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LXVIII.
Arresto del Marchese Mosca e sua liberazione.
Sul cominciare dell’anno 1800 un affare premuroso del marchese Francesco Mosca di Pesaro mio zio materno mi chiamò in Ancona, e mi occupò qualche mese. La famiglia Mosca era allora la prima di Pesaro, e il mio zio lo sentiva troppo per non eccitare un po’ di invidia. Pieno di onestà, di religione, e di zelo per il bene della Patria vi sosteneva le magistrature più importanti e si prestava al servizio di tutti, ma non sapendo nascondere una certa natura sua piuttosto altiera e cruda, disobbligava beneficando, e non sapeva con un tratto familiare e mansueto rendere tollerabili ad altri il fasto, la ricchezza e il talento con cui li offuscava. Il volgo lo amava perchè il volgo non gareggia coi grandi, ma i Nobili lo odiavano perchè sentendosi di rango eguali a lui gli pareva di esserne soverchiati. Disse lo Spirito Santo che verun Profeta riceve onore nella Patria sua, e pur troppo è difficile che un uomo il quale si sollevi alquanto sopra il comune dei suoi concittadini goda tranquillamente amore e stima nel paese proprio. Se arriva di fuori un uomo grande già sovrastante per dignità per dovizia, o per dottrina, si comincia in un tempo istesso a conoscerlo, e a rispettarlo, e non si entra a garreggiare con esso perchè si trova tutto ad un tratto elevato, e preminente. I cittadini però nascono assieme, assieme crescono, assieme corrono una strada medesima, e chi resta addietro se ne sente scornato, e non sa domare l’invidia. Chi al nascere trova la casa del vicino più alta che la sua non lo avverte, ma quegli il quale restando nella umiltà del suo tetto lo vede adombrato dalla fabbrica sorgente del suo propinquo ne risente umiliazione e dolore. I giovani perdonerebbero qualche preminenza ai maggiori di età ma il giudizio della gioventù viene preoccupato dalle relazioni invidiose dei coetanei agli invidiati, sicchè l’uomo alquanto eccellente nel paese proprio resta sul naso di tutti, e fra i concittadini trovano indulgenza e plauso maggiori la malvaggità e la stupidezza, che l’ingegno il merito e la virtù. Dopo morte si rende ai cittadini illustri e benemeriti quella giustizia che gli si è negata viventi, ma per verità è un poco tardi e la speranza di un epitaffio non è un eccitamento grande per rendere i cittadini virtuosi. Nulladimeno questa è la natura dell’uomo e bisogna contentarsene. Chi si sente maggiore degli altri fugga dalla Patria, o viva ritirato ed oscuro quanto può, sicuro che la sua eccellenza mai gli verrà perdonata.
Il marchese Mosca aveva esercitati alcuni carichi sotto il governo della Republica non già per attaccamento a quelle massime di libertà e di uguaglianza che anzi erano totalmente opposte al suo genio orgoglioso, e cristiano, ma perchè appunto non sapendo rassegnarsi a vivere confuso col volgo, aveva scelto di essere Magistrato nella Republica, giacchè non poteva essere signore nella Monarchia. Nel 1799 allorchè finirono tutte le Republiche di Italia abortite dalla rivoluzione, il liberalismo non aveva contaminati i gabinetti dei principi, nè sedotte le opinioni dei popoli. Si giudicava secondo i principj antichi che erano quelli dettati dalla natura e dalla ragione; il delitto si chiamava delitto, l’empietà empietà, la fellonia fellonia, e però si riteneva che quelli i quali avevano favorito e coadiuvato il governo usurpatore, e le sue operazioni sacrileghe, fossero rei di lesa maestà umana, e divina. Si incominciò a trattarli e giudicarli secondo questi principj, e se poteva continuarsi così la massa sociale non sarebbe ora tanto corrotta: ma i successivi trionfi della Francia arrestarono allora il corso della giustizia, e quando la rivoluzione è stata finalmente compressa, le massime sue corruttrici gli avevano preparato un asilo negli stessi gabinetti dei Principi avendoli persuasi della necessità del liberalismo, sicchè i delitti di oppinione vennero ravvisati meritevoli del più largo compatimento, e non essendosi schiacciata la testa del mostro che si era soggiogato gli si è dato campo di sollevarsi a nuove rovine.
