< Avarchide
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Luigi Alamanni - Avarchide (XVI secolo)
Canto XIII
Canto XII Canto XIV

 
L’animoso Tristan dove più vede
de’ suoi, ch’oppressi son, grave il periglio,
con quei che ’ntorno aveva ivi provvede
e tien pronta la man, l’occhio e ’l consiglio:
talor sospinge innanzi e talor cede
poi che ’l brando de i lor fece vermiglio;
e tanto oprando va ch’a poco a poco
ove securi sien gli scorge al loco;

e ben ch’aggia Baven, benché Boorte
e molti altri famosi cavalieri,
non può impedir che per l’istesse porte
onde entravan fuggendo i suoi guerrieri
molti con lor delle nemiche scorte
aspramente mischiati arditi e feri
non gli seguisser dentro, e tali e tanti
che poteano addoppiar gli andati pianti.

Ma il fero Seguran, che allor si sdegna
di stampar il sentier per molti aperto,
in man prendendo una purpurea insegna
sprona Eton nel cammin più stretto ed erto:
passa il fosso d’un salto, e l’argin segna
ove dal chiuso vallo è più coperto;
ma con l’urto medesmo il getta a terra
e s’arma sol contra infiniti a guerra.

Nel cui primo apparir, non altrimente
fugge il Britanno popol da quel lato
che suol la greggia vil che vede e sente
nella mandra arrivar lupo affamato;
e ’l grande Iberno, di desire ardente
d’adempir di costor l’ultimo fato,
quanto più saldo può fra loro sprona
e con gravi minacce alto ragiona:

“Or tornatevi indietro, o femminelle,
a ritrovar per voi più degno loco
di là dal mare, ove l’amiche stelle
v’inchinano all’amore, all’ozio, al gioco;
et a noi d’ogni pace alme rubelle
lassate in preda gir di Marte il foco
che ne scalda dì e notte, e ne sospinge
ove largo il terren di voi si pinge.

Chi v’ha condotto, o popolo infelice,
senza aver mai d’Avarco avuto offese,
nella sua strana gallica pendice,
lassando (o stolto) il bel natìo paese,
a certissima morte, ove non lice
mai de’ vostri sperar nuove diffese,
e contro alle nostr’armi, folli, opporvi
per esca rimaner tra cani e corvi?

Duolmi certo di voi - ché non lontano
è da’ vostri confini il lito Iberno -
qui veder per desio fragile e vano
condur miseramente in pianto e scherno:
seguendo tal, ch’oltra lo stato umano
ricercando fra noi lo scettro eterno
tien la cura di voi che si terrìa
dell’armento più vil ch’al mondo sia”.

E così ragionando, con la spada
non eguale al suo dir mostra pietate,
che quanto può di morti empie la strada,
e l’arene ha per tutto insanguinate.
Non si truova più alcun che innanzi vada,
e già tutti han le fosse abbandonate
che cingevan la parte verso Avarco,
sì che aperto riman del campo il varco;

se non che il buon Tristan pure e Boorte
con quei pochi guerrier che seco stanno
dal fuggirse ciascun, dal sonar morte
senton vicino il cominciato danno.
Consegnate a Baven le chiuse porte,
come aquila e falcon volando vanno
cui l’orecchia intonò de’ figli il grido
per la serpe mortal ch’assalta il nido;

né molto andati son tra ’l popol loro
che temendo fuggia, ch’han ritrovato
il fero Seguran che già Brunoro,
ma per altro cammin, si trova a lato,
e gran numero ancor segue costoro
del drappel de’ migliori e più pregiato.
Ma tutti all’arrivar di questi duoi
pongon freno al furor de i passi suoi.

Tristan a Seguran fu greve intoppo,
che col grave corsiero il petto trova
del forte Eton sì che gli parve troppo,
e per la forza inusitata e nova
convien che arresti e dia fine al galoppo,
a cui l’esser armato a molto giova:
che s’avesse scampata la caduta
non rimanea secur d’aspra feruta.

Or restati ambedue nel mezzo corso,
senza crollarse pur ferman le piante;
poi ’l famoso Tristan, qual ferito orso
che il duro percussor si veggia innante
svegliando il suo con duro sprone e morso,
al fer d’Ibernia cavaliero errante
trovò lo scudo, in sì mirabil forza
che ’l fende in mezzo come frale scorza:

e non tanto però che come intero
non gli servisse ancora in quella guerra.
Ma non senza vendetta il colpo fero
offese Seguran, che ’l brando serra
sopra l’ornato suo vago cimiero;
e quanto ne trovò fa gire a terra,
che fur duo terzi almen; l’altro rimaso
a gran pena scampò dal duro caso.

Già l’uno e l’altro a seguitar s’appresta,
et era sanguinosa la battaglia:
ma la turba d’Avarco vien molesta
e fa che ’l faticar poco gli vaglia,
che la spada d’entrambi a ferir presta
fa che in alto vibrando indarno saglia,
ché, come furiando entrò fra loro,
d’assai spazio lontan divisi foro.

