< Atti del parlamento italiano (1861)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Progetto di legge: S. M. il re assume il titolo di Re d'Italia
3 5

PROGETTI DI LEGGE, RELAZIONI

E DOCUMENTI DIVERSI





S. M. Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia.


Progetto di legge presentato al Senato il 21 febbraio 1861 dal presidente del Consiglio dei ministri (Cavour)


Signori! — I maravigliosi eventi dell’ultimo biennio hanno con insperata prosperità di successi riunite in un solo Stato quasi tutte le sparse membra della nazione. Alla varietà dei principati fra sè diversi e troppo soventi infra di sè pugnanti per disformità d’intendimenti e consigli politici, è finalmente succeduta l’unità di governo fondata sulla salda base della Monarchia nazionale. Il regno d’Italia è oggi un fatto; questo fatto dobbiamo affermarlo in cospetto dei popoli italiani e dell’Europa.

Per ordine di S. M., e sul concorde avviso del Consiglio dei ministri, ho quindi l’onore di presentare al Senato il qui unito disegno di legge, per cui il Re, nostro augusto signore, assume per sè e per i successori suoi il titolo di Re d’Italia.

Fedele interprete della volontà nazionale, già in mille modi manifestata, il Parlamento, nel giorno solenne della seduta reale, coll’entusiasmo della riconoscenza e dell’affetto, acclamava Vittorio Emanuele II Re d’Italia.

Il Senato sarà lieto di dare per il primo sollecita sanzione al voto di tutti gli Italiani, e di salutare col nuovo titolo la nobile Dinastia, che, nata in Italia, illustre per otto secoli di gloria e di virtù, fu dalla Provvidenza divina serbata a vendicar le sventure, a sanar le ferite, a chiudere l’era delle divisioni italiane.

Col vostro voto, o signori, voi ponete fine ai ricordi dei provinciali rivolgimenti, scrivete le prime pagine di una nuova storia nazionale.


PROGETTO DI LEGGE.


Articolo unico. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d’Italia.

S. M. Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia.


Relazione fatta al Senato il 24 febbraio 1861 dall’ufficio centrale, composto dei senatori De Gori, Giulini, Giorgini, Niutta, e Matteucci, relatore.


Signori! — L’ufficio centrale cui affidaste l’incarico di riferire sulla proposta di legge, colla quale Sua Maestà Vittorio Emanuele II deve assumere il titolo di Re d’Italia, interprete dei sentimenti del Senato, lieto di poter dare il primo sanzione a quella legge che i rappresentanti della nazione, nel memorando giorno della seduta reale, avevano invocato con fervorosi segni di ossequio, di affetto e di gratitudine.

Il vostro ufficio fu unanime nel riconoscere che quella proposta di legge ha la sua origine e ragione in un fatto già solennemente compiuto dalla volontà nazionale, che la coscienza dei popoli civili acclama come un principio d’ordine e di progresso per l’Europa, e che la Provvidenza ha manifestamente promosso coll’aiuto di potenti alleati, e ispirando nell’animo degli Italiani senno, ardimento, concordia pari alla grandezza dell’impresa.

Pochi sono i popoli che più di noi abbiano dalla natura ricevuto virtù tanto caratteristiche per un’esistenza propria; pochi i popoli che più di noi, rimanendo deboli e soggetti allo straniero, come per lunghe e note sventure già fummo, nuocerebbero alla pace europea, all’equilibrio politico dei grandi Stati, al progresso dell’ordine civile e morale nel mondo. Nè crediamo che amor di patria c’illuda affermando esser questo il più solenne esempio che offra la storia di un popolo, il quale per concordia mirabile di volontà giunto a costituire un grande Stato, stringendo insieme i moltiplici elementi della nazione, da tanti secoli divisi e dispersi, e contrapponendo alle violenze dei suoi nemici, più che altro, l’influenza invincibile delle forze morali.

L’augusto nostro alleato l’Imperatore dei Francesi ben comprese queste verità, allorchè ci assisteva colle armi a liberare la Lombardia, e unitamente all’Inghilterra affermava nei Consigli europei che non doveva essere fatta violenza agli Italiani, nè impedito loro di costituirsi in uno Stato forte.

