< Avarchide
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Luigi Alamanni - Avarchide (XVI secolo)
Canto XII
Canto XI Canto XIII

 
Il dorato balcon dell’oriente,
poi che l’ultima tregua a fin venìa,
la sposa di Titon vaga e ridente
con le rosate mani al mondo aprìa.
L’impigro Seguran con poca gente
che più cara e miglior sempre il seguìa
all’albergo real del suo Clodasso
pien d’altero desio rivolge il passo.

Né molto doppo lui de i duci eletti
l’altra schiera onorata arriva insieme,
e ’n pubblico consiglio son ristretti
sopra il tempo passato e ch’or gli preme.
I cor vari fra lor fan vari effetti,
che l’un spera soverchio, e l’altro teme;
chi vorria sol guardar la patria terra,
chi di nuovo tentar più acerba guerra.

Fu il primo a ragionare il re Vagorre
qual più antico e più degno, e così disse:
“Saggio è il consigliator che sol ricorre
a quell’ultimo fin che in cor si fisse:
quel sol rimira, e tutto l’altro aborre
come al suo proprio danno consentisse;
e chi farà in tal guisa, raro fia
che d’incontrare il ver perda la via.

Da poi che volle il ciel che di Clodasso
in Brettagna primier fugato e rotto
fu l’oste allor nel Periglioso Passo
per la troppa virtù di Lancilotto,
di qua poscia dal mar di vita casso
più d’un suo figlio essendo, a tal ridotto
fu il nostro stato che di tanta guerra
ogni speranza è chiusa in questa terra;

la qual mentre sta in piè, si debbe avere
dell’altro ricovrar secura fede,
che non può lungamente sostenere
il numero infinito in questa sede
Arturo o Clodoveo, ch’han tante schiere
di sì varie nazioni: e già si vede
mancargli alcun ch’io sovra tutti esalto,
come il gran Lancilotto e Galealto:

perché passato è già più che ’l sest’anno
ch’a queste invitte mura sono intorno,
tanto che stanchi omai del lungo affanno
e dal gran faticar la notte e ’l giorno
si può sperar che senza nostro danno
tosto nel lor terren faccian ritorno,
che non più stimeran ch’al tempo addietro
i tentati ripari esser di vetro;

pur che senza provar novella sorte,
come a nostra rovina spesso avemo,
siano uniti i voler, chiuse le porte:
poi con cura maggior ci guarderemo,
e sprezzando il romor d’invitto e forte
che del proprio dever passi l’estremo
volgerem sol la cura e la fatica
a difender di noi la patria antica.

Or senza ricercar più gloria in vano
ma seguendo del ver l’istesso fine,
armiam solo al salvar la nostra mano
del sacro Avarco il nobile confine;
e poi che ’l gran nemico fia lontano
sovr’altre region de i suoi vicine,
ove non sia di noi sì gran periglio
ne potrà il tempo dar nuovo consiglio”.

Qui si tacque il buon vecchio, e si ripose
nel suo seggio reale onde levosse.
Al fero Seguran non si nascose
che per lui raffrenare il re si mosse;
pur con voce assai dolce gli rispose,
e quanto orgoglio avea dall’alma scosse
dicendo: “Al saggio dir del re Vagorre
non si può con ragion levar né porre;

che senza dubbio avere, intera apporta
la salute d’ogni uom guardare Avarco,
a cui basta il tener chiusa la porta
e difender di lui l’angusto varco
con sollecito studio e fida scorta,
e d’ogni altro desire andare scarco:
e come al segno fa l’accorto arciero
drizzar solo a quel fine ogni pensiero.

Ma questo al re Vagorre si conviene,
che nell’ultima età già muove il passo:
ma non a Seguran, che desio tiene
di lassarse in onore ogni uom più basso
e che in quella stagion con gli anni viene
ove il senno s’accresce e ’l valor lasso
non è dal tempo ancor, ma regnan l’ore
in cui più d’ambedue risplende il fiore.

Io non venni d’Avarco già in aita
con tanti cavalier dal regno iberno
né a Claudiana mia sempre gradita
con bel laccio d’amor mi cinsi eterno
per menar poi nascoso oscura vita
e degli antichi miei restare scherno:
i quai, fossi sprezzando, argini e muri,
sol della spada loro eran sicuri.

Senta io prima di me ’l cenere sparso
de’ venti in preda al tempestoso cielo
o da vil foco consumato et arso
da’ miei stessi nemici il mortal velo
che d’onor ricercar mi faccia scarso
d’altrui ricordo o di temenza gielo,
e ch’io non sia tenuto da ciascuno
degno erede fra lor del sangue Bruno.

E se ’l suocero mio con tutti voi
sol di guardar Avarco avea desire
né volea per valor d’alcun de’ suoi
in alcun tempo mai le porte aprire,
a che sì lunge in van richiamar noi
e tanti cavalier di tanto ardire?
Perch’assai men valore, assai men gente
a difendervi dentro era possente.