Il medesmo a Boorte era avvenuto
col fer Brunoro, che ferito avìa
e dal destro braccial tutto abbattuto
il cerchio suo che ’l gomito copria,
et ei dall’altro in fronte ricevuto
sopra il fort’elmo egual percossa ria;
sì che non potea dir d’avere offeso
chi ben suo dritto non avea difeso.

Ma parimente a lor fu forza allora
di lassarse portar dal corso altrui,
che in tal modo rinforza in poco d’ora
che con gran faticar ponno ambedui
salvar l’istessa vita, ed uscir fuora
del popol folto e degli artigli sui,
che s’era a i buon guerrieri in guisa avvolto
ch’ogni chiaro valor riman sepolto.

Or quei come leon che ’ntorno cinti
si ritruovin tra reti e cacciatori
ove soverchio ardir li avea sospinti
per lunga fame che del bosco fuori
bramosi trasse a nuova preda accinti
senza curar per lei cani o pastori,
il gran numer de’ quai cresciuto troppo
ha il primo disegnar renduto zoppo,

tal che posto in disparte ogni altra voglia
solo allo scampo suo volgon la mente,
e dove men la turba si raccoglia
addrizzan quanto pon l’artiglio e ’l dente:
e mentre questo e quel la vita spoglia
con orrendo furor fra gente e gente,
già vinto in parte il cominciato assalto,
quanti in giro han lacciuoi passan d’un salto;

così il chiaro Tristan, così Boorte,
che troppa a forza umana trovan possa,
già temendo de’ suoi l’ultima sorte
poi che i nemici lor varcan la fossa
d’indi ritrarre il piè cercan le porte,
già d’ogni altro sperar la mente scossa:
e congiunte ambedue, per altro verso
del popol che venìa vanno a traverso,

e tanti dello stuolo a morte danno
che no ’l porrìa contar voce terrena.
Ma di quei più famosi e di più danno
avea posto Tristan sopra l’arena
l’Iberno Peristeo, che quei che stanno
dentro all’Ultonia con lo scettro affrena:
che ’l passò d’una punta ove il palato
sopra il fin della lingua è riversato.

Doppo il qual sopra l’elmo Brioneo,
che del gran Segurano era scudiero,
con la spada percosso cader feo,
dipartita la fronte, su ’l sentiero:
né men di quello il forte Lilibeo
che sovra la Laginia aveva impero,
di percossa mortal nel lato manco
mandò in man di Pluton gelato e bianco.

Archettolemo poi Boorte truova
che gli vuole impedir, misero, il passo:
ma l’alta nobiltà nulla gli giova,
ch’era di Seguran poco più basso,
che l’arme gli passò d’antica pruova,
onde cadde il meschin di vita casso,
passato in tutto ove congiunto il petto
tiene il suo seggio il core ascoso e stretto.

Doppo ’l qual per sua sorte incontra Atora,
che di Momonia ricca aveva il regno,
che ’l largo fosso trapassava allora
e gli par d’alta gloria esser al segno:
così fortuna alla medesim’ora
d’aspra morte e d’onore il rendeo degno,
che gli fece ampia strada nella gola,
onde l’alma fuggendo in alto vola.

E ’n tal modo abbattendo or questo or quello
l’illustrissima coppia in dietro riede,
e districata dallo stuol rubello
corre veloce dove Arturo vede,
che ’ntorno solo avea picciol drappello
di quei di più valore e di più fede:
ché di quanti altri son, la maggior parte
smarrito ha per timor la forza e l’arte.

Nel core allor si rasserena alquanto,
i due veggendo che più d’altri stima:
e gli occhi oppressi da sdegnoso pianto
dice: “Or son io d’ogni miseria in cima,
or l’empio Seguran verace il vanto
si potrà dar, come già falso in prima,
ch’ei d’ogni dubbio sol trarria Clodasso,
e ’l Britannico onor porrebbe in basso.

Ma il tempo altro chied’or che lamentarse:
però vi prego il pondo sostegnate
con questi pochi ch’han le forze scarse,
se dal vostro valor non son alzate:
et io men vo dove nascose e sparse
son l’altre nostre genti spaventate,
e vedrò con minacce e con preghiere
di rispingerle fuor con le sue schiere”.

E così ragionando, ratto prende
la bianca insegna sua dall’altrui mano,
e dove è il padiglione il passo stende
di Maligante a tutti prossimano,
ché in mezzo assiede, e lui securo rende
quel del buon Lancilotto e di Tristano,
che quai d’ardire e di virtude amici
volser la sede aver presso a i nemici.

Ivi adunque il gran re con chiare grida
chiamando i capitani alto dicea:
“Ov’è ’l primo valor che ’n voi s’annida,
che sprezzar suole ogni fortuna rea?
Or nell’albergo ascoso si rifida
e la pigrizia vil tien per idea?
Ove gite son or di tutti quanti
le ventose promesse e i falsi vanti

ch’allor che fummo all’isola di Vetta,
di coro o d’aquilon chiamando il fiato,
udiva a mensa far, tenendo stretta
la man con Bacco al suo liquaore amato?
Ché minacciava ogni uomo aspra vendetta
sopra ’l popol d’Avarco, ove arrivato
fosse di Gallia al desiato loco,
e d’accender ivi entro eterno il foco;

e che ciascun di voi sarebbe a cento
et anco a più di quei di forza pare.
Ma create dal vin le portò il vento,
e le spense da poi l’ondoso mare:
ch’ora a quel ch’io ne veggio, a quel ch’io sento,
del vostro dir tutto il contrario appare,
e ch’oggi in questa misera battaglia
più che mille di voi l’un d’essi vaglia”.