Le varie provincie della Penisola non fecero che seguire le loro naturali inclinazioni, che spegnere gli antichi germi di debolezza, che provvedere ai supremi bisogni di un popolo libero, costituendo in mezzo all’Europa uno Stato potente che è per sè e per i vicini un elemento nuovo di pace e di civiltà.

Questo Stato ha un nome: è il regno d’Italia; nome che comprende il territorio naturale occupato da ogni gente italiana e sta a significare la nostra costituzione politica; questo nome esprime che l’ultimo termine dei rivolgimenti italiani è la creazione di una monarchia nazionale.

Acclamando Vittorio Emanuele Re d’Italia, la nazione ha voluto premiare quella illustre Dinastia italiana che col senno civile, col coraggio militare, con spiriti indomiti d’indipendenza, rendeva il popolo subalpino degno delle libere istituzioni e custode della bandiera nazionale; ha voluto rendere omaggio alla venerata memoria del magnanimo Re Carlo Alberto ed all’ardito patriottismo del Re.

Il titolo di Re d’Italia pone in atto il concetto intero della volontà nazionale, cancella i simboli delle nostre interne divisioni, è per l’animo d’ogni italiano un pegno di grandezza e di unione, accresce l’autorità del Governo del Re nei Consessi europei, ed offre alle grandi potenze, in mezzo alle quali il regno d’Italia prende posto, degna occasione per accettare il risorgimento politico di un popolo che ha tanto contribuito alla civiltà universale. Salutando con questo nuovo titolo l’illustre discendente di una delle più antiche e nobili dinastie, i grandi Stati d’Europa stringeranno coll’Italia quei vincoli di concordia, di fratellanza, d’interessi comuni, che sono oramai il solo fondamento delle relazioni diplomatiche fra popoli liberi e cristiani.

Questi Stati, ai pari di noi, custodi gelosi della pace e dell’ordine, porgeranno in tal modo nuova forza all’autorità del Governo e del primo Parlamento italiano, affinchè con quella sapienza e moderazione che devono dominare nei Consigli di un grande regno possano essere risoluti gli ardui problemi che interessano la pace dell’Italia e del mondo, non che la grandezza e la libertà spirituale della Chiesa.

Siffatte convinzioni persuadevano l’ufficio centrale a proporre al Senato l’adozione dell’articolo di legge presentato dal Ministero.

Questa adozione ha però implicita una disposizione legislativa, di cui sembra non possa essere contestata la ragione e la convenienza, e per la quale il fatto memorando ed il principio giuridico della novella monarchia siano ognora presenti al popolo italiano e congiunti ai nome de’ suoi Re.

La Provvidenza divina, che mai si rivela meglio nella sua bontà e nella sua giustizia che quando muove e dirige la volontà dei popoli a riconquistare dritti o manomessi o perduti; la virtù, la concordia e la perseveranza italiana che la mirabile opera hanno compito, debbono associarsi al nome del Re, siccome la ragione più sacra e la forza più salda del regno.

Perciò l’ufficio centrale vi propone l’aggiunta di un secondo articolo che completa la legge in questo intendimento.

L’ufficio centrale vuol anche esprimere la fiducia che il governo del Re otterrà dall’animo affettuoso e benevolo del nostro augusto Monarca che il figlio primogenito del Re d’Italia s’intitoli costantemente Principe di Piemonte.

Questo titolo rimarrà a ricordare ai nostri Re la terra nativa ed un regno glorioso e civile di otto secoli, sarà un segno imperituro di onoranza reso dagli Italiani tutti a quella provincia che fu il primo scudo della loro libertà e della loro indipendenza.

Si augura il vostro ufficio centrale che vorrete accogliere il progetto di legge così ampliato, con quella unanimità di voti, con quei sentimenti di gratitudine e di riverenza che devono accompagnare il primo e il più grande atto che la volontà nazionale compie in cospetto del mondo.


PROGETTO DI LEGGE.


Art. 1. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d’Italia.

Art. 2. Gli atti del Governo ed ogni altro atto che debba essere intitolato in nome del Re sarà intestato colla formula seguente:

(Il nome del Re)
Per Provvidenza divina, per voto della Nazione
Re d’Italia.