Ma per un sì gran re non basta solo
il suo seggio sovrano aver difeso
e tarpato al nemico l’ali e ’l volo
che nel vostro terreno avea già preso:
ma quel romor che l’uno e l’altro polo
delle vostre vittorie avea compreso
mantener vivo sì, che faccia fede
ch’all’estreme giornate anco non cede.

E chi ben peserà con dritta lance
quanto giove il mostrare ardito il core
in assedio cotal, non fole o ciance
stimerà il nostro andar sovente fuore
e le piastre smagliare e ’l romper lance
e ’l tenere i nemici in tal timore,
che con sicuro cor goder non ponno
il giorno il riposar, la notte il sonno.

Se voi restaste ognor dentro a quei fossi
e vi mostraste sol sopra le mura,
sarìan d’ogni sospetto gli altri scossi,
come i vostri ripien d’ogni paura:
che sempre han da viltà gli spirti mossi,
chi con la pruova assai non gli assicura,
quei che vengon novelli alla battaglia
né san l’arme d’altrui quel ch’ella vaglia.

Poi noi siam tanti duci insieme, e tali,
tanti gran cavalier di nome altero
ch’a tre volte più schiere di mortali
non devremmo d’un piè sciorre il sentiero.
Non fa il numero sol le forze eguali,
né di bramata palme arreca impero,
ma il gran senno, il valor, l’ardire e l’arte
di cui certo è fra noi più larga parte.

Non sia dal vostro dir dunque oggi tolta,
sacratissimo re, la chiara strada
a così gran virtù per voi raccolta
d’insanguinar talor la chiara spada
e diradar di quei la schiera folta
a cui il nostro morire e l’onta aggrada;
ma n’aprite il cammin di gire al cielo
dell’arbor cinti del signor di Delo”.

Detto ch’ebbe così, s’assise e tacque
l’invitto iberno, e surse Palamoro,
ch’al santonico mar non lunge nacque,
possente di terren, d’impero e d’oro,
di Clodasso parente, a cui già spiacque
veder le nozze che concesse foro
al fero Seguran di Claudiana
ch’era allor del suo cor donna e sovrana:

e sposata l’avrebbe, se non fusse
l’aspra necessità del vecchio padre
che per lei sola Segurano indusse
di venirlo a servir con le sue squadre.
Or così acerbamente a lui percusse
il cor l’invidia che dell’odio è madre,
che contra ogni opra sua, contra ogni detto
di nemico ad ognor mostrò l’effetto.

Surse dunque, e poi disse: “Io non saprei
condannar, Seguran, quel che voi dite,
che ’l valore e l’ardir de i sommi dei
grazie son sovra tutte alte e gradite,
e che sien fra i mortali i semidei
quei ch’ardore onorato all’arme invite
disprezzando del mondo ogni altra sorte
per la vita immortal comprar con morte;

ma dico ancor ch’ove il bisogno sprona
che si debba temprar l’arme e ’l desio,
che divin l’intelletto il ciel ne dona
perché scerner possiamo il dritto e ’l rio:
né quella opra medesma è sempre buona,
né per usarla ognor l’ha fatta Dio,
ma il modo, la cagione, il tempo e ’l loco
dan fede alla virtù tra ’l troppo e ’l poco.

Se noi siam per guardar la patria terra
e null’altro voler ne preme il core,
perché deviam con perigliosa guerra
cercare indi acquistar privato onore
e non aver de’ ben che ’n sen riserra
la dovuta per noi cura e timore,
che non vengano in man de’ nemici empi
le matrone, i figliuoli e i sacri tempi?

Se stimate voi sol, sì come è certo,
illustrissimo e ’nvitto cavaliero,
molti altri ancora et io di qualche merto
esser crediam nel pubblico pensiero:
ma perché conosciam chiaro et aperto
ove del dritto oprar giace il sentiero,
contenti ci chiamiam ch’oggi d’Avarco
solo a i Britanni e’ suoi si chiugga il varco.

Poi se ’l tempo darà volger la mente
in acquisto novel di sacro alloro,
forse non fien le man più pigre e lente
che del gran Seguran, di Palamoro:
ma mentre or la pietosa e inferma gente
che da noi spera sol pace e ristoro
in guardia avem, serriamo ogni altra cura
dentro a queste onorate e sacre mura;

e non si faccia in van tante chiare alme
di tanti alti guerrier nostri e lontani
lassar per terra le terrene salme
d’impurissimi corvi esca e di cani,
né col sangue di lor l’antiche palme
faccian qui rifiorir le vostre mani,
e per mostrarvi ardito alla battaglia
di perder i miglior poco vi caglia:

né date suspizion ch’essendo lunge
dalla vostra reale iberna sede
men ch’a noi più vicin tema vi punge
di lor veder degli avversari prede;
ma ch’al nostro desir tutto s’aggiunge
quel che portate in sen, ne faccian fede
il lassare ogni gloria, e ’ntender solo
che non possan sentir vergogna e duolo”.