Poi con più dolci note, Maligante,
ch’è già corso al suo dir, prega e conforta:
“Or non volete voi spingere avante
con la vostra onorata e fida scorta
ch’a nessuna iva dietro a molte innante,
et or par ch’a viltade apra la porta?
Torni quel core in voi ch’io sempre vidi
splender intra i più arditi e ’ntra i più fidi;

e ve ’n gite volando ove Tristano
e Boorte illustrissimo lassai,
che mantengon di qui lo stuol lontano
che ne minaccia pur gli ultimi guai
e seguendo Brunoro e Segurano
fia del nostro terren, signore, omai,
se voi con gli altri duci insieme accolti
non gli avete con l’arme indietro volti”.

Il medesmo da poi pregando afferma
al nobile Abondano ed Agraveno,
e discaccia il timore e ’l cor conferma
a Gerfletto, Arganoro ed a Gaveno;
e la turba che fugge tra via ferma,
e con parlar di riverenza pieno
senza lor danno far, senza minaccia,
al difendersi indietro gli ricaccia,

dicendo: “Ove fuggite o sciocche schiere?
Non vedete voi ben sempre il periglio
via più grave e maggiore in quei cadere
che rivolgon le spalle, dove il ciglio
non può il vantaggio suo presso vedere
né pigliare in cammino util consiglio;
né mai l’armata man difesa truova
contra chi dietro lei battaglia muova?

Né il loco ove fuggite è più sicuro
di quel che ’n tal vergogna abbandonate:
ch’altro non è più in qua fosso né muro,
fuor di quei che da tergo vi lassate.
Or non vi fia ’l miglior seguire Arturo
e la fede e l’onor, ch’ora sprezzate,
che furando il devere a tutte insieme
seguir chi di scampar non mostri speme?”

L’alte e vere parole, e ’l sacro aspetto
d’un sì famoso re, tale han vigore
che in un punto cangiò ’l pavido petto
i dannosi pensier ch’aveva in core:
ferma il passo ciascuno, e giunto e stretto
si rivolge al nemico e cerca onore,
e tacendo obbedisce ad ogni duce,
ch’al lassato cammino il riconduce.

Come gregge talor cui punse tema
di lupo o di leon che presso scorse,
ch’al fin del colle o della piaggia estrema,
là ’ve il rischio è maggior, semplice corse:
ivi lassa s’arresta, e grida e trema
fin che ’l fido pastor ratto le porse
il soccorso fedele, e d’orror piena
alla mandra lassata la rimena;

così indietro ritorna, e i cavalieri
davanti il passo lor spronano a prova,
più che fossero ancor d’animo alteri,
che ’l valore smarrito ogni uom rinuova.
Ma Tristano e Boorte arditi e feri
là dove con più genti si ritrova
il prode Seguran, largando il morso
de i possenti corsier, drizzano il corso;

ma perch’era il cammin serrato intorno
da molti altri guerrier che ’n giro vanno,
senza tutto fiaccar di quelli il corno
non si può penetrar dov’essi stanno.
A chi allor di fuggir temea lo scorno
l’uno e l’altro di lor fa greve danno,
e tanti fa caderne a poco a poco
che d’andare ove vuol si gli apre il loco.

Trova Tristan fra i primi Amopaone,
che nell’Ebridi fredde aveva il nido,
e con un colpo in fronte a terra il pone,
richiamando la patria in alto grido.
Poi nato nella istessa regione
Agenore con lui pose sul lido,
trapassato nel cor di mortal punta
ch’ove il cavo è maggior veniva aggiunta.

Il feroce Boorte, ch’era presso,
ha trovato in cammino il German Iso,
e gli ha in cima dell’elmo il brando messo,
che gli passa scendendo in mezzo il viso:
ei dall’ultimo sonno cadde oppresso,
in fin sopra le spalle in due diviso;
e Bienore seco, il pio cugino,
pon nel fianco percosso a capo chino.

Così va insieme la famosa coppia
con l’istesso desire e col valore,
e l’un l’altro imitando i colpi addoppia,
pareggiando fra loro il largo onore:
e tanto innanzi va, che intuzza e stroppia
del fero Seguran l’alto furore,
che come a sé vicin venir la vede
in nuova altra maniera a’ suoi provvede;

ché appellando Brunoro e ’l suo Rossano,
ch’uccidendo i Britanni non van lunge,
dice: “Or deviamo oprar l’occhio e la mano,
poi che novellamente si congiunge
con l’altero Boorte il gran Tristano,
e fresca schiera de’ nemici giunge
che saran più de i nostri, de’ quai rari
han potuto passar questi ripari.

Però fermare il passo ne conviene
e sostener per or l’impeto loro,
in fin che nuova gente per noi viene,
e col nostro Clodin sia Palamoro:
ch’assai fa nel bisogno chi mantiene,
non men che chi l’acquista, un bel tesoro.
Tenete i nostri saldi, e a me si lassi
il romper di costor la strada e i passi”.