Il marchese Mosca per verità non era reo di stato perchè niente aveva contribuito alla usurpazione del Governo, e quantunque facesse male ad accettarne alcuni impieghi, li aveva esercitati onoratamente senza offesa della religione, del Capo e della Patria. Nulladimeno gli inimici suoi ne presero forza a perseguitarlo, e tanto si maneggiarono che egli venne arrestato in Bologna, e di là condotto prigione nella fortezza di Pesaro. Corsi subito a vederlo avendo molto attaccamento per lui, e gli offerii di adoperarmi per liberarlo da quelle angustie, ma egli mi rispose da uomo generoso che sentendosi innocente voleva dovere la propria libertà alle risultanze del processo, e non alle raccomandazioni degli amici. Però quanto meno riusciva di trovarlo colpevole, tanto più gli avversarii differivano il disbrigo della sua causa per avere almeno la sodisfazione di straziarlo più lungamente, sicchè stancato alfine di quella prigionia che la sua mala salute gli rendeva molesta maggiormente mi scrisse pregandomi di adoperarmi per lui. Andai subito in Ancona e ottenni che il commissario Cavallar ordinasse ai giudici di Pesaro di ultimare e spedire senza altri ritardi il processo, il quale tardò ancora un poco ma in fine, sollecitato con ordini pressantissimi, arrivò. Lo ebbi tosto in mano per preparare una difesa ma era così riboccante di malignità scoperta, e le accuse erano tanto puerili e ridicole da non meritare l’onore di una confutazione, poichè quando anche si fossero tutte provate non restava luogo alla più lieve punizione. Basti dire che i delitti più gravi del mio zio consistevano nell’avere imprestato il luoco per cucinare ai Generali republicani, nell’essere stato in fenestra quando atterravano le Armi del Papa, e nell’avere anch’esso consegnate alcune vecchie pergamene per abbruciarsi insieme con altri monumenti della aristocrazia. Cavallar conobbe che il mio zio veniva perseguitato, ma siccome l’arresto era seguìto in Bologna dove comandava come Commissario Imperiale un certo sig. Pellegrini più bravo, e più stimato di lui, volle scrivergli per averne il parere, e quasi domandargli tacitamente il permesso di liberarlo. Pellegrini non rispose, ed io mi misi attorno al Cavallar rappresentandogli l’ingiustizia che usava al marchese Mosca, tenendolo in prigione senza colpa, il torto che faceva a sè stesso sottomettendo ad un suo eguale l’esercizio delle proprie attribuzioni, e soggiungendogli altre ragioni ora non so quali, basta che una matina ne ottenni un ordine di liberarlo diretto al Magistrato di Pesaro, rendendomi bensì mallevadore in scritto che il marchese Mosca si sarebbe presentato ad ogni richiesta. Mentre quest’ordine si scriveva stetti bene attento per tenerlo a mente, sicchè ne feci una copia, e spedii subito a Pesaro per le poste un mio cocchiere con l’ordine sigillato, e con la copia. Questa riuscì bene opportuna, perchè il Magistrato, ostinato a strapazzare il povero Mosca, simulò che l’ordine non fosse chiaro, e fece dirgli di scegliere in qual casa o convento bramava di essere detenuto, ma quegli con la mia copia in mano si fece forte, sicchè il Magistrato confessando goffamente di avere letta male la lettera lo mise in piena libertà. Tanto sono ostinati gli odj civili, ma per ciò appunto bisogna evitarli prudentemente tenendosi in buona amicizia con tutti, e cole da non meritare l’onore di una confutazione, poichè quando anche si fossero tutte provate non restava luogo alla più lieve punizione. Basti dire che i delitti più gravi del mio zio consistevano nell’avere imprestato il luoco per cucinare ai Generali republicani, nell’essere stato in fenestra quando atterravano le Armi del Papa, e nell’avere anch’esso consegnate alcune vecchie pergamene per abbruciarsi insieme con altri monumenti della aristocrazia. Cavallar conobbe che il mio zio veniva perseguitato, ma siccome l’arresto era seguìto in Bologna dove comandava come Commissario Imperiale un certo sig. Pellegrini più bravo, e più stimato di lui, volle scrivergli per averne il parere, e quasi domandargli tacitamente il permesso di liberarlo. Pellegrini non rispose, ed io mi misi attorno al Cavallar rappresentandogli l’ingiustizia che usava al marchese Mosca, tenendolo in prigione senza colpa, il torto che faceva a sè stesso sottomettendo ad un suo eguale l’esercizio delle proprie attribuzioni, e soggiungendogli altre ragioni ora non so quali, basta che una matina ne ottenni un ordine di liberarlo diretto al Magistrato di Pesaro, rendendomi bensì mallevadore in scritto che il marchese Mosca si sarebbe presentato ad ogni richiesta. Mentre quest’ordine si scriveva stetti bene attento per tenerlo a mente, sicchè ne feci una copia, e spedii subito a Pesaro per le poste un mio cocchiere con l’ordine sigillato, e con la copia. Questa riuscì bene opportuna, perchè il Magistrato, ostinato a strapazzare il povero Mosca, simulò che l’ordine non fosse chiaro, e fece dirgli di scegliere in qual casa o convento bramava di essere detenuto, ma quegli con la mia copia in mano si fece forte, sicchè il Magistrato confessando goffamente di avere letta male la lettera lo mise in piena libertà. Tanto sono ostinati gli odj civili, ma per ciò appunto bisogna evitarli prudentemente tenendosi in buona amicizia con tutti, e in qualche incontro ancorchè si abbia ragione. Nessun bene compensa la pace, e un piccolo insetto può arrecarci qualche volta molestie crudeli. Nell’anno seguente il marchese Mosca rinunziato il patrimonio ai figli si diede a servire il Regno italiano, e sostenute le Prefetture di Brescia e di Bologna morì nel 1811 in Milano Direttore e Ministro di polizia. Ancorchè in questi uffizii si conducesse da uomo di onore, avrei bramato che morisse in altro esercizio, e in verità sembrava nato a tutt’altro che a servire quel Governo, ma l’ambizione lo mise fuori di strada, e chi si mette a correre fuori di strada torna addietro difficilmente. Non può condannarsi chi procura di elevare se stesso con mezzi onorati, ma non tutte le altezze sono tali che vi possa sedere un galantuomo e un cristiano, e molte volte bisogna dire col santo Re «Elegi abiectus esse in domo Dei mei magis quam abitare in tabernaculis peccatorum».