Quando udì questo, il fero Segurano,
che d’attenderne il fin disposto avìa,
risponde: ““Adunque cor tanto inumano,
tanto pien di veleno al mondo fia
che pensar debba sol che per lontano
che dal mio regno proprio Avarco sia,
poi che venuto son d’esso in aita
mi possa esser men caro che la vita?

Non l’amor del terren dov’io son nato
più che la data fé trova in me loco,
la qual dee sol pregiar l’uomo onorato,
e tutt’altro appo lei recarse in gioco.
Or s’ogni altro ch’Avarco sia servato
scalda ardente desio, me fa di foco;
e fien le membra mie trofeo di morte
pria ch’io soffri vederlo in altra sorte.

E s’io non fossi tal, che pur il sono,
non ho dentro in Avarco il maggior pegno
che ne possa dal ciel venire in dono,
ch’avanza ogni tesoro, ogni altro regno?
Potrei por quella cosa in abbandono
ch’assai più che ’l mio cor gradita tegno
e per cercar, qual dite, gloria vana
lassare in sì gran rischio Claudiana?

Non è semplice onor quel che mi spinge
a così spesso andar con l’arme fuore,
ma il dever della guerra, che ne stringe
a frenar de i nemici il gran furore:
che di sì fero ardir talor si cinge,
che senza essergli opposto altro valore
di quel che pon mostrar le chiuse spade
mal secure sarien queste contrade.

E se molti ne son, come voi dite,
de’ nostri cavalier condotti a morte,
non han già più di noi dure le vite
gli aspri avversari, ch’all’istessa sorte
larghe schiere di lor volando gite
son per man nostra alle tartaree porte;
e mentre noi piangiamo i nostri danni,
non han cagion di riderne i Britanni.

Né men gente di lor né meno illustre
è, da poi ch’io ci son, venuta manco,
né vide questa terra ima e palustre
più il nostro ancor che ’l lor valore stanco:
e s’ei chi più d’ogni altro il nome illustre
trall’armorico stuolo, e ’l popol Franco
han Boorte e Tristan, ch’a nullo cede,
e noi Brunoro il Nero e Palamede,

che dall’Ebridi al nido dell’Aurora
de’ suoi chiari trofei colmò le strade:
alla cui gran virtù fu dato allora,
come si vede ancor, cinger due spade.
Or mentre tal guerrier fra noi dimora
chi vorrà contradir che le contrade
non sien secure del famoso Avarco,
e sia d’ogni timor Clodasso scarco?

Avem poi Marabon della Riviera
con Bustarino il grande e Terrigano,
del Fortunato ala persona fera,
il Selvaggio Rossan col pio Farano
e d’altri eguali a lor lodata schiera
che non prezza il Britanno o ’l Gallicano:
tal che a chi teme sol quel che si deve
il nostro guerreggiar non sarà greve”.

Così mentre fra lor con aspra lite
l’un l’altro in duri morsi riprendea,
già le schiere al prim’ordin riunite
Arturo inverso Avarco conducea:
tal che ’n voci tremanti ed impedite
Anfion pien di tema si vedea
arrivato gridar nel regio albergo
che gli armati nemici erano a tergo:

al cui tristo romor l’alto consiglio
senza nullo aspettar tosto è disciolto,
né alcun vi fu ch’al subito periglio
di gelato tremor non fusse avvolto.
Solo il gran Seguran con chiaro ciglio
e più ch’avesse ancor con lieto volto
disse: “Or perdiamo il tempo in nostre ciance
mentre i feri avversari opran le lance;

e si mostri qui dentro accorto e saggio
ciascuno al confortar l’ozio e la pace
mentre Arturo là fuori al suo vantaggio
quanto puote aspirando sprona e tace,
lieto d’aver sì debile paraggio
della nostra virtù, ch’a lui soggiace
non per forza minor, ma per la voglia
pigra oggi in noi, ch’ogni valore spoglia”.

Così dicendo ancor, ratto s’avventa
in guisa di pastor ch’all’ombra oscura
latrare il fido can non lunge senta
che delle gregge care abbia la cura.
Truova il misero stuol che si sgomenta,
vòto d’ogni sperar, pien di paura,
di vecchierelli infermi e femminelle
che in divoto pregar guardan le stelle;

poi rivolto ver lui gridan: “Signore,
or ne vaglia il valor che ’n voi si serra
sì che ne sgombre il periglioso orrore
dell’aspra, lunga e sanguinosa guerra”.
Rispond’ei lieto lor: “Vestite il core
della dolcezza ch’ogni duolo atterra,
securi di vedere il mio ritorno
di ricche palme de’ nemici adorno.

Pregate pure il ciel che non si mostri
più di quel che si soglia a noi nemico
né più consenta a gli avversari nostri
ch’a noi Fortuna il suo valore amico:
che tosto renderò d’Orone i chiostri
più che fossero ancor nel tempo antico
lieti e felici, e di quel sangue molli
per molti anni a venir fertili i colli”.

