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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Descrizione di paesi della Tartaria moscovita; idolatria di que’ Tartari; crociata d’un genere singolare.
— «Sia lodato Dio! gli diceva, prendendolo per la mano, siamo una volta in mezzo a Cristiani.»
Ma il mio Scozzese mi rispose sorridendo:
— «Non v’affrettate tanto a rallegrarvi, compatriotta. Questi Moscoviti non sono altro che una stramba razza di Cristiani, e se si eccettui la parola, non vedrete alcuna sostanza di cristianesimo, se non dopo qualche mese di viaggio.
— Sia pure, rispose, ma meglio sempre che il paganesimo e l’adorazione del demonio.
— Ed io ho l’onore di dirvi, soggiunse egli, che se ne levate le guarnigioni e pochi abitanti delle città poste lungo la strada, tutto il resto del paese, per una lunghezza di più di mille miglia, è abitato da gente più trista ed ignorante dei pagani;» e così fu di fatto.
Eravamo or capitati nel più vasto tratto di continente che, se mi intendo alcun poco di geografia, possa trovarsi in veruna parte del globo. Dodicimila miglia almeno ci separavano dal mare a levante; due mila dall’estremità del Baltico, a ponente; circa tremila se, lasciato quel mare, seguivamo la direzione di ponente, fino al canale che disgiunge la Francia dall’Inghilterra; eravamo lontani cinquemila buone miglia dal mare Persiano o dell’Indie, e circa ottomila dal mar Glaciale. Anzi se dovessimo star su la fede d’alcuni geografi, dal nord-est (greco) sino al polo non vi sarebbe nessun mare, ma un continente che andrebbe ad unirsi con l’America, Dio sa in qual parte. Io per altro potrei addurre alcune ragioni, per cui penso essere questo un errore1.
Entrati negli stati moscoviti, un buon pezzo prima di arrivare ad alcuna città di qualche nome, le cose che ci apparvero più da notarsi furono:
Primieramente, diversi fiumi che corrono tutti a levante. Come ritrassi dalle carte che alcuni della nostra carovana avevano con loro, appariva chiaramente che i predetti fiumi andavano a versarsi nel gran fiume Yamour a Gamour, il quale poi pel naturale suo corso deve andare a gettarsi nel mare Orientale o Oceano Chinese. Quanto a certa storia che fa turar questo fiume da giunchi di gigantesco calibro, di tre piedi circa di grossezza e di trenta di lunghezza, mi sia permesso il dire che non la credo più che tanto. Non è navigato, perchè non vi è nessuna sorta di commercio da quella banda, e perchè i Tartari, ai quali soltanto appartiene, non avendo altra sollecitudine fuor quella de’ loro armenti, non v’è stato a mia saputa nessuno che abbia avuta la curiosità o di andare alla foce del fiume con barche, o di venirne con bastimenti, almeno, ripeto, a quanto so io. Una cosa certa si è, che correndo a levante per una latitudine di circa cinquanta gradi, in quella latitudine stessa trova un oceano ove scaricar le sue acque. Colà dunque siamo sicuri di un mare.
Alcune leghe a settentrione del Yamour vi sono alcuni considerabili fiumi che, come questo a levante, corrono a settentrione e vanno tutti ad unire le loro acque nel gran fiume Tartaro, così detto dalle popolazioni settentrionali de’ Mongoli Tartari, primi Tartari della terra, al dir de’ Chinesi, e che in sentenza de’ nostri geografi, sono i Gog e Magog commemorati dalla Scrittura. Tutti questi fiumi, come molt’altri di cui dovrò parlare, correndo a settentrione, fanno una evidente prova, che l’oceano settentrionale ricigne la terra da quella parte. Non sembra dunque affatto ragionevole l’immaginare colà un prolungamento di continente che si congiunga all’America; ch’è quanto dire, che non v’è comunicazione tra i mari, settentrionale e orientale. Ma su tale argomento non m’interterrò oltre; fu l’osservazione che mi occorse allora, e per conseguenza le ho dato luogo in questa parte della mia storia.