Così detto, s’accinge all’alta impresa
di contrastar a i due tutto soletto:
e sopra il buon Tristan la prima offesa
muove col duro brando in mezzo il petto.
E se non che fu invitta la difesa
dell’acciar che ’l copria, più che perfetto,
fora in quel giorno istesso e ’n quella punta
all’estremo suo fin l’anima giunta:

ma senza altro suo danno indietro torna,
e l’aria accende di faville ardenti.
Nel gran re di Leon drizza le corna,
l’ira avvampando, e fa stringerli i denti;
e dove il bel cimier la fronte adorna
con un gruppo annodato di serpenti
furiando gli pon la grve spada,
e gli fa rotti andar sopra la strada:

e col lor giù cader sostegno furo
al fin elmo ch’avea, che integro resta.
Ma il mondo intorno di colore oscuro
si mostra, e ’n giro gli volgea la testa;
ma in brevissimo andar ritorna puro
ogni turbato senso, e ’n lui si desta
il primiero valor, con tanto sdegno
che del pensiero uman trapassa il segno:

e come aspro cinghial ratto s’avventa,
e con tutta sua possa in fronte il fere.
Ma Tristan con lo scudo s’argomenta
che ’l destinato fin non possa avere,
e ’n questo mezzo in più d’un luogo il tenta:
ma, come prima ancor, le folte schiere
quinci e quindi arrivando son cagione
ch’ebbe termine allor l’alta quistione.

Né con forza minor ritien Boorte
di Brunoro e Rossano il corso a freno,
e di più oltra gir sì ben le porte
chiudendo va, che il lor furor vien meno:
e mentre l’un percuote, all’altro morte
va minacciando, e ’n guisa di baleno
che nell’estivo ciel la notte splende
si vede il brando suo che sale e scende;

e ’n sì leve rotare in torno il gira,
e sì snello e leggier muove il destriero,
che mentre l’un nella sua morte aspira
già con l’altro il rivede in atto fero.
A quel d’aguta punta, a questo tira
come fa in Mongibel Piracmo altero:
e ’n modo opra con lor, che doppo lui
pon più securi andare i guerrier sui;

i quai vedendo aver sì fida scorta
di tai buon cavalier che innanzi vanno,
e ’ndietro un sì gran re che gli conforta,
già mettono in oblio l’andato danno,
e ciascun nuova speme in petto porta
di poter riversar l’istesso affanno
nello spietato esercito d’Avarco,
del qual troppo da lui si sentia carco.

Or già spiega le forze il sacro Arturo,
e poi ch’a in ordin posto il grande stuolo
sprona il forte destrier lieto e sicuro,
e tra i primi nemici addrizza il volo.
Aman ritrova, ch’ove il freddo Arcturo
più restringe il suo corso al nostro polo
nato di chiaro sangue era in Norvegia,
che d’ogni altro che sia l’onor dispregia;

e nel mezzo del cor con l’asta il passa
sì che senza spirare in terra cade:
seguita oltra il cammino, e morto il lassa
troppo lontan dall’aspre sue contrade.
Il tornato Gaven la lancia abbassa
e del suo sacro re segue le strade,
et Antimaco incontra, che venia
onde stende i confin l’Alba Rossia:

e per fama acquistar con poca gente,
di Rossano il Selvaggio seguia l’orme;
or sanguinoso il sen, tardo si pente
che lassò del suo stil l’antiche forme.
Il forte Lionel, che vede e sente
degli arcier lievi suoi svegliar le torme,
poi ch’è disceso a piede e preso ha l’arco
ove son più nemici elegge il varco;

e chiama alto Timbreo, ch’era scudiero
del famoso Tristano e ’n guardia avea
il suo più grave scudo, a lui leggiero,
e che null’altro in guerra sostenea:
e gli comanda poi col dolce impero
ch’un sì caro al signore usar potea
che ’l pianti nel terren tenace e fermo
perch’al suo saettar si faccia schermo.

Lo sguardo appresso accortamente gira
ove più incontra vien la schiera stretta,
e ’l guerrier più onorato in essa mira,
di destriero o d’arnese o d’arme eletta,
e ’n quel l’arco spietato intento tira
e pongli in mortal loco la saetta:
poi qual picciol fanciul di madre al lembo
dello scudo fedel s’accoglie in grembo.

Furo i primieri Argolico e Parmeno
ch’egli uccidesse, e ’l nobile Sileste;
e l’un presso dell’altro su ’l terreno
rendero al suo Fattor l’anime meste.
Con lor Detore, Cirnio e Lotofeno
nutriti tralle Iberniche foreste,
poi col fero Enodoco Erisilone,
quai cervi il cacciator, distesi pone.

Giunge in questa il re Arturo, e quando vede
il giovin Lionel non ancor sazio
lieto dicea: “Nè men vendetta chiede
già de i nostri e di noi l’antico strazio:
ché d’ogni vostro ben già stata erede,
doppo il torvi i parenti, tanto spazio
è la turba crudel di fede incerta,
ch’assai danno maggior di questo merta”.