Così dicea passando, e poscia chiama,
che ’n contra gli venìa, Brunoro il Nero
e dice: “Or dove è or di tanta fama
degli altri cavalier lo stuolo altero?
Già non deve aspettar chi l’onor brama,
ove l’uopo è maggior, d’altrui l’impero,
ma presentarse tal, che dia cagione
più del morso adoprar che dello sprone”.

E ’n questa ivi arrivar vede Clodino
con Rossano e molti altri, e poi fra loro
minacciante splendea di ferro fino
con sembiante onorato Palamoro;
il qual tosto ch’a lui si fé vicino
grida: “Ecco, Seguran, ch’io non dimoro,
quando il bisogno vien, qual pigro e vile,
ma de i miglior guerrier seguo lo stile;

né fui veduto ancor tornare un passo
co’ miei levi cavai per tema alcuna,
né mai di guerreggiar mi vide lasso
caldo raggio di sol né algente luna:
se ben nel consigliare il mio Clodasso
temo in servigio suo l’aspra fortuna,
ch’omai condotto l’ave in grado tale
ch’ogni picciol cader saria mortale”.

Rise il pio Seguran dicendo: “Ascoso
non m’è ’l vostro valor, signor mio caro.
Or gite innanzi col drappel famoso
de i vostri cavalier d’onore avaro,
e spuntate al nemico l’orgoglioso
primo furore; e noi farem riparo
all’altro sì, che si porria pentire,
com’altra volta ancor, di troppo ardire”.

Così parlando, giunse alla gran porta
che va inverso i Britanni, e falla aprire.
Ivi i duci appellando, gli conforta
che dimostrin quel dì l’antico ardire;
manda appresso Clodin, poi che la scorta
vede di Palamoro innanzi gire,
e dietro a lui Verralto co i guerrieri
ch’avean l’arme più levi fra gli arcieri.

Nè da lui lunge il fero Palamede
co i suoi tutti dell’Ebridi era andato
ver le radici dove il colle assiede,
che ’l fiume scorge al suo sinistro lato;
et ei col resto, poi ch’ogni altro vede
al dovuto cammin bene inviato,
col numero maggiore il passo move
in più animoso cor ch’avesse altrove.

Già non molto lontan da quelle porte
il fero Palamoro e ’l suo Verralto
con Maligante aveano e con Boorte
principio dato all’onorato assalto;
e fu l’incontro lor tant’agro e forte,
che di cavalli ed arme il verde smalto
si vide ricovrirse, in quella guisa
che suol prato il villan dell’erba incisa.

E perché a tutti i suoi davanti giva
con lo scudo alto il cavalier di Gave,
fu dal buon Palamoro che veniva
ben conosciuto, che notizia n’ave.
Gli sprona incontra e furioso arriva,
e di colpo il ferì dannoso e grave
che ’l famosissimo elmo gli percosse
sì, che fuor del suo loco quasi il mosse;

né di men forza er’uopo al sostenerse
che quella del guerrier, ch’ogni altra passa.
Ma ilo destriero avversario non sofferse
il furor di Boorte, onde s’abbassa
sì, che convien che Palamor riverse
sopra il terren cadendo, e dietro il lassa
tra i cavai che venian, sì ch’e’ potea
levemente condurse a morte rea;

ma Calarto, che ’l segue, e Ferrandone
alla gente che vien col ferro in resta
d’amor carco ciascun ratto s’oppone,
sì che poco al varcar gli fu molesta;
poscia in nuovo corsier tosto il ripone
perché ’l vigor del suo tardo si desta:
poi tutti in un con l’altra schiera stretta
spronan con nuovo ardire alla vendetta.

Dall’altro lato ancor con Maligante
il medesmo Verralto fatto avìa,
ch’era sopra un destriero a gli altri avante
della schiera d’arcier ch’a piè il seguìa;
e l’uno e l’altro cavaliero errante
di forza e di bontà sì ben fiorìa
e sì pari in tra lor, ch’uniti insieme
l’uno e l’altro il terren cadendo preme;

e l’uno e l’altro nel medesmo punto
sciolto dal suo cavallo è in piè tornato,
e già col brando in man s’era raggiunto
per provar la sua sorte in altro stato:
se non che tosto d’ogni parte è giunto
lo stuol che gli seguìa, quantunque armato
in diversa maniera, ove si vede
l’un su’ levi destrieri, e l’altro a piede.

Ma questo a quel che sprona aperto il seno
mostra, dell’ordin suo fermando l’ali;
e come oltra è passato a sciolto freno
drizza intorno di lui gli aguti strali,
e di molti di quei bagna il terreno
pria che potersi a i colpi micidiali
volgersi in giro stretto e ’n breve spazio,
poi de i saettator far lungo strazio.