Dal fiume Arguna proseguito il nostro viaggio comodamente e a piccole giornate, dovemmo professarci grati alle cure che si è preso il sovrano della Moscovia d’innalzar città e castella più che ha potuto, ove i suoi soldati stessero di guarnigione: alcun che di simile alle stazioni di soldati che i Romani mettevano nelle più remote Avvicinatomi a questo spauracchio.... vi trovai sedici o diciassette persone..... tutti lunghi distesi col ventre all’ingiù intorno a quel ceppo d’informe legno.
contrade del loro impero (alcune delle quali, come ho letto, nella Bretagna) per la sicurezza del commercio e per gli alloggiamenti de’ viaggiatori.
E tal somiglianza diveniva maggiore da che, se bene in queste stazioni o città vi fossero guarnigioni e governatori russi che professavano il cristianesimo, gli abitanti erano veri pagani; sagrificavano agl’idoli, adoravano il sole, la luna, gli altri pianeti e tutte le costellazioni, nè ciò solamente, ma fra tutti i pagani ed eretici in cui mi sono incontrato erano i più barbari, se si eccettui che non mangiavano gli uomini, come i selvaggi dell’America.
Avemmo i primi esempi di ciò entrando negli Stati moscoviti tra Arguna e una città abitata da Tartari e Russi congiuntamente, detta Nortzionsky, per giungere alla quale dovemmo attraversare un continuo deserto o bosco che ci tenne più di venti giorni in cammino. In un villaggio situato in poca distanza dall’ultima delle indicate piazze mi prese la curiosità d’andare a vedere l’usanza di vivere di quegli abitanti, brutale e abbominevole oltre quanto uom possa immaginare. Correa per essi, io suppongo, la celebrazione di un grande sagrifizio in quel giorno; perchè era stato innalzato sopra un vecchio tronco d’albero un idolo di legno spaventoso come il demonio, o certamente come la più orribile manifattura, che si possa ideare per raffigurare il demonio. Il volto del brutto fantoccio non somigliava a quello di alcuna creatura vedutasi mai su la terra. Aveva orecchie grosse e lunghe come le corna di un caprone; occhi larghi come la moneta di uno scudo; naso ricurvo come un corno d’ariete; bocca riquadra e spalancata siccome quella d’un leone; orribili denti, adunchi come altrettanti becchi di pappagallo. Vestito nella più sordida maniera che vi possiate figurare; la sua zimarra era di pelli di pecora con la lana al di fuori; il berrettone alla tartara che gli stava sul capo, si vedeva trapassato da due enormi corna, sporgenti fuori di esso; alto circa otto piedi, ma privo di piè e gambe e d’ogni sorta di proporzione nelle sue parti.
Avvicinatomi a questo spauracchio da uccelli esposto fuor del villaggio, vi trovai sedici o diciassette persone, se uomini o donne non ve lo posso dire, perchè nel modo di vestirsi non facevano distinzione fra un sesso e l’altro, tutti lunghi distesi col ventre all’ingiù intorno a quel formidabile ceppo di informe legno. Tanto si moveano, quanto se fossero stati pezzi di tronco al pari della loro divinità: in fatti da prima li aveva creduto tali; ma, quando mi ebbero più da presso, misero tutti insieme un ululato da cani arrabbiati e fuggirono via come stizziti contro di me che aveva profanati i loro riti. Un poco più lontano dall’idolo, dinanzi alla porta di una baracca o capanna tutta fatta di pelli di pecora e di vacca secche stavano tre macellai: così io gli aveva giudicati al vedere che aveano enormi coltellacci nelle mani; nel mezzo della tenda giaceano tre pecore ed un vitello ucciso. Erano questi, senza dubbio, i sagrifizi portati a quell’insensato tronco d’un idolo; i tre macellai, i sacerdoti che ufiziavano l’altare; que’ diciassette sciocconi che vidi prosternati, i devoti venuti a porgere gli olocausti e a fare orazione dinanzi a quel pedale.
