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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Caccia; primi affari co’ tartari; conseguenze del volere comprare un cammello; combattimento co’ Tartari Mongoli; arrivo alle frontiere della Moscovia.
Qui subito si principiò a sentire la necessità di tenersi ben raccolti in carovana durante il viaggio, perchè vedemmo diverse bande di Tartari che vagavano attorno. Quando per altro fui giunto a scorgerli meglio, seppi sempre meno persuadermi che l’impero chinese potesse temere di essere conquistato da sì spregevoli cialtroni, orde di selvaggia canaglia, che non sa mantenere alcuna sorte di ordine, nè intende disciplina o metodo di combattere. I loro cavalli, vere carogne mal addestrate, non sono buoni a nulla. Di tutte queste cose ci accorgemmo al primo scontrarli, e ciò fu appena entrammo nella parte più selvaggia della contrada.
In quel giorno stesso il nostro conduttore diede il permesso a sedici de’ nostri di andare a caccia, e che bella caccia era quella! una caccia di pecore. Pure potea chiamarsi caccia, perchè non mi è mai toccato vedere animali di tale razza più servaggi e veloci nel correre. Unicamente non corrono per lungo tempo, onde siete sicuri del buon esito della vostra spedizione quando vi ci mettete, perchè si mostrano sempre a trenta o quaranta in un branco e, da vere pecore, fuggono tutti insieme.
Durante questa strana caccia, il caso volle che incontrassimo una quarantina di Tartari. Se andassero a caccia di pecore, come facevamo noi, o fossero in cerca d’un’altra sorta di preda, non lo sapevamo. Certo, non sì tosto ne videro, un di coloro diede fiato ad una specie di corno d’un tal aspro suono, che non avendone mai udito il compagno (ed io, per parentesi, non ho nessuna smania di udirlo una seconda volta) supponemmo fosse per chiamare intorno a sè gli amici; e indovinammo, perchè in meno di dieci minuti comparve ad un miglio in circa di distanza un’altra masnada di quaranta o cinquanta di costoro; ma, quando si mostrarono, la faccenda era già finita come udirete.
Uno degli Scozzesi trafficanti a Mosca trovatosi a caso con noi, appena udì lo squillo del corno, ne disse non aver noi altro a fare che assalirli tosto e senza perdere tempo; indi schieratici in linea di battaglia, ne chiese se tutti fossimo ben risoluti. Udito che eravamo tutti prontissimi a seguirlo, cavalcò incontro a costoro che stavano guardandoci, uniti in un mucchio, disordinati e non presentando alcuna fronte di difesa. Accortisi che avanzavamo, scoccarono i loro strali, che per buona sorte non arrivarono sino a noi. Sembra che essi sbagliassero non la mira, ma la distanza, perchè le loro frecce caddero tutte in poca distanza da noi; del resto, erano state scagliate con tal giusta mira, che se fossimo stati più innanzi di venti braccia, molti de’ nostri sarebbero rimasti feriti, se non uccisi.
Ci fermammo immantinente e, ad onta della distanza piuttosto notabile che ci separava dai nemici, facemmo fuoco mandando su loro il contraccambio delle frecce scagliate contro di noi in palle di piombo; poi seguimmo di gran galoppo la via stessa della nostra scarica, per piombar loro addosso con le sciabole, che così ne avea consigliati il nostro Scozzese. Era un semplice negoziante; pure in questa occasione si comportò con tanto valore e, aggiungasi, sangue freddo, che non ho mai conosciuto un uomo più atto di lui a comandare una fazione guerresca. Poichè gli avemmo al tiro delle nostre pistole, le scaricammo in faccia ad essi, e sguainammo tosto le sciabole; ma non vi fu il bisogno di adoperarle, perchè si diedero tutti a fuggire nella massima confusione. Trovammo soltanto qualche resistenza alla nostra diritta, ove tre della masnada si erano fermati facendo segni, affinchè si raccogliessero intorno di loro i fuggitivi, armati di certe specie di scimitarre e d’archi che pendevano dai loro Un di coloro diede fiato ad una specie di corno di un tal aspro suono, che.... non ho nessuna smania di udirlo una seconda volta. dorsi. Il valente nostro comandante, senza domandare a niuno di noi che lo seguisse, si mise al galoppo per correre su i tre, un de’ quali egli balzò d’arcione col calcio del suo moschetto, e ne stese morto un altro con un colpo di pistola; il terzo fuggì. Così terminò la battaglia; ma ne occorse in tanto una disgrazia; la fuga delle pecore prese alla caccia. Non avemmo un solo d’ucciso, o che avesse solamente sofferta una scalfittura. Non andò così pei Tartari, ch’ebbero cinque uomini morti, quanti feriti non lo sapemmo; ma ben sapemmo un’altra cosa, e fa che il drappello mostratosi alla distanza d’un miglio, spaventato dallo strepito de’ nostri archibusi, fuggì, nè si arrischiò più cimentarsi con noi.