Or già con Palamede il buon Tristano
con più grave battaglia si ritruova:
piede a piede han congiunto e mano a mano
e scudo a scudo, con mirabil pruova;
spinge forte ciascun, ma spinge in vano,
ché nessuno è di lor che ’ndietro muova,
ma spesso questo e quel d’agute spade,
e chi d’aste percosso, a terra cade;

né prima è morto l’un, ch’al proprio loco
chi si truova vicin l’orma ristampa
e ’l terzo e ’l quarto poi, sì grave il foco
dell’onore e dell’ira i cori avvampa.
Ciascuno il suo morir si prende in gioco
e par mosso a pietà di chi ne scampa;
né si sente ivi voce di dolore
ma d’altere minacce e di furore.

Ma il famoso Tristano in quella parte
come leon famelico s’avventa;
a questo il braccio, a quel la fronte parte
e chi non può ferir, lunge spaventa.
Ovunque ei si rivolga spira Marte,
et ha già tanta gente intorno spenta
ch’a’ suoi colpi mortali è fatta incude,
che ’l gir più innanti a sé medesmo chiude.

Né men dall’altra parte Palamede
sopra i Franchi e i Britanni era feroce,
che larghissime d’essi manda prede
al gran nocchier della tartarea foce;
né di ardente valore al Gallo cede
né di lui men tra gli avversari nuoce,
ma sì ben opra anch’ei l’altera spada
che di morti coprìa l’istessa strada.

Né il re Lago e Gaven, che ’ntorno vanno
al fero Segurano e ’l re Brunoro,
facean di lor men sanguinoso danno
che quelli e che Clodin faccian de’ loro:
perché in fronte a ciascun di pari stanno
l’aspro cipresso e ’l trionfale alloro,
e con forza sì egual l’un l’altro preme
ch’ogni uom senza timor si cinge e speme.

Or quanto il sol rotando in alto sale
ch’ancor non scalda il giovinetto giorno,
tenne sempre fra lor lo stato eguale
quella dea che cangiando gira attorno;
ma poi ch’al mezzo dì spiegando l’ale
fa inverso l’ocean Febo ritorno,
prese la lance in mano ond’ella suole
librando andar quel che in futuro vuole;

e le sorti d’Arturo e di Clodasso
nelle pendenti sedi riponea.
Poscia alzandole par cadere in basso
chi reggeva i Britanni si scorgea,
l’altra volger in su l’altero passo
che allor quella d’Avarco sostenea:
tal che sentenza diè che in essa guerra
quelli andassero al ciel, questi sotterra.

E con aperti segni dimostrosse,
che in un momento solo intorno il cielo
s’empiéo d’oscure nubi, e ’n lui turbosse
la fronte chiara del signor di Delo.
Tre volte sotto i piè mugendo scosse
la terra in giro il suo frondoso velo,
tal di timor empiendo quei d’Arturo
che nessun della morte iva securo;

e ’l re medesmo il primo sbigottito,
senza intender di che, quasi fuggìa.
Tristan, ch’è troppo a dir, sembra smarrito,
né del suo gran valor truova la via;
Boorte e Maligante in altro lito
sommersi stan dalla temenza ria:
il popol fugge tutto, e non s’arresta,
come suole alcion l’atra tempesta.

Solo il buon re dell’Orcadi rimaso
era senza fuggir tra quelle schiere,
perché Faran per suo maligno caso
con lo strale il corsier gli fé cadere:
ch’ove allarga la fronte sopra il naso,
benché possa gran colpo sostenere,
il ferì sì, che morto cade a terra
e ’l suo vecchio signor sotto si serra;

e restava lì anciso o prigioniero,
perché di Seguran la schiera arriva.
Ma il suo chiaro Boorte in atto fero
chiama altamente sì, ch’ogni uomo udiva:
“Chi porta in petto cuor di cavaliero
e ch’abbia di disnor l’anima schiva
venga a scampar dall’avversarie squadre
del studio militar l’antico padre.

Tornate indietro, o chiaro Maligante,
ch’un sì onorato re non giunga a morte
senza soccorso avere, a gli occhi innante
d’un guerrier come voi famoso e forte,
e che del nome pio fu sempre amante
e per quel mantener sprezza ogni sorte
che può dura avvenir, sì come mostra
in mille region la gloria vostra”.

Così dicea Boorte, ma sorpreso
di sì oscuro timore era il buon duce
che senza il suo ricordo avere inteso
verso il vallo del campo si conduce:
ond’ei soletto il ratto corso ha steso
nel suo soccorso, e qual amica luce
dalle tenebre oscure ond’è sepolto
con la presenza sol l’ha tutto sciolto,

e ’n dolce ragionar diceva: “Tema
non stringa il gran rettor del freddo sito
che la nemica forza il vinca o prema
ove Boorte suo non sia impedito:
ch’o l’accompagnerà nell’ora estrema
o il trarrà scarco di salute al lito”.
E ’n tai parole del destriero scende
e con le braccia poi nel mezzo il prende,

e del morto caval disotto il tira
e sopra un altro il pon ch’ivi ha de’ suoi.
Né ben fermo era ancor, quando rimira
larga schiera venir sopra ambeduoi.
Ponsi dietro il gran vecchio e si rigira
verso i nemici, ed a lui dice: “Voi,
nobilissimo re, tornate il passo
dal passato cader percosso e lasso

verso il campo de’ nostri, e non vogliate
in periglio maggior di nuovo entrare:
che ’l valor primo e la presente etate
vi pon gloria apportar, non che scusare;
e vedete in ver noi le stelle irate
tòrne la virtù antica e minacciare,
che a più giovin di voi, di più vigore,
di divina temenza han pieno il core:

né vogliate a i nemici eterna gloria
dar con vostro gran danno o vostra morte,
et a noi, quanti semo, estrema noia
più ch’altra ch’avvenir mai possa forte.
Me col giovin stuol che viva o muoia
par ch’al pubblico ben non molto importe,
lassate pruova far s’oggi il ciel vuole
far che questo ne sia l’ultimo sole”.