Confesso di essere stato più mosso a nausea da quella brutale stupidezza onde costoro erano tratti ad adorare una sconcia befana, che io non sia mai stato da verun’altra cosa in mia vita. Vedere la più gloriosa e perfetta fra le creature di Dio, alla quale egli ha compartiti privilegi al di sopra di tutte le opere di sua mano, ch’egli ha dotata d’un’anima ragionevole e colmata di tutte le facoltà intellettuali, opportune perchè ella onori il suo Fattore, ed egli si compiaccia d’averla fatta; vederla avvilita e digradata al segno di prosternarsi dinanzi ad uno schifoso nulla, ad un oggetto immaginario che i suoi stessi goffi adoratori hanno fabbricato, ornato di fetidi stracci e messo a posto con le proprie mani! Pensare come ciò sia effetto di mera ignoranza, condotta ad una divozione infernale dal demonio stesso che, invidiando al suo creatore l’omaggio e la devozione delle sue creature, le ha ingannate al punto di spingerle a tali orrende cose di cui diremmo abbrividita la stessa natura!
Ma a qual pro tutti i miei atti di sorpresa e le mie riflessioni? La cosa era così; io la vedeva dinanzi ai miei occhi, era inutile il maravigliarsene nè v’era luogo a chiamarla impossibile. Convertitisi tutti i miei stupori in rabbia, mi scagliai contro al simulacro, o mostro, dategli quel nome che volete, e con la mia spada gli feci tale squarcio al berrettone che lo spaccai in due; un altro degli uomini venuti meco attaccatosi alla vesta di pelle di pecora che lo copriva, gliela strappò di dosso, ed ecco in un subito alzarsi orridi ululali per tutto il villaggio. Erano i mugolamenti di due o trecento di que’ villani tutti in procinto di corrermi addosso. Non mi parve vero di poter battermela di lì, perchè ci accorgemmo in lontananza che alcuni erano armati d’archi e di frecce; io per altro da quel momento feci proposito di tornarli a visitare.
La nostra carovana dovea pernottare tre giornate nella città, lontana quattro miglia circa dal luogo or descritto; e ciò per provvedersi di cavalli, de’ quali cominciava a mancare, perchè alcuni dei nostri erano fatti storpi o divenuti rôzze di nessun uso per la perversità delle strade e massime per la lunga traversata dell’ultimo de’ deserti in cui ci abbattemmo. Mi rimaneva pertanto il tempo bastante per eseguire il disegno ch’io aveva fatto nel partirmi dal teatro di quella sacrilega adorazione.
Lo comunicai prima al mercante scozzese di Mosca a voi già noto e del cui valore aveva bastanti caparre. Raccontategli tutte le cose da me vedute ed espressogli lo sdegno ond’era compreso al pensare che la natura umana potesse essere degenerata a tal grado, soggiunsi:
— «Se potessi avere quattro o cinque uomini ben armati che mi accompagnassero, mi torrei l’incarico d’andar a distruggere quel nefando idolo e di far capire a quella marmaglia che esso non è buono d’aiutarsi da sè, per conseguenza non degno di essere adorato o pregato, molto meno che gli offrano sagrifizi.
— Il rostro zelo può essere lodevolissimo, mi rispose sorridendo il mio Scozzese. Ma che cosa vi prefiggete di fare?
— Che cosa? ripetei. Vendicare l’onore di Dio oltraggiato da questa adorazione del diavolo.
— Ma come volete vendicare l’onore di Dio, notò quel mercante, se quella genìa non è buona di comprendere che cosa v’intendiate con ciò, semprechè non aveste l’abilità di parlarle e di farvi capire? Sapete che cosa ci guadagnerete? che vi faranno la guerra e sarete battuto: ve ne do parola io, perchè sono una genìa di disperati, massime ove si tratti di difendere la loro idolatria.
— Non potremmo, diss’io, far la nostra faccenda segretamente al buio, poi lasciar giù uno scritto in loro lingua che spiegasse ad essi i motivi e le ragioni della nostra condotta?
— Uno scritto! Se mettete insieme cinque delle loro nazioni, non ci trovate un uomo che sappia scrivere una lettera o leggerne una parola.
— Maladetta ignoranza! esclamai. Pure mi sento un grande prurito di mandare ad esecuzione questo divisamento. Forse la natura farà con essi le veci del mio scritto conducendoli a dedurre dall’evidenza stessa del fatto quanto bestiale sia la loro adorazione.