“Ah” - dicea Lionel - “sapete bene,
invittissimo re, s’io soglio ancora
con altr’arme ferir, quando conviene
il valor dimostrar che ’n noi dimora.
Ma il popolo infinito che ne viene,
per ispegner con lancia, è tarda l’ora:
poi contr’a gente d’ogni vizio incude
chi vorrà ricercar fallo o virtude?”

“Ben è vero” - il buon re gli rispondea -
“che non sempre il medesmo il tempo approva,
né la medesma cosa è buona o rea,
ma con la sua stagion cangia e rinnuova.
Or che ne aggreva la fallace dea
con la rota infedel, fare ogni pruova
n’è lecito, e ’l cercar per tutto scampo
a salvarne l’onore e ’l nostro campo.

E voi, figliuol, che non aveste a sdegno
or per pubblico ben gli strali e l’arco
di sempiterno onor chiamerò degno,
né di voi celebrar sarò mai parco:
e se ’l ciel ne darà compìto il regno
che n’è d’intorno, e l’espugnare Avarco,
vi farò tal che non avrete pare
principe alcuno o re di qua dal mare”.

“Io vi ringrazio” - umìle, allor risponde
con somma riverenza il giovinetto, -
“ma non bisogna aver l’esca d’altronde
al focoso desio ch’io porto in petto
di voi servire in fin che ’l ciel m’infonde
dell’usata sua grazia all’intelletto,
e mentre ch’io potrò presso o lontano
porre in opra per voi l’arme e la mano”.

E dicendo così, d’un nuovo strale
su la rigida corda pon la cocca,
et a Meron drizzò ’l colpo mortale
che gli venne a passar proprio alla bocca:
indi spiega al cervel le pennate ale
sì ben, che del destrier, lasso trabocca,
e la testa piegò pallido e smorto
come tener papavero in chius’orto,

che dalla folta pioggia nell’estate,
quando il seme ha miglior, gravato sia.
Era costui di tenerella etate,
nato in Avarco della vaga Elia
cara a Clodasso, e che mille fiate
già punse in dubbio cor di gelosia
alla sua sposa Albina, che sentiva
che troppo al suo parer cara veniva.

Scocca un’altra saetta, e ’n mezzo il petto
va sibilando al misero Ippodamo,
ch’a cader va de’ suoi nel calle stretto
come percosso uccel dal verde ramo.
Era esso Ibero, e nuovo duce eletto,
onde il popol di lui grave richiamo
al ciel facea, ché l’una e l’altra sponda
par di lui non avea che ’l Beti inonda.

Doppo il costui morir, Merope appella
che gli è sempre vicino, il suo scudiero,
che gli adduca il cavallo; e monta in sella
dicendo: “Or sia chi vuol per oggi arciero,
ch’io con altr’arme in man l’empia e rubella
turba or voglio assalir da cavaliero:
e veggia ogni uom che chi di Gave nasce
d’ogni arme oprare e di virtù si pasce”.

In tai parole sprona in quella parte
ove il caro fratel Boorte scorse,
che parea fra’ nemici il gallo Marte
ove irata la man più in guerra porse.
Trova il Geta Iperoco, che ’n disparte
lassando gli altri andar sopra lui corse,
e nel petto egualmente s’incontraro,
ma fu l’un colpo più dell’altro amaro:

perché l’asta dell’altro in tronchi sale
volando al ciel, senza lassare offesa;
quella di Lionel fu micidiale,
che sprezzando del ferro ogni difesa
passò dove il polmon con tepide ale
mantien l’aura vital nell’alma accesa;
e ’n terra se n’andò del mondo sciolto,
ove fu in sen de’ suoi subito accolto.

Indi col brando in man ritrova Opito,
d’Aleandro figliuol, che ricco nacque
del nobil Taragone al basso lito,
ove Teti di spuma imbianca l’acque:
e di sdegno d’amor s’era partito
dalla vaga Serpilla, a cui non piacque
d’averlo sposo, ond’ei con aspra sorte,
come allor ritrovò, cercava morte.

Incontra il suo german detto Soceo,
che in ogni sua fortuna gli fu appresso;
e d’un colpo alla fronte in morte il feo,
come nel viver pria, compagno d’esso.
Poi d’altra patria il crudo Ilioneo,
che d’Affrica il terren teneva oppresso
d’Atlante al mar, di sangue Visigoto,
d’orgoglio e di vigor fé nudo e vòto.

Ma mentre esso, il fratello e ’l pio Tristano,
mostrando alto valor, battono a terra
questo e quel duce illustre e capitano
e fan maravigliosa e cruda guerra;
Palamoro, Clodino e Dinadano
di qua dal largo fosso, che gli serra
in sicurtà di lor, nell’altrui danno
conducendo gran turba intorno vanno:

sì che mal far riparo si potea,
né scacciar i nemici da quel lato
che dritto in verso Avarco rispondea,
che tutto pienamente era occupato.
Ma il saggio Maligante, che vedea
di tutto il campo il periglioso stato,
con infiniti carri utili a guerra
attraversa il cammino e ’l passo serra.