E ’n tal modo pregando, rimontato,
che nuova asta e caval gli diè Gaveno,
ove vien Seguran s’è rivoltato,
che d’aver quel gran re di speme è pieno.
Con la lancia l’incontra, e ’l destro lato,
ove scudo non è, percuote a pieno
sì che sentir potea che la percossa
uscìa da cavalier di estrema possa.

Né con forza minor da lui riceve
aspro e duro ferir, ma nello scudo:
ch’oltre avrìa trapassato, in modo è greve,
se l’omero di quel trovava ignudo.
L’uno e l’altro caval veloce e leve.
qual saettato stral da braccio crudo,
già scorso è innanzi, mentre vanno in alto
d’ambe l’aste i troncon rotti all’assalto.

Non posson ritentar battaglia nuova
né rivolger indietro i lor destrieri,
ché ciascuno intricato si ritruova
tra i pedon che seguiano e i cavalieri.
Va innanzi Seguran facendo pruova
in tra i miglior dell’Orcadi guerrieri
s’ei potesse arrivare il buon re Lago,
ma più d’onor che di sua morte vago;

che sovra ogni altra palma avria gradita
il poter lui menar seco in Avarco.
Che gli parrìa d’aver la strada trita
per far Clodasso d’ogni affanno scarco.
Ma la speranza sua venne fallita
dal fero Lionel, che chiude il varco
al suo correr veloce e ’ncontra sprona
e col brando fatal l’elmo gl’intuona:

sì che forza gli fu fermare il passo
e risponder a lui ch’ancor seguìa.
E la seconda volta scende in basso
l’istesso colpo alla medesma via:
e del suo gran valor restato casso
forse che ’l fero Iberno ne sarìa,
se non che ’l raddoppiar ch’ultimo venne
con lo scudo dal capo alto sostenne.

Allor come leon, ch’al toro è presso
onde spera bramar la fame acerba,
che ’mpedito dal can si volge ad esso
e ’n lui la cruda voglia disacerba:
che col morso e co l’unghia il tiene oppresso,
riversato aspramente sopra l’erba;
rivolto a Lionel l’omer gli fere
e ’l destro braccio a terra fea cadere:

se non era sì forte il fino acciaro
che la spalla in quel loco a guardia avea
ch’all’andar molto adentro fé riparo;
ma con tanto furor la spada aggreva
che per l’aspro dolor ch’ei sente amaro
va in basso il braccio, e tardi si rileva:
sì ch’avea Seguran commoda sorte
di poterlo condurre in breve a morte.

Ma il cugin suo Beven, ch’era vicino,
come madre al figliuol subito accorre,
e tal l’altro ferì, ch’a capo chino
restar il fa senza lo spirto accorre.
Or Lionel, biasmando il suo destino
e lodando il guerrier che lui soccorre,
già riprende vigore, e ’l braccio alzando
può, come fusse mai, stringere il brando;

e va in ver Seguran, che già svegliato
dal colpo ch’al dormir l’ha persuaso
contr’essi sprona di furore armato
e di vergogna pien del duro caso:
tal ch’o di sé adempiea l’ultimo fato
o di lor vincitor saria rimaso;
se dal popol suo proprio ivi condotto
non fosse il pensier suo stato interrotto,

ché sì ratta venia la schiera iberna
dietro al duce maggior vittorioso
che non par che dagli altri i suoi discerna,
fermando l’occhio sol nel loco odioso;
in guisa d’Aquilon quando più verna,
poi che ’l mondo imbrunì l’Austro piovoso,
che lui scacciando e l’atre nubi intorno
rende in aspro soffiar la luce al giorno.

E così quella urtando lui trasporta
e co i nemici insieme innanzi spinge
ov’altamente della gente morta
il terreno arenoso si dipinge;
e nessun più ritien, nessun conforta
i Franchi afflitti, anzi ciascun s’accinge
spaventato dal cielo al ratto corso
nell’aperto fuggir largando il morso.