— Ascoltatemi, signore, conchiuse il mercante; se il vostro zelo vi spinge sì caldamente a mettervi in questa impresa, potete servirvi. Bisogna per altro ch’io vi faccia notare un’altra cosa. Queste nazioni selvagge sono assoggettate sol dalla forza al dominio del czar di Moscovia, e se fate questo, c’è da scommettere dieci contr’uno che un migliaio di coloro si porterà a Nortziousky per chiedere una soddisfazione al governatore; e se questi la negasse loro, ci sarebbe ancora da scommettere dieci contr’uno che si ribellerebbero. Avreste fatto nascere in questi paesi una nuova guerra con tutti i Tartari.»
Questa osservazione, lo confesso, sedò per un pochino di tempo i pensieri che mi bollivano per la testa; ma essi tornarono sempre su lo stesso cantino, e tutta la giornata m’andai lambiccando il cervello a studiare, se par vi fosse qualche possibilità di mandare ad effetto il mio disegno. Verso sera il mio Scozzese, incontratomi a caso al passeggio fuor delle mura della città, tornò a parlarmi.
— «V’ho un po’ distolto dal pio disegno, di cui m’avevate parlato in giornata. Se ho a dirvela, me ne sono trovato alquanto pentito; perchè nell’abborrire l’idolatria non la cedo a voi.
— Vi dirò; me ne avete distolto alcun poco circa al modo dell’esecuzione. Non crediate per altro di avermelo cacciato fuor della testa. E credo che arriverò a metterlo in atto prima di abbandonare questa piazza, quand’anche il governatore, per dare una soddisfazione a quegl’idolatri, dovesse consegnarmi nelle loro mani.
— Che cosa dite? Dio ve ne guardi dall’essere consegnato nelle mani d’un tal branco di mostri! Non credo nemmeno che il governatore lo farebbe. Sarebbe lo stesso che mandarvi ad essere trucidato.
— E che cosa credete che mi farebbero?
— Ve lo dico subilo, narrandovi come aggiustarono per le feste un povero Russo, che andò a pungerli nella loro religione, come faceste voi, e che presero prigioniero dopo averlo storpiato con una freccia, affinchè non potesse fuggire. Primieramente lo spogliarono de’ suoi panni finchè fosse nudo del tutto; poi lo collocarono ben assicurato su la cima del loro idolo mostro; gli si posero in un grande circolo attorno a tiro d’arco; indi gli lanciarono tante frecce quante se ne poterono conficcar nel suo corpo. Finita una tale operazione, bruciarono lui e le frecce ond’era fittamente attorniato, e fu questo il sagrifizio con cui placarono il loro idolo.
— Ed era lo stesso idolo? gli domandai.
— Sì; lo stesso.
— A questo proposito, soggiunsi, vi conterò una storiella.»
Qui mi feci a dirgli come i nostri a Madagascar avessero arso e saccheggiato un intero villaggio, non perdonando nè ad uomini nè a donne nè a fanciulli, sol perchè quegli abitanti avevano ucciso uno di nostra gente; storia che vi ho già raccontata.
— «Avremmo maggior ragione, soggiunsi, di trattar così questo intero villaggio.»
Dopo avere ascoltato attentamente il mio racconto, quando fui giunto a questa conclusione, mi disse:
— «Voi prendete un grosso equivoco. Non furono gli abitanti di questo villaggio quelli che trattarono sì barbaramente un Cristiano; il villaggio di cui vi parlo io, è lontano circa un centinaio di miglia di qui; l’idolo sì, è lo stesso, perchè lo portano in processione per tutto il paese.
— In questo caso, diss’io, bisogna castigare l’idolo; e lo castigherò io se questa notte son vivo.»
In somma al vedermi tanto risoluto, anche lo Scozzese principiò a gustare il mio disegno, e finì col dirmi che non mi lascerebbe andar solo e che sarebbe venuto con me.
— «Voglio per altro, soggiunse, procurarmi prima la compagnia d’un mio compatriotta che verrà sicuramente con noi. È famoso anch’egli per zelo religioso, e tale che non potreste augurarvi un migliore ausiliario nel far la guerra a cose tanto diaboliche.»
Mi condusse dunque questo suo compagno, pure scozzese, ch’egli chiamava capitano Richardson ed al quale avea dato un pieno ragguaglio delle cose ch’io aveva vedute, e divisate. Ci accordammo che saremmo stati soli noi tre in questa spedizione. Veramente io proposi anche al mio socio d’entrarci; ma la sua risposta fu:
— «Ad un estremo caso, e quando veramente vedessi il bisogno di correre in vostra difesa, contate su me. Ma questa è un’impresa affatto fuori della mia sfera.»