S. M. Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia.


Relazione del presidente Consiglio dei ministri (Cavour) 11 marzo 1861, con cui presenta alla Camera il progetto di legge approvato dal Senato nella seduta del 26 febbraio 1861.


Signori! — Ho l’onore di presentare alla Camera dei deputati il qui unito disegno di legge, col quale il Re nostro augusto signore assume per sè e suoi successori il titolo di Re d’Italia.

La commozione che desta negli animi cotesta proposta, il plauso onde fu accolta, significa altamente che un gran fatto si è compiuto, e che una nuova era incomincia.

È una nobile nazione, la quale, per colpa di fortuna e per proprie colpe caduta in basso stato, conculcata e flagellata per tre secoli da forestiere e domestiche tirannie, si riscuote finalmente invocando il suo diritto, rinnovella sè stessa in una magnanima lotta per dodici anni esercitata, ed afferma sè stessa in cospetto del mondo.

È questa nobile nazione che, serbatasi costante nei lunghi giorni delle prove, serbatasi prudente nei giorni delle prosperità insperate, compie oggi l’opera della sua costituzione, si fa una di reggimento e d’istituti, come una già la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intiero riscatto.

Interpreti del nazionale sentimento, voi già avete, nel giorno solenne dell’apertura del Parlamento, salutato Vittorio Emanuele II col nuovo titolo che l’Italia da Torino a Palermo gli ha decretato con riconoscente affetto. Ora è mestieri convertire in legge dello Stato quel grido d’entusiasmo.

Il Senato del regno l’ha di già sancita con unanime voto: voi, o signori, io ne sono certo, la confermerete colla stessa concordia di suffragi, affinchè il nuovo regno possa presentarsi senza maggior indugio nel consesso delle nazioni col glorioso nome che gli compete.


PROGETTO DI LEGGE.


Articolo unico. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d’Italia.





S. M. Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia.


Relazione fatta alla Camera il 14 marzo 1861 dalla Commissione composta dai deputati Ricasoli Bettino, Cipriani, Paternostro, Pepoli Gioachino, Macciò, Audinot, Natoli, Barracco, e Giorgini, relatore.


Signori! — La commissione incaricata di riferire sul progetto di legge, per cui il re Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia, ha bisogno appena di avvertire come questa legge, tanto per il suo oggetto, quanto per la sua importanza, non abbia nulla di comune con quelle sulle quali noi siamo d’ordinario chiamati a deliberare. Dal punto di vista costituzionale ella potrebbe credersi fors’anche superflua. I titoli del Re Vittorio Emanuele II alla corona d’Italia sono scritti in dodici anni di prodezza, di fede, di costanza. Questi titoli furono riconosciuti da migliaia di volontari riuniti intorno al glorioso vessillo, ch’egli aveva raccolto dalla polvere di Novara per innalzarlo al sole di Palestro e di San Martino; riconosciuti dalle cento città, che sotto gli occhi stessi dei loro tremanti oppressori piantavano sulle loro torri questo glorioso vessillo; riconosciuti, validati, sanciti dal suffragio unanime della nazione. Il diritto di Vittorio Emanuele II al regno d’Italia emana dunque dal potere costituente della nazione; egli vi regna in virtù di quegli stessi plebisciti ai quali si deve la formazione del regno d’Italia.

Il voto che il Governo ci chiede non è dunque un atto nuovo destinato a produrre tale o tal altro effetto giuridico; è la ripetizione, o, per dir meglio, il riassunto finale, il compendio magnifico di tutti gli atti, mediante i quali il popolo italiano ha in tanti modi e in tante occasioni manifestata la sua volontà; è, per dirlo colle parole della relazione che precede il progetto di legge, un’affermazione solenne del diritto nazionale, un grido d’entusiasmo convertito in legge.

Ma la significazione e il valore morale del voto non dispensavano la Camera dall’obbligo di considerare le pratiche conseguenze, che per avventura avrebbero potuto derivarne.

Parve anzi alla maggioranza degli uffizi che, se questo grido di entusiasmo dovesse essere nel tempo stesso la formula ufficiale per l’intestazione degli atti, questa formula non avrebbe in tutto corrisposto all’essenza vera della monarchia rinnovellata dal suffragio universale.