Ma il famoso Boorte, che lontano
fu da i molti avversari ritenuto
dell’orme seguitar di Segurano
e di dar al buon re più largo aiuto,
opra al fin sì con la possente mano
ch’al loco onde partisse rivenuto
il trova ancor che nella stretta calca
il pensier dall’oprar molto diffalca;

e quantunque Baveno e Lionello
e molti altri guerrier gli sieno a lato,
no ’l posson ben dal popolo rubello
condur fra loro in più sicuro stato:
ma gli va interrompendo or questo or quello
ch’or scampa or cade, come apporta il fato;
e serrata gli han sì ciascuna via
che di scorta maggior mestiero avia.

Così convien che la seconda volta
gli sia salute il cavalier di Gave:
il quale aprendo omai la gente folta
col brando micidial che gli era chiave
diceva altero, ove l’iberno ascolta:
“Non potrà sovra noi rovina grave
cader, famoso re più d’altro degno,
mentre che questa man vi sia sostegno”.

“Ah” - disse Seguran, - “non sarà forse
sì ver come pensate il vostro dire,
e tosto si vedrà se ’l ciel vi porse
assai più del poter largo l’ardire”.
Così parlando e minacciando corse
ove il chiaro guerrier vedea venire;
ma condusse in fra lor suo fato reo
il figliuol di Tersite Eniopeo:

il qual colse alla cima della testa,
e ’n fin vicino al collo la divise.
così tra i due guerrieri in terra resta
chi sovra il suo potere oltra si mise,
di sangue e di cervel la sopravesta
tutta e l’elmo dipinto in triste guise;
e con l’arme sonando su ’l sentiero
lassò vòto di sé l’alto corsiero.

Allor verso l’Iberno si ristringe,
ove il suo caro amico era caduto,
il fer Boorte, e con tal forza spinge
che potea vendicare il danno avuto:
ma mentre ch’all’oprar presto s’accinge
dal fuggitivo stuol vede abbattuto
il bel disegno suo dell’aspra guerra,
che ’l toglie a Segurano e ’ntorno il serra;

perchìogni cavaliero, ogni altro a piede
che davanti di lui fosse o dal lato
cinto d’alto timore indietro riede
senz’ordine servare spaventato:
non men che l’uomo a cui non lunge fiede
folgore ardente, che in dubbioso stato
si trova il cor se resti morto o vivo,
di senso e di ragion turbato e privo.

E con l’Orcado insieme indi il trasporta,
non ascoltando sua né d’altro duce
minaccia acerba o detto che ’l conforta
all’accesa servar d’onor la luce;
ma senza orecchia o lingua ha sola scorta
il timor disusato che ’l conduce,
e come aspro torrente arbori e legni,
tragge a forza con lui questi più degni.

Qual mansueto bue ch’al caldo giorno
con l’aratro il terren quieto fende
che sentendosi a gli occhi andare intorno
il violento asilo che l’offende,
l’usata obbedienza prende a scorno
e ’l bifolco obliando il corso stende
e con ratto furor doppo le spalle
il gran monte si lascia, e l’ampia valle;

tal faceano i Britanni, i Galli e i Franchi
di celeste tremor percossi il seno,
le labbia e i volti scoloriti e bianchi,
de i maggiori sprezzando il giusto freno.
Or poi che fur di richiamarli stanchi
e che ’l ratto fuggir non venìa meno,
ragionava a Boorte il buon re Lago:
“Io del voler di Dio, figlio, m’appago;

e ben folle saria chi contrastare
con suo danno e disnor volesse a lui.
Oggi vuole a i nemici il pregio dare
che darà forse qualche giorno a nui:
cediamo al tempo che ne può sforzare,
e per or seguitiam gli errori altrui,
e sol riguardo aviam che questo male
mal curato per noi non sia mortale”.

Disse Boorte allor: “Padre famoso,
ben veggio il vostro dir verace e chiaro;
ma troppo al core in arme valoroso
sembra il fuggir più che ’l morire amaro.
Che dirà Seguran vittorioso
che d’ogni nostro biasmo è fatto avaro?
come dolce gli fia di poter dire:
- Anco il nostro Boorte fei fuggire? -”

Allora il saggio re gli rispondea:
“Se ’l fero Seguran di questo vanto
si vorrà ornar con la menzogna rea
non gli sarà creduto tanto o quanto
da qualla grande schiera ch’io vedea
l’altr’ier versarse in lamentevol pianto
di donne e di donzelle che per voi
è senza sposi, figli e fratei suoi”.

E così ragionando, il piè ritira
l’uno e l’altro de i due con gli altri insieme
verso i fossi del campo, e non rimira
chi di dietro il cammin correndo preme.
Ivi la turba rigida, ch’aspira
alla morte di quei, d’intorno freme,
e con aste lontan, dardi e saette
fan de i passati lor larghe vendette.

Ma il fero Seguran chiamando grida:
“Dunque fuggite voi chiaro Boorte?
Ov’è l’alto valor ch’oggi s’annida
dentro l’animo vostro altero e forte?
E perché come suole, or non si fida
nell’arme che gli fur sì amiche scorte
in tanti luoghi già? Perch’or s’addorme
e d’un sol Seguran paventa l’orme?