E mentre che Tristan tenendo a bada
il furor che venìa saldo sostiene,
a nuovo fosso, che profondo vada
quanto a sì breve tempo si conviene,
fa che ’l popolo armato, il qual la spada
e la lancia e lo scudo a terra tiene,
con gli agresti instrumenti si raccinga,
sì che i carri di fuori intorno cinga:

e con studio maggior ch’alla stagione
che comincia a scaldarse il buon cultore
alla pregiata vigna i villan pone
per voltare il terren che troppo umore
dona all’erbe crudei che son cagione
che ’l dolce arbor di Bacco o langue, o muore,
che pon vederse al rusticano assalto
mille zappe lucenti andare in alto;

e tanto era lo stuol, che ’n tempo breve
già potea la difesa esser sicura.
Chi la terra rompea, chi larga e greve
gleba all’argin portar prende la cura,
chi dispon bene il loco in cui si deve
le guardie porre, in guisa d’alte mura,
chi le porte disegna in dotte forme
da spingere e ritrar de’ suoi le torme.

L’accorto Bandegamo in altra parte
de i subiti consigli ammaestrato
or a questo or a quel discuopre l’arte
ch’usar si deggia in simigliante stato:
a chi minacce, a chi prieghi diparte,
e si ritruova presto in ciascun lato;
e per essempio dar come s’adopre
quinci e quindi con lor pon mano all’opre.

Il felice Abondan l’istesso face,
né men Lucano il Brutto ed Egrevallo,
in quel modo adattando che conface
a chi più rappresenti argine e vallo,
sollecitando ognor mentre la pace
non può lor disturbar uomo o cavallo,
ché ritenuto a forza era lontano
del valor di Boorte e di Tristano.

Blanoro e Gossemante, il core ardito,
Mandrino ed Ozzonelio d’Estrangorre
con molti cavalier nel vicin lito
per più lor sicurar si vanno a porre,
che nessun sia impiagato o sia impedito
da qualche leve arcier, che spesso corre
non scoperto d’altrui fra gente e gente,
che via miglior di lui può far dolente.

Così son nel passar di lunghe ore
sì ben di nuovi fossi intorno cinti,
che di vedere omai cessa il timore
i marziali alberghi accesi o vinti,
ma che i molti guerrier che sien di fuore
dal numero minor sian risospinti:
tal ch’al nuovo periglio sopraggiunto
il rimedio e ’l dolor nasce in un punto.

E bene ad uopo vien, che tanto cresce
il furor de i nemici e lo spavento
di quei d’Arturo, che del termin esce
chi di viltà mostrar, che d’ardimento.
Lo stuol Franco e Britanno in un si mesce,
e nessun cura onore o reggimento
di duce o di guerrier che grida o chiama,
e per suo scampo omai sprezza ogni fama.

Corre intorno Tristan, corre Boorte,
e di fargli arrestar s’adopra in vano.
Il vecchio re dell’Orcadi sì forte
ch’esser può ben udito di lontano
dicendo va: ““Qual più sicura sorte
speri trovar nel piè che nella mano,
popolo abbietto e vil, che non t’accorgi
ch’al palese morir te stesso scorgi?

Non t’avvedi tu stolto, che fuggire
in sicurato loco omai non puossi,
poi che lassato aviamo il varco aprire,
spianare il vallo e ragguagliare i fossi?
Ben, se rivestirem l’usato ardire,
del qual senza cagione or sète scossi,
di tosto rivedere ho ferma speme
tornar gli argini, i fossi e i valli insieme”.

Ma poco opra il suo dir, che più che prima
senza nulla ascoltar fugge lo stuolo:
e ’l gran Britanno re, che pure stima
che più d’altro onorar deggian lui solo,
roso dell’ira il cor dall’aspra lima
e di sdegno ripien, colmo di duolo,
col destrier suo davante s’attraversa
e mordendogli tal la rabbia versa:

“Se voi fuggite sol, diletti amici,
per secura portar con voi la vita,
datemi oggi legato a’ miei nemici,
e fia strada più aperta e più spedita:
che gir vi lasseran lieti e felici
ove il molle desio, lassi, v’invita,
dentro al vostro nativo e dolce loco
tra le vil femminelle all’ombra e al foco;

et io mi rimarrò famoso pegno
del fidato valor de’ miei guerrieri,
che di Bacco e Ciprigna al lento regno
contr’a chi sia lontan son crudi e feri:
Ove Marte alza poi l’armato segno
al fuggirsi lontan pronti e leggieri;
e del suo imperadore han quella cura
che ’l pasciuto monton di vil pastura”.

Le sdegnose parole e i veri detti
d’un sì onorato re di tanto nome
ben pungean de’ migliori i chiari petti,
carcando i cor di vegognose some;
e dalla turba vil chiusi e ristretti
vorrian pur ritornar, ma non san come,
ché traportati son da quella forza
qual nave ch’Aquilon percuota all’orza,

che ’n ver lui quanto può drizza la prora
l’animoso nocchier, né ceder vuole,
ché ’l cammino acquistato per lunga ora
in un momento sol perder si suole:
ma poi ch’egli ha dalla surgente aurora
travagliato al corcar del tardo sole,
pur conviengli al soffiar che maggior poggia
contraria la suo desio lentar la poggia;

cotal fan quelli afflitti, che di doglia
e d’onta e di pietà restan compresi
d’esser lordo trofeo, fugace spoglia
de’ suoi nemici sopra loro ascesi:
ma i piè impediti a così pronta voglia
non pon bene ubbidir, da troppi offesi;
così, mal grado suo, co i peggior vanno
all’estremo, qual sia, disnore e danno.