Ora un tale scopo, al quale mirava la maggioranza, poteva essere conseguito sia coll’emendare la legge proposta dal governo, sia col provvedere per mezzo d’una legge speciale e successiva.

Gli uffizi non esitarono a pronunciarsi per questo, secondo partito.

Prima di tutto doveva considerarsi che la legge, nella forma sotto la quale era stata proposta, aveva già ottenuta l’approvazione del Senato. Emendata da noi, avrebbe dovuto essere di nuovo sottoposta alle deliberazioni di quell’Assemblea. Sarebbe stato doloroso che un atto politico di tanta importanza, aspettato con un’impazienza così viva e così confidente dall’intera nazione, si trovasse ritardato. Il secondo partito aveva inoltre il vantaggio di separare appunto le questioni secondarie, sulle quali si possono avere opinioni diverse, dal grande atto politico, la grandezza e l’efficacia del quale starebbe tutta nella prontezza e nell’unanimità dei suffragi.

Ritenuto dunque che non dovesse più a lungo differirsi, nè subordinarsi a tutti gl’incidenti d’una questione parlamentaria il primo e solenne atto col quale l’Italia vuole affermare sèstessa al cospetto del mondo, la vostra Commissione non aveva che a proporvi, da una parte, l’approvazione pura e semplice della legge colla quale il Re Vittorio Emanuele II assume il titolo di Re d’Italia, e assicurarsi, dall’altra, che il suo Governo ci avrebbe, senza indugio, presentata la proposta di legge, diretta a mettere negli atti pubblici l’intitolazione del Re in armonia col diritto pubblico del regno.

E sebbene l’impegno formale preso dal Governo del Re nella discussione di questa medesima legge che ebbe luogo in Senato bastasse ad escludere ogni dubbio a questo riguardo, tuttavia la Commissione desiderò interpellare il Presidente del Consiglio, che, recatosi nel suo seno, confermò e ripetè le dichiarazioni già fatte nell’altra Camera dal suo collega il ministro della giustizia; aggiungendo di più come il solo motivo che aveva finora trattenuto il Governo dal presentare la proposta di legge sull’intestazione degli atti pubblici fosse stato un sentimento di rispetto verso la Camera elettiva, che non s’è anche pronunciata su questa prima legge, della quale quella seconda non sarebbe che la conseguenza ed il compimento.

Le questioni che furono sollevate negli uffizi in ordine alla intestazione degli atti pubblici sono per tal modo riservate alla discussione che avrà luogo quando ci sia presentata la legge relativa.

Il voto che oggi ci si chiede conserva dunque il carattere puramente nazionale che il Governo ha voluto dargli, e la Commissione unanime confida che sarà veramente un grido d’entusiasmo convertito in legge.

Ci sono delle oasi nei deserti della storia; ci sono nella vita delle nazioni dei momenti solenni, che potrebbero chiamarsi la poesia della storia; momenti di trionfo e d’ebrezza, nei quali l’anima, assorta nel presente, si chiude ai rammarichi del passato, come alle preoccupazioni dell’avvenire.

Noi traversiamo una di quelle oasi; noi siamo in uno di quei momenti; e come mai in tale momento si sarebbe invano fatto appello all’entusiasmo della Camera? Come mai il nostro voto non sarebbe oggi immediato ed unanime? Quale tra i sentimenti che ci animano potrebbe essere più forte di quello che vi riunisce tutti — l’amore d’Italia?

Rendiamoci una volta giustizia! quanti qui convenuti dalle varie parti d’Italia sediamo su questi scanni:


quanti sediamo sui banchi di questa Camera, tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa; tutti abbiamo portato la nostra pietra al grand’edifizio, sotto il quale riposeranno le future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi potrebbero mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di Sant’Elmo, intorno ai polsi, il callo delle pesanti catene; qui colle canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di quella fede che fece i soldati ed i martiri; qui i generali che vinsero le nostre battaglie; qui gli uomini di Stato che governarono le nostre politiche; di qui parta unanime adunque quel grido di entusiasmo! qui finalmente l’aspettata tra le nazioni si levi, e dica: Io sono l’Italia!




Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.