< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Bilancio fra i beni e i mali
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Bilancio fra i beni e i mali.



L
a prospettiva che stavami innanzi agli occhi era ben trista; perchè non per mia scelta errava alla ventura in questa isola, posta affatto giù di mano dalla via che avevamo intrapresa e lontana alcune centinaia di leghe dalle scale dell’ordinario commercio di tutto il mondo, ma per esserci stato balzato, come fu detto, da una violenta burrasca; onde aveva gran ragione di ravvisare in ciò una determinazione del Cielo, il quale avesse stabilito che in questo desolato luogo e in questa lagrimevole guisa io terminassi la vita mia. Copiose lagrime mi scorreano pel volto mentre io facea tali considerazioni, e spesse volte ho fin chiesto a me stesso, perchè la Providenza potesse rovinare a tal ultimo grado le sue creature, e renderle sì del tutto miserabili, sì prive d’ogni soccorso, sì derelitte che appena sembrasse ragionevole il ringraziarla per un tal genere di vita lor conceduto.

Ma alcun che si facea tosto a reprimere nella mia mente e a riprovare tali pensieri; e particolarmente un giorno mentre io passeggiava col mio moschetto in riva del mare tutto intento coll’animo alle considerazioni del presente mio stato, parve che la ragione in certo modo mi chiamasse a ravvisarlo sotto un altro aspetto. «È vero, sembravami che questa mi dicesse, voi siete in una derelitta condizione, è vero; ma ricordatevi un poco qual sia quella degli altri della vostra brigata. Non eravate undici in quella scialuppa? I dieci dove sono? Perchè mo non si sono salvati quelli, e non vi siete perduto voi? Perchè siete stato voi privilegiato dagli altri? È egli meglio esser qui o là?» E nel dir accennava col dito il mare. Tutti i mali vanno considerati con quel bene che è, e con quel peggio che potrebbe essere in loro.

Allora ricorrendomi di nuovo alla mente, come io fossi ben provveduto per la mia sussistenza, pensava qual sarebbe stata la mia condizione se non fosse accaduto (e ben ve n’era la probabilità di undici mila ad uno) che il nostro vascello si fosse sollevato dal luogo ore arrenò, e se non fosse stato trasportato sì vicino alla spiaggia, ch’io avessi avuto il tempo di procacciarmi da esso tutto quanto ne trassi; qual sarebbe stato il mio caso, se condannato a vivere in quella condizione che mi si offerse a prima giunta sopra la spiaggia, privo di tutte le cose necessarie alla vita o di quelle che son necessarie a provvedersi di queste. «Particolarmente, io diceva ad alta voce, benchè non parlassi con altri che con me medesimo, che cosa avrei io fatto senza un moschetto, senza munizioni, senza stromenti per imprendere qualche lavoro, senza vestiti, un letto, una tenda o qualche modo di ripararmi?» E tutte queste cose io aveva ora in discreta quantità, ed era su la buona via di provvedere a me stesso in modo da vivere, facendo senza del moschetto quando la mia munizione sarebbe finita; ora io aveva una sufficiente speranza di sussistere senza grandi bisogni fin ch’io vivea; perchè aveva fatto i miei computi fin dal principio sul modo di provvedere ai casi possibili dell’avvenire, non solo dopo che sarebbe finita la mia munizione, ma quand’anche sarebbero scemate le mie forze o la mia salute.

Confesso che non aveva pensato per nulla alla possibilità di veder distrutta in un soffio la mia munizione, intendo di vederla distrutta da un fulmine; da ciò nacquero i pensieri che mi soprappresero quando tuonò e lampeggiò, come poc’anzi osservai.

Ed ora accingendomi alla malinconica relazione di una scena di vita taciturna, di una tal vita che forse non se ne udì mai una simile dacchè il mondo è mondo, io la ripiglierò dal suo principio, continuandola nel suo ordine di tempo. Correa dunque il giorno 30 di settembre, quando, nel modo narrato dianzi, posi il piede la prima volta in questa orribile isola; quando il sole essendo per noi nel suo equinozio d’autunno sovrastava esattamente alla mia testa, perchè dalle osservazioni e dai computi che ho istituiti, mi risultò di essere nella latitudine di 9 gradi e 22 minuti al nord della linea.

Dopo essere rimasto quivi circa dieci o dodici giorni mi venne in mente che avrei perduto il computo del tempo per mancanza di libri, penne ed inchiostro, e che avrei persino dimenticati i giorni festivi confondendoli con quelli di lavoro. Perchè ciò non avvenisse, alzai uno stipite in forma di croce su la spiaggia ove presi terra la prima volta, e con un coltello scolpii sovr’esso in lettere maiuscole: Io arrivai su questa spiaggia il dì 30 settembre 1659. Sui lati dello stesso stipite feci ogni giorno col coltello stesso una tacca che nel settimo giorno era lunga il doppio, e questa tacca doveva esser pure più lunga il doppio della precedente al primo giorno di ciascun mese; così io tenni il mio calendario o sia registro settimanile, mensile ed annuale del tempo.