E ’n tal guisa convien che i buon dien loco
alla viltà de i rei, questi alla tema,
e come avesser dietro ardente foco
per più tosto fuggir l’un l’altro prema.
Già son tutti condotti a poco a poco
de’ nuovi fossi su la riva estrema,
là dove Maligante ed altre scorte
d’entrarvi a sicurtà mostran le porte:

però che innanzi a quei, poco lontano,
Creuso il Senescial locato avea,
ch’a molti cavalier duce e sovrano
l’impeto de i nemici sostenea;
così come più avanti il buon Tristano
con Boorte il medesimo facea:
sì che ’l furore ostil da doppio intoppo
non può a gli altri, interrotto, nuocer troppo.

Or quando ivi arrivato il grande Arturo
vede il saldo lavor di Maligante
che ’l resto del suo campo fea sicuro
non men di quello istesso ch’era avante,
e de i carri ivi stesi il forte muro
che soprastava altero e minacciante,
ch’a pena cominciò quando è partito,
e nel ritorno suo trova compìto,

tutto alto gli dicea: “Deh, quanto vale
d’un saggio duce sol l’accorto avviso?
Per voi, gran re di Gorre, d’ogni male
oggi fia il nostro esercito diviso,
e può lieto posar ch’un loco tale
non possa in lungo tempo esser conquiso
da numero maggior che quei non sono,
s’anco il popol ch’aviam fosse men buono.

Né men gloria è di voi, né men devreste
di palme andare inghirlandato e cinto
che se con chiara man del tutto aveste
l’avversario che vien battuto e vinto:
ch’or con questo consiglio gli toglieste
la vittoria, e ’l sperar gli avete estinto;
né men si dee lodar chi i suoi difenda
che chi gli aspri nemici armati offenda”.

Così detto s’arresta ove l’entrata
che nel mezzo apparia distorta assiede,
con doppia porta, e ’n guisa fabbricata
che la prima di lor l’altra non vede.
Ivi dispon l’altera sua brigata,
che mai sempre di lui seguita il piede,
alla sua destra stesa ed alla manca,
ove in alto surgea l’insegna bianca;

con quell’ordin medesimo che suole
il pio cultor, ch’al rapido torrente
che non depredi i campi occorrer vuole,
e ’l vede al contrastar troppo possente,
che ’n più luoghi gli oppone argine e mole
in fin che sieno alle sezzaie spente
in tal maniera le rabbiose forze
che le pendenti piagge poco sforze.

E Tristan, che lassato ha il suo destriero
in man di Blomberiffe ed ha ripreso
il settemplice scudo, e ’n su ’l sentiero
verso i molti nemici è innanzi steso,
quanto puote in sembiante ardito e fero
tutto del lor furor sostiene il peso:
poi con la spada in giro si discioglie
dalla turba mortal ch’ivi s’accoglie;

indi il piè ritirando a poco a poco,
della fuga de i suoi sostegno viene:
così gli scorge a quel serrato loco
in cui sien fuor di tema e fuor di pene.
Ma tale intorno a lui s’accende foco,
che comincia a mancargli forza e spene
di poter adoprar per questo verso
che non rimanga in cenere converso;

tal che stringendo al fin necessitade,
e rimirando i suoi securi omai,
con più veloce andar calca le strade,
non ascondendo pur la fronte mai.
Allor da diversissime contrade,
più che facesser pria, crescono assai
sopra lui lance, dardi, frombe e strali,
ch’ad ogni altro ch’a lui foran mortali;

ma il gravissimo scudo e ’l fino acciaro,
onde tutte le membra aveva cinte,
ad ogni aspra percossa eran riparo,
né le lassan di sangue esser dipinte.
Ma de i colpi il romore agro ed amaro
della testa e del cor quasi hanno estinte
le sue parti vitali, ed a lui danno,
assai più che timor, periglio e danno.

E qual fero leon soverchio oppresso
di cani e cacciator da turba folta
che schivando il morir s’avventa spesso
verso i villan, né mai le spalle volta,
ma nel passo voltar si scorge in esso
poco di quei timore, e rabbia molta,
perché movendo il piede altero e tardo
or minaccia co i denti, or con lo sguardo;

tale il forte Tristan ritragge il piede
verso il campo de’ suoi, servando intera
la virtù invitta onde fu chiaro erede,
né potè mai piegar fortuna fera:
e quanto più ciascun crudele il fiede,
già stimando i suoi dì condotti a sera,
allor con più vigor ratto s’avventa
e quello a morte dà, questo spaventa.