Quando il guerrier di Gave ode il parlare
dell’orgoglioso Iberno, muor di duolo,
e ’l caval gira indietro, e vuol tornare:
ma il trasporta, mal grado, il folto stuolo.
Tre volte tenta in van quello sforzare
e tre volte da lui gli è tolto il volo;
e condotto è nel fin dall’altrui possa
ove il campo cingea l’ultima fossa.

Ivi d’alto timor venìa ricinta
la torma de i cavai tutta fuggendo,
ch’altrui sospinge ed è d’altrui sospinta,
con ordine intricato e suono orrendo.
Dietro a lei ratta vien di doglia avvinta
l’altra gente pedestre, e angusta essendo
la porta ch’al fuggir facea le strade
l’un sopra l’altro riversato cade.

Lì dimora Boorte, che ritruova
non lunge a lei l’Armorico Tristano
che di fargli voltar face ogni pruova,
ma tutto il suo sforzar ritorna vano:
che ’l confortare o minacciar non giova
né l’oprar verso lei cruda la mano,
ché sì cieco è ’l timor, ch’a certa morte
vuol più tosto cader ch’a dubbia sorte.

Ma poi ch’altro non può, tutto sostiene
de’ nemici il furor, mentre ogni schiera
ad una ad una in sicurtà perviene,
invidia avendo a chi v’andò primiera.
Lionello e Baven, che seco viene,
oprano ancor con lui, che poca pèra
della gente scacciata, e col piè fermo,
e con l’armata man le fanno schermo.

Così questi famosi cavalieri
quai quattro ferocissimi molossi
ivi apparian, che serrino i sentieri
a’ lupi in tra le gregge a ferir mossi:
ch’or van mordendo innanzi arditi e feri,
or di lor seggio e di potere scossi
tornansi indietro, e fanno alti romori
risvegliando i vicini e i lor pastori.

Ma il crudo Seguran chiamando i suoi
quanto può maggiormente intorno suona:
“Graditi miei guerrieri e sacri eroi,
non perdiamo il favor che ’l ciel ne dona.
Or non sentite, or non vedete voi
come all’aspra fortuna s’abbandona
ogni duce miglior ch’hanno i nemici
contr’a l’arme d’Avarco vincitrici?

Or non lassiamo indarno trapassare
la bella occasion che ’l crin ne mostra,
che non sentiam con danno poi biasmare
il voler lento e la pigrezza nostra.
Leve ed agevol fia d’oltra varcare,
se vorrete spiegar la virtù vostra,
quei fossi angusti e mal difese valli
a i nostri velocissimi cavalli.

Or è il tempo a mostrar che desiate
sopra ogni regno umano eterna gloria,
ché la patria v’è cara, e d’essa amate
libertà, sicurtà, pace e memoria,
e cinto tutto di gran palme aurate
il fabbricarvi un tempio alla Vittoria
ove si leggan poi mille e mill’anni
i larghi nostri onori e gli altrui danni.

Ma duro è l’indugiar, che ’l tempo vola
ch’a lor toglie il timore, a noi la speme:
ch’un volger d’occhio, una parola sola
spesso quello assicura, e questa preme.
La fortuna si cangia, e ’l cielo invola
sovente il frutto onde fu amico al seme,
che l’una e l’altro contr’a quei si sdegna
nel cui gelato cor tardanza regna”.

Poi volto al suo destrier, diceva: “Etone
sopra cui tante spoglie riportai,
or di mostrar fierezza hai ben cagione,
se per altra stagion l’avesti mai.
Non aspettar puntura di mio sprone,
e solo il confortar ti muova assai;
e non ti sopravegna aspro letargo
come venne l’altr’ier, lasso, a Podargo:

il qual per giusta pena ho giuramento
non cinger d’arme al termine d’un mese,
ma di lassarlo star tra ’l vile armento,
cinto d’abbietta corda, in rozzo arnese;
e di dare a te il pregio oggi consento,
di quanti uscir del betico paese
di destrezza, d’ardir, d’arte e di possa,
s’oltra mi porterai di quella fossa.

E da poi che qui avrem compìto e vinto
questo giorno fatal, sì com’io spero,
sempre di culto fien ti vedrai cinto
l’albergo chiaro e ’l tuo presepio altero,
ove in vago lavor sarà dipinto
il tuo sommo valor degno d’impero
sopra quanti ha destrieri in altra parte;
né s’opporrà al mio dire Apollo o Marte”.

Così dicendo, il drizza al destro lato
del fosso ch’alla porta era vicino,
lontano alquanto ove Tristano armato
difeso a suo poter tiene il confino.
Il fer caval, come s’e’ fosse alato,
con acceso desio prende il cammino,
e quanti incontra nella turba stretta
l’un sovra l’altro riversati getta.

Ivi un monte mischiato si vedìa
di cavai traversati e gente a piede;
chi già morto era in tutto e chi languìa,
chi si lassa oppressar, chi cangia sede:
quel chiama aita, e quel la bocca aprìa,
ma lo spirito fral l’aria non fiede:
ancor muove la spada e spira a guerra.

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