Finora eravamo sempre nel dominio Chinese, onde i Tartari non si mostravano così ardimentosi, come li trovammo di poi. Dopo cinque giorni circa di cammino entrammo in un deserto sterminatamente grande e selvaggio, ove ne convenne far tre giorni di cammino recandoci addietro l’acqua in otri di pelle, e stando a campo l’intera notte, come odo si faccia ne’ deserti dell’Arabia.
Chiesto alle nostre guide, chi dominasse su questa orrida contrada, mi fu detto essere quella una terra di frontiera, che avrebbe potuto chiamarsi Terra di nessuno. Facea propriamente parte del Gran Karakathay o Gran Tartaria, benchè venisse riguardata pertinenza dell’Impero Chinese, il quale per altro non si prendeva alcuna cura per tenerlo netto da invasioni di ladri; onde quel deserto veniva considerato come il tratto più tristo del nostro cammino, quantunque avessimo da passare solitudini anche più vaste.
Nell’attraversare questa, che a me parve certamente assai spaventosa, vedemmo due o tre volte alcune piccole bande di Tartari che per altro tiravano diritto per la loro via, nè parea facessero disegni a nostro danno; onde li trattammo come diceva un tale che avrebbe fatto se incontrava il diavolo: «S’egli non ha nulla da dire a me, io non ho nulla da dire a lui:» li lasciammo andare.
Una volta ciò non ostante un branco di costoro, venutoci in maggior vicinanza, si mise di piè fermo a guardarci. Se lo facessero con intenzione di scandagliarne o di assalirne, non capivamo; ad ogni modo, quando li avemmo oltrepassatti in qualche distanza, componemmo una retroguardia di quaranta uomini e ci tenemmo pronti a ricevere costoro, lasciando intanto procedere innanzi per un mezzo miglio la carovana. Ma di lì ad un poco que’ galantuomini se ne andarono da un’altra parte. Vollero soltanto darci il saluto della partenza, scoccandone cinque frecce, una delle quali, ferito un nostro cavallo, lo fe’ inabile affatto al servigio; laonde nel seguente giorno dovemmo abbandonare lì quella povera bestia, che avea gran bisogno d’un maniscalco. Forse avranno lanciate altre frecce, che non arrivarono sino a noi, ma dopo quelle cinque non vedemmo più nè frecce, nè Tartari.
Camminammo circa un mese dopo il narrato avvenimento, tenendo strade non buone come le precedenti, ancorchè poste tuttavia negli stati dell’imperatore della China, e che si riducevano per lo più a villaggi, alcuni dei quali erano fortificati per timore delle invasioni dei Tartari. Giunti ad uno di questi villaggi posto in distanza di due giornate e mezzo della città di Naum, mi venne voglia di comprare un cammello. Di questi animali ed anche di cavalli, come Dio li manda, da vendere, c’è quivi abbondanza, pel bisogno che spesso banno di rinnovarli le carovane che passano di lì. Un Chinese, al quale comunicai il mio desiderio, si offerse di andare egli a provedermi il cammello. Io da vero matto, volendo usare maggior cortesia, me gli offersi per compagno. Si trattava d’un luogo non più di due miglia lontano dal villaggio, ove cammelli e cavalli stavano al pascolo sotto custodia.