Rimanemmo dunque nel proposito di andare noi tre (o posso dir quattro, perchè presi meco quel mio giovine servo che già conoscete), serbando il più stretto segreto con chicchessia. L’ora dell’esecuzione fu stabilita verso la mezzanotte.
Ciò non ostante, dopo averci pensato meglio, trovammo cosa più opportuna il differire ogni cosa sino alla prossima notte, perchè dovendo la carovana partirsi da quella città nella seguente mattina, ci figurammo che quand’anche al governatore fosse venuto il talento di chiedere una soddisfazione per cose avvenute la notte, non l’avrebbe potuto più, una volta che fossimo stati fuori della sua giurisdizione.
Il mercante scozzese, altrettanto fermo in una risoluzione poichè l’avea stabilita, quanto abile nel mandarla ad effetto, mi recò una vesta o zimarra di pelle di pecora simile a quelle recate dai Tartari, un arco ed una provvisione di frecce; le stesse armi avea apparecchiato per sè e pel suo compatriotta, e ciò, affinchè se qualche Tartaro ci vedea, non potesse indovinare chi fossimo.
Tutta la parte di notte che precedè la spedizione, fu occupata nell’impastare insieme materie combustibili, come acquavite, polvere, e quante cose di tal natura ne poterono capitare alle mani; indi quando fu l’ora, presa molta copia di pece entro una pentola di discreta grandezza, ci mettemmo in cammino.
Arrivati sul luogo verso le undici, trovammo che gli abitanti non avevano il menomo sospetto del pericolo sovrastante al loro idolo. La notte era assai buia; pure la luna ci rischiarò abbastanza per vedere che l’idolo stava tuttavia allo stesso posto di prima. Pareva che fossero tutti a dormire. Solamente nella grande capanna o baracca, ove trovai dianzi i tre sacerdoti che aveva presi per macellai, vedemmo un lume, e accostatici alla porta, udimmo voci: potevano essere cinque o sei persone che parlavano. Giudicammo pertanto che, se avessimo dato fuoco all’idolo, costoro sarebbero saltati fuori e corsi per salvarlo dalla distruzione, che gli avevamo giurata; e il come cavarcela da questa gente non lo sapevamo troppo.
La prima cosa che ne venne in mente si fu menarne via l’idolo ed appiccargli il fuoco ad una certa distanza; ma quando fummo per metterci all’opera lo trovammo troppo pesante. Eravamo dunque nell’imbroglio siccome prima. L’altro Scozzese poneva il partito di attaccare il fuoco alla baracca de’ sacerdoti, e d’accoppar uno per uno gl’individui che si fossero ingegnati di venir fuori. Ma in questo non potei accordarmi con lui. Mi sapea male d’uccidere uomini, se ciò si potea risparmiare.
— «Bene dunque, disse il primo mercante scozzese. Vi dirò io quello che dobbiamo fare; provarci a farli prigionieri, e, con le mani legate, farli star presenti all’abbruciamento del loro idolo.»
Per ventura eravamo provveduti d’una sufficiente quantità di cordicelle, che ci servivano a tenere legate insieme le nostre macchinette incendiarie. Risolvemmo pertanto di sbrigare innanzi tutto l’affare co’ sacerdoti, facendo il minore strepito che fosse possibile. La nostra prima operazione dunque fu quella di picchiare alla porta, donde uscì tosto uno de’ macellai sacerdoti. Incontanente ce ne impadronimmo, e, tenendogli chiusa la bocca e legategli di dietro le mani, lo conducemmo dinanzi all’idolo. Qui gli legammo anche i piedi e gli congegnammo una sbarra tra una mascella e l’altra, onde non potesse parlare, poi lo lasciammo lì per terra.