Qual digiuno asinel, nel campo entrato
che di fiorite biade il sen ricopra,
che con verghe e baston da più d’un lato
di pastorelle stuol si veggia sopra,
che poi che ’l dipartir molto ha indugiato
rifuggendosi ancora il morso adopra,
che il collo stende, e con l’ingorde voglie
quante spighe ha vicine in bocca accoglie;

tal l’Armorico duce ivi apparìa,
ch’obbedir’ alla turba gli conviene
ch’a cavallo ed a piè spietata e ria
d’ogni parte ov’ei va crescendo viene,
ma indietro ritornando spesso invia
nel mondo oscuro chi più oppresso il tiene:
fin che del nuovo fosso giunto all’alto
sovra il vallo ch’avea passa in un salto.

Ma in questo mezzo il sol calati i rai
dietro al Marocco avea nell’occidente,
tal che di speme e di timor di guai
già imposto ha il fine all’una e l’altra gente:
onde il Britanno stuol s’allegra assai,
e ’l grande oste di Avarco n’è dolente
pensando che s’ancor durasse il giorno
girsen potea della vittoria adorno.

Il fero Seguran, cedendo all’ore,
che ’n dietro ogni guerrier seco s’accoglia
fa intorno comandar l’alte e sonore
trombe, e che ’l guerreggiare omai si scioglia.
Ma poi che ’l negro ed umido colore
d’ogni luce ch’avea l’aria dispoglia,
su la sinistra man lieto gli mena
ove irriga l’Oron la secca arena.

Ivi sopra il cavallo, in man tenendo
la spada ancor, ché non la vuol riporre,
intorno a cui di crudo aspetto orrendo
il britannico sangue largo corre,
parla a tutti: “Signori, io ben comprendo
che ’l ciel non ha voluto oggi disporre
la vittoria per noi però che vuole
che con più onor l’abbiam nel nuovo sole;

e fia ’l nostro miglior, perché la notte
n’aria tolto il seguir la nostra sorte:
ché mai puosse all’oscuro aver condotte
tali e sì grandi schiere integre a morte,
che molte de i confin più che noi dotte,
fuggir potean per vie chiuse e distorte,
altre, ove l’ombra più nascosa preme,
per di nuovo assalir mettersi insieme;

ove al primo apparir di quella luce
che risurgendo il sol nuova ne mostre,
ogni buon cavaliero ed ogni duce
rimenando a ferir le genti nostre,
con l’antico valor che ’n voi riluce
prima che tutto il ciel s’indore e inostre
preso il lor campo e messi in fuga avremo;
poi l’altre ore in seguirgli spenderemo.

Ma per non perder tempo nell’aurora
a rimettere in un le sparse schiere
o per ristretto calle trarle fuora
e conducerle al loco ove si fere,
qui la notturna fia nostra dimora,
là dove d’ora in ora rivedere
del nemico potrasse ogni consiglio,
senza crederlo altrui, col proprio ciglio.

Or qui dunque di spessi e larghi fochi
farem del nostro Orone il lito adorno,
onde scerner potrem per tutti i lochi
ogni laccio, ogni insidia tesa intorno,
né ci porgano offesa i molti o pochi
che nel fin sopra lor non sia lo scorno;
e potrem discoprendo anco impedire
se celati da noi vorran fuggire.

Vada Attore l’araldo entro alla terra,
e narri al re Clodasso i pensier nostri,
che per quanto quest’ombra il lume atterra
non abbandonerem d’Orone i chiostri;
e ch’egli intanto a quel ch’Avarco serra
come guardar si deve a’ suoi dimostri,
e i vecchi e i giovincei con somma cura
aggian l’albergo lor sopra le mura,

e che l’alte finestre e l’ampie strade
le femmine vegghiando empion di faci,
sì che non sian le peregrine spade
ascose in lor da tenebre fallaci;
e qui, dove sol nude han le contrade
i guerrier di valor chiari seguaci,
di preziosi vin gran copia mande
e di maniere assai larghe vivande”.

Attor volando gìo, né molto stette
che già carri infiniti segnan l’orme,
già vengon di monton le gregge elette
e di cornuti buoi le grasse torme.
Già ciascun lieto all’opera si mette
dell’albergo apprestare, e nessun dorme,
infin ch’hanno i graditi cavalieri
adagiati e pasciuti i lor destrieri.

Già i larghissimi fochi in alto vanno,
ch’alle nubi occupar drizzano il piede:
tre volte mille furo, e ’n ciascuno hanno
almen trenta guerrier mischiata sede;
e tutti in cerchio della valle stanno
con sì chiaro splendor, ch’ivi si vede
ceder al lume lor l’umida notte
con le tenebre sue fugate e rotte.

Han di lunge sembianza al ciel sereno,
quando Delia il fratello opposta mira
dall’altro punto, e che di stelle pieno
lucentissime e vaghe intorno gira,
che l’ombre scuote che si truova in seno
co i dolci raggi che ciascuna spira:
onde il colle vicin chiaro si scorge
e ’l pastor lieto a contemplarle sorge.

Tali eran gli alti fuochi, a cui vicina
parte omai del digiun ristoro prende,
parte al lento riposo gli occhi inchina
e l’affannate membra a terra stende,
parte a i fossi del campo s’avvicina
e celata ascoltar l’animo intende,
ricangiandosi tal, ch’a ciascun tocchi
il quetare e svegliar gli spirti e gli occhi.

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