Per amore di varietà feci la strada a piedi in compagnia del mio vecchio pilota e del Chinese. Arrivati al luogo, vedemmo una bassa terra paludosa, simile ad un parco, cinta d’un muro, che era fatto di sassi ammucchiati senza gesso o calcina. Ne custodiva l’ingresso un piccolo corpo di sentinelle chinesi. Scelto il mio cammello e convenuti sul prezzo, me ne venni via. Il Chinese mi conduceva il cammello, quando fummo sorpresi all’improvviso da cinque Tartari a cavallo. Due di que’ malandrini, affrontato il conduttore del cammello, gliel tolsero, intanto che i tre altri vennero arditamente per investir me e il vecchio pilota, giacchè ci vedevano disarmati. Io non aveva in fatti altr’arma che la mia spada, debole difesa contro di tre uomini a cavallo. Nondimeno quando il primo di costoro mi vide sguainarla, divenne perplesso e si fece addietro, perchè ve li do per solenni codardi; il secondo arrivatomi addosso di costa mi lasciò andare sì violenta botta su la testa, che la sentii solamente più tardi, allorchè rinvenuto in me, non sapeva più nè di che cosa si trattasse nè dove fossi, trovandomi disteso per terra.
Ma la providenza, quando meno lo pensate, conduce le cose in modo, che vi libera dai pericoli i men preveduti. Il mio vecchio pilota, quel degno Portoghese, il cui buon volere per me fu sempre grande, aveva in tasca una pistola, ch’io nol sapeva, e nol sapevano nemmeno i Tartari, chè, se lo avessero saputo, non ci assalivano: i vigliacchi non sempre coraggiosissimi, ove non credono ci sia pericolo. Il mio vecchio pilota dunque vedendomi stramazzato, andò con cuore ardito incontro al cialtrone che m’avea messo in quella postura, e tenendo la pistola in una mano, dell’altra traendolo con gran gagliardia verso di sè, perchè colui era a cavallo, gli scaricò la sua arma su la testa, sì che cadde a terra morto.
Corso allora, incontro a colui che era divenuto perplesso, come vi dissi, prima che gli venisse voglia di venire avanti di nuovo, gli menò un colpo di scimitarra; chè questa non se la spiccava mai dal fianco. Mancò, per dir vero, l’uomo, ma andò a percuotere il cavallo con un colpo sì netto, che gli portò via netto un orecchio e un lato della faccia. La povera bestia, fatta furiosa dalla ferita, non era più capace di lasciarsi governare dal suo cavaliere, benchè il briccone si tenesse in sella assai bene. Essa si diede a fuggire, portando il Tartaro affatto fuori di tiro al pilota; finalmente a qualche distanza alzatasi su le zampe di dietro, gettato giù d’arcione chi la cavalcava, gli cascò addosso.
Intanto il povero Chinese, a cui era stato tolto via il cammello, veniva avanti, ma non aveva armi con sè. Ciò non ostante, veduto il Tartaro stramazzato e il cavallo che gli stava sopra, corse a lui e, afferrata una enorme arma che gli pendea dal fianco per sua disgrazia, ed era, non propriamente una scure, ma qualche cosa di simile, gliela strappò di dosso, e tanto s’industriò, che gli fece saltar via il cervello.
Ma il mio vecchio non avea per anche aggiustati i conti col terzo Tartaro; e vedendo che non fuggiva, come egli si aspettava, e che nemmeno veniva avanti per combattere, come poteva temere, ma che rimaneva là come un palo, si mise quatto quatto a caricar di nuovo la sua pistola. Avvedutosene allora il Tartaro, si diede alla fuga lasciando al pilota, mio vero campione, come lo chiamai in appresso, una compiuta vittoria.
In questo mezzo, io andava riavendomi. Credei da prima d’essermi svegliato da un placidissimo sonno. Ma, come vi ho raccontato dianzi, non capiva dove mi fossi, perché mi trovassi sdraiato per terra, in somma in che modo stesse quella faccenda. Pochi momenti appresso, sentii dolore, benchè non sapessi dove. Recatomi una mano al capo, la ritrassi insanguinata; compresi ove mi dolesse, e in un subito, tornatami affatto la memoria, tutto il caso mi fu di nuovo presente.