Due de’ nostri intanto guardavano la porta della baracca in espettazione d’un altro di costoro che venisse per vedere che cosa ci fosse di nuovo. Erano tuttavia in questa espettazione quando ci fummo uniti nuovamente dinanzi alla porta stessa, perchè non si vedeva uscire nessuno. Allora tornammo a picchiar dolcemente, e tosto comparvero altri due, cui femmo lo stesso servigio che avevamo fatto al primo; ma fummo obbligati ad andar tutti co’ nuovi prigionieri per legarli in terra dinanzi all’idolo in qualche distanza l’uno dall’altro. Tornati addietro, trovammo due altri venuti fuori della porta, e dopo di loro un terzo tra dentro e fuori dell’uscio. Fummo presti nell’agguantare e legare i primi due; il terzo corse in fretta entro la baracca gridando. Il mio mercante scozzese lo inseguì dentro la porta, e tratta a mano una composizione che avevamo fabbricata, atta soltanto a far fumo e puzzo, le diede fuoco, poi la gettò fra quelli che erano entro. Intanto, l’altro Scozzese e il mio servo si presero cura di condurre i due uomini già legati, e attaccati in oltre per le braccia l’uno all’altro, laddove erano i lor compagni, facendo ad essi le stesse cerimonie che ai primi, e lasciandoli colà a vedere se il loro idolo veniva sì o no ad aiutarli; indi si affrettarono a raggiungerci.
Poichè la fetida mistura da noi gettata entro la baracca la ebbe empiuta di tanto fumo, che que’ poveri diavoli rimasti ne erano soffocati, vi gettammo una seconda composizione che avevamo recata con noi entro un sacchetto di pelle, e che fiammeggiava al pari di una candela. Seguitane la luce, vedemmo non rimanere più nella baracca che quattro uomini andati ivi, come supponemmo, per qualcuno de’ diabolici loro sagrifizi. Erano quasi morti dallo spavento: certo li vedemmo stupidi, tremanti e incapaci in oltre di parlare, perchè il fumo li soffocava.
In una parola, c’insignorimmo anche di questi, legandoli come avevamo fatto con gli altri, e senza alcuna sorta di strepito. Doveva dire che li traemmo fuori della baracca prima di legarli, perchè quel fumo non ci garbava più di quanto garbasse a loro. Conducemmo anche questi nella maniera degli altri dinanzi all’idolo, che inverniciammo tutto da cima a fondo, non meno del suo paludamento, con pece ed altre droghe menate con noi, consistenti soprattutto in cera impastata con zolfo; poi gli empiemmo gli occhi, le orecchie e il naso di polvere; collocammo in oltre un buon razzo nel suo berrettone; in somma gli mettemmo addosso tutto l’arsenale delle materie combustibili che avevamo condotte lì. Non avevamo più bisogno di cercar altro, che qualche cosa all’intorno che aiutasse più speditamente l’incendio. Il mio Scozzese, ricordatosi allora di avere veduto entro la baracca un mucchio di seccumi, non so dirvi se strame o sterpi, vi corse insieme col suo compagno, ritornandone con due bracciate di questa roba. Dopo di ciò prendemmo i nostri prigionieri, slegammo ad essi i piedi, li liberammo della sbarra che avevano in bocca, indi schieratili dinanzi al mostruoso loro idolo, gli demmo fuoco da tutte le bande.
Stemmo lì un quarto d’ora circa aspettando che scoppiasse la polvere da noi posta in tutti i buchi della testa dell’idolo; e quando fummo persuasi che lo scoppio lo avesse fesso, sfigurato, in somma ridotto ad essere soltanto un informe tronco arrostito, che la fiamma postagli intorno non avrebbe tardato a con vertire in bragia, cominciavamo a pensare d’andarcene. Lo Scozzese si oppose.
— «Non capite, egli dicea, che se ci scostiamo di qui, que’ poveri forsennati si lanciano nel fuoco e bruciano in compagnia del loro idolo?»
Trattenuti da questa considerazione, ci fermammo finchè l’alimento della fiamma postagli intorno mancasse, indi venimmo via e li lasciammo.
Terminata così la nostra spedizione, tornammo a mostrarci ai nostri compagni della carovana che erano tutti affaccendati negli apparecchi di mettersi in viaggio, nè venne in mente a nessuno di essi che non avessimo passata la notte coricati ne’ nostri letti, com’era da supporsi di viaggiatori, che doveano prepararsi a nuovi disagi d’un lungo e faticoso cammino.
- ↑ E che fosse un errore lo provò la scoperta dello stretto di Bering; ma questo avvenne tra il 1740 e il 1741, e la storia di Robinson Crusoe era pubblicata prima del 1720.