,
Ma non la doglia che mi strugge e sforza;
Ond’io ne vergherò quest’altra scorza.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.