Balzato immantinente in piedi, afferrai la mia spada, ma non vedeva più nemici. Trovai un Tartaro morto ed un cavallo vivo, che gli stava quietissimamente da canto. Guardando più oltre, si mostrò al mio sguardo il mio campione e liberatore, andato allora ad osservare che cosa aveva fatto il Chinese che tornava addietro con la sua scure fra le mani. Al vedermi in piede, quel povero uomo che m’avea temuto ucciso, corse ad abbracciarmi con eccesso di contentezza. Vedendo sgocciolare il mio sangue volle visitare ove fosse la mia ferita; ma non era gran cosa: era piuttosto un’ammaccatura derivata da quel maledetto pugno, ma che non porto gravi conseguenze; in fatti di lì a due o tre giorni fui perfettamente guarito.
Con tutta la nostra vittoria per altro non feci un grande guadagno: acquistai un cavallo e perdei un cammello. Un fatto singolare poi si fu quello che, tornati al villaggio, il Chinese armò la pretensione ch’io pagassi il cammello. La non mi pareva giusta, e dovemmo entrambi comparire davanti ad un giudice di pace Chinese. A dir vero questo giudice si comportò con grande discernimento ed imparzialità.
Dopo averne uditi l’uno e l’altro, domandò gravemente al Chinese che era venuto con me per comprare il cavallo:
— «Al servizio di chi siete voi?
— Di nessuno, rispose il Chinese. Andai con questo straniero, e accennava me.
— A requisizione di chi andaste? tornò a domandare il giudice.
— A requisizione dello straniero stesso, rispose il Chinese.
— Dunque, pronunziò il giudice, in quel tempo siete stato servitore dello straniero, e poichè il cammello fu consegnato al servitore dello straniero, s’intende consegnato a lui e conviene che lo straniero lo paghi.»
La cosa, lo confesso, mi parve sì chiara, che non trovai una parola da replicare, ed ammirando una conseguenza sì ben dedotta da un giusto ragionamento, e la precisione con cui fu stabilito, pagai di buon grado il cammello e mandai per comprarne un altro. Notate per altro, che non andai io in persona. Ci ebbi troppo poco gusto alla prima.
La città di Naum e nelle frontiere dell’Impero chinese; la dicono fortificata, e per questi luoghi è tale; perchè m’arrischio affermare che tutti insieme i Tartari del Karakathay, e credo bene che ammontino ad alcuni milioni, non giungerebbero ad atterrarne le mura con le loro frecce e i loro archi; ma uno che volesse sostenerla contra un forte assalto d’artiglieria, si farebbe ridere in faccia da chi lo udisse.
Ci mancavano, come ho detto, circa due giorni prima di arrivarvi, quando a ciascuna stazione della strada maestra vennero spediti messaggieri a tutti i viandanti per avvertirli, che si fermassero finchè fosse pronta una guardia da mandar loro per iscortarli, perchè un corpo insolito di Tartari Mongoli, che facevano diecimila uomini in tutto, si era fatto vedere trenta miglia al di là della città.
Notizia veramente tutt’altro che graziosa per viaggiatori; nondimeno fu un pensiere molto cortese che il governatore si prese per noi, e ci confortammo al sapere che avremmo avuta una guardia in nostra difesa. Di fatto due giorni dopo arrivarono a noi dugento soldati speditine da una guarnigione della China, che ne stava a sinistra, ed altri trecento dalla città di Naum. I trecento ci marciavano in fronte, i dugento alla retroguardia, le guide a ciascun lato dei nostri cammelli, la carovana nel mezzo. Così ordinati e ben preparati alla battaglia, ci credemmo buoni di tener testa a diecimila Tartari Mongoli; ma nel dì appresso, quando comparvero, vedemmo che la cosa avrebbe potato andare ben altrimenti.
Era una mattina di buon’ora allorchè, venendo via da una piccola città detta Changu, ci trovammo ad un piccolo fiume, che conveniva traghettare in barca. Se i Tartari avessero avute due dita d’intelligenza, doveano scegliere il momento che eravamo imbarcati per assalirci, perchè la nostra retroguardia era lontana da noi, ma qui non si mostrarono. Bensì dopo tre ore di viaggio, entrati che fummo in un deserto della lunghezza d’oltre a quindici o sedici miglia, un nugolo di polve sollevatosi in faccia a noi ne avvertì che starebbero poco a capitare i nemici: e stettero poco da vero, perchè ci venivano incontro di gran galoppo.
I Chinesi che ci marciavano in fronte, e che parevano altrettanti gradassi il dì innanzi, principiavano a sbigottirsi, poichè si guardavano spesso alle spalle, segno non equivoco in un soldato, che ha Io non aveva in fatti altr’arma che la mia spada, debole difesa contro di tre uomini a cavallo. voglia di battersela. Come la pensava io, la pensava anche il mio vecchio pilota, che venutomi da presso, mi disse:
— «Signor Inglese, que’ conigli hanno bisogno di essere incuorati; se no, ci rovineranno quanti siamo. Vedo io che se i Tartari arrivano, non faranno resistenza di sorta alcuna.
— E quello che prevedo io pure, gli risposi. Ma come si fa?
— Come si fa? ripetè. Fate avanzar cento de’ nostri uomini, che, cinquanta per parte, ne fiancheggino l’ale, e in compagnia di ardimentosi prenderanno coraggio ancor essi. Senza ciò, quella gente là volta casacca.»
Cavalcai tosto innanzi, per comunicare un tal disegno al nostro conduttore, che lo approvò pienamente. Perciò cinquanta di noi andarono all’ala destra, cinquanta alla sinistra della vanguardia chinese, intantochè il rimanente formava una linea di riserva. Così camminammo, lasciando che i dugento Chinesi della retroguardia facessero un corpo da sè in guardia de’ cammelli: solamente in un caso di bisogno cento di loro sarebbero venuti a rinforzare gli ultimi cinquanta nostri uomini.
In somma i Tartari vennero; e in che numero vennero! Quanti, non potemmo contarli; ma se non erano più di diecimila, non erano meno, a quel che ne parve. Una sola divisione di essi si fece avanti a scandagliare la nostra posizione, correndo di fronte verso la nostra linea. Poichè gli avemmo a tiro di schioppo, il conduttore ordinò alle due ale di avanzarsi e dar loro un saluto di archibugiate da entrambi i lati; il che venne eseguito. Fecero tosto un movimento retrogrado per andare, suppongo, ad informare i loro compagni dell’accoglienza che aveano trovato. Ma bisogna dire che questo complimento gli avesse fatti sazi, perchè si fermarono in un batter d’occhio; stettero qualche tempo a deliberare; poi fatta una voltata di fronte a sinistra, dimisero il loro disegno, nè ci diedero più che fare; cosa ottima nel nostro caso, perchè da vero eravamo ben pochi per batterci contra tanta gente.
Giunti due giorni appresso alla città di Naun o Naum, ringraziammo debitamente quel governatore per la sollecitudine avuta a nostro riguardo, e posta insieme fra noi una somma di circa cento corone, la distribuimmo ai soldati che ne aveva spediti. Ci fermammo quivi tutta una giornata.
La guarnigione di Naum può veramente chiamarsi tale, perchè non conta meno di novecento soldati; e la ragione di questo si era che da prima le frontiere della Moscovia erano più vicine di quanto sieno state da poi a quelle della China. I Moscoviti aveano già abbandonato un tratto di terra dell’estensione circa di dugento miglia, che giace a ponente di Naum, trovandola desolata affatto e di nessun utile; soprattutto per essere in tal lontananza, che non tornava lo spedirvi un corpo di soldatesca per di fenderla. Di fatto ci rimaneva ancora un viaggio di due mila miglia prima di giungere a quella parte di dominio moscovito, che può propriamente chiamarsi Moscovia.
In appresso passammo parecchi grandi fiumi e due spaventosi deserti; uno de’ quali ci tenne in cammino oltre a sedici giorni, e potea chiamarsi, come un altro attraversato dianzi: Terra di nessuno. Ai 13 d’aprile ci trovammo alle frontiere dei dominî moscoviti. Credo che la prima città, o fortezza (chiamatela poi come volete) spettante ai czar nella quale ci abbattemmo, si chiamasse Arguna, perchè giace alla riva occidentale del fiume Arguna.