Ma accadde che fra le molte cose procacciatemi dal vascello nelle parecchie gite a bordo di esso già menzionate, molte ne avessi ritratte di minor valore, benchè non del tutto inutili per me, le quali io trovai solamente qualche tempo dopo frugando entro le casse e particolarmente penne, inchiostro e carta, oltre ad altre serbate nei ripostigli del capitano, del suo aiutante, del cannoniere e del carpentiere; tra queste tre o quattro compassi, alcuni stromenti matematici, quadranti, cannocchiali, carte e libri di nautica, cose tutte che unii insieme, ne avessi o no il bisogno. Trovai ancora tre bellissime bibbie che faceano parte del mio carico quando abbandonai l’Inghillerra e che aveva unite al fardello de’ miei arnesi; parimente alcuni libri portoghesi, e tra essi due o tre libretti di preci cattoliche, e molti altri che conservai con gran cura. Nè tralascerò che avevamo nel nostro vascello un cane e due gatti, su l’eminente storia delle quali bestie mi accade qui il fare alcun cenno. I gatti me li portai entrambi meco nella prima zattera, e quanto al cane salto fuori del vascello da sè, e venne a cercarmi a nuoto fin su la spiaggia il giorno dopo che ci arrivai col mio primo carico. Ebbi in esso un fedel servitore per molti anni. Non mi mancò mai cosa ch’egli fosse buono di cercarmi, ne compagnia che egli potesse tenermi; restava a desiderare che mi parlasse, ma questo non lo poteva. Tornando dunque al primo discorso, io trovai penne, inchiostro e carta, delle quali cose feci il miglior governo possibile; e potrò far vedere, che finchè durommi l’inchiostro, tenni i miei registri con la massima esattezza, il che non potè più avverarsi quando questo mi mancò; ma per quanti modi mi studiassi, non mi riuscì il fabbricare inchiostro d’alcuna sorta.

E ciò mi fa ricordare che mi mancavano molte cose a malgrado di tutte quelle che aveva adunate. Una di queste fu da principio l’inchiostro; ma mi mancarono poi sempre e una pala e una vanga e una zappa per ismovere la terra, ed aghi e spilli e filo. Quanto a vestimenta di tela, di cui pure aveva scarsezza, il caldo m’insegnò presto a poterne far senza con poca fatica.

La mancanza di stromenti per lavorare facea ch’io procedessi lentamente nelle mie manifatture, ed era quasi passato un intero anno prima ch’io avessi finita la palizzata e munita all’intorno la mia abitazione. I pali o stecconi, gravi sì che se fossero stati di più non avrei potuto levarli, mi portarono via lungo tempo per tagliarli ed apparecchiarli ne’ boschi, ed in oltre per trasportarli a casa ben da lontano; laonde mi ci voleano talvolta due giorni fra lavoro e condotta d’un solo di questi, ed un altro per conficcarlo nel terreno; al qual fine io mi valsi su le prime d’un pezzo di legno pesante, indi mi ricordai de’ rampiconi di ferro che trasportai dal vascello e che rinvenni di fatto; ma benché mi rendessero un po’ men malagevole il piantare dei detti pali, non cessava questa di essere una fatica penosa e tediosissima. Per altro avrei dovuto io, qualunque lavoro imprendessi, badare al tedio che mi potesse costare, io che vedeva d’avere tempo anche d’avanzo? Terminato quel lavoro, tutte le mie faccende, almeno secondo le mie previdenze d’allora, si sarebbero ridotte all’andare in giro per l’isola a procacciarmi nudrimento; e tal cosa dal più al meno io la faceva ogni giorno.

Intanto datomi a meditare anche più seriamente la mia condizione e le circostanze tra cui mi vedeva, ne stesi uno specificato prospetto, non certo per lasciarlo a chi verrebbe dopo di me (poichè secondo ogni probabilità non avrei avuto di molti eredi), ma per liberare i miei pensieri dalla giornaliera molestia di affannarsi ed affiggersi su le cose che non aveano verun aspetto di volersi cambiare: e poiché la mia ragione principiava ora a padroneggiare il mio abbattimento d’animo, cercai da essa i possibili conforti col mettere a confronto i mali che mi premeano e i beni che mi restavano, per aver come una norma a distinguere il caso mio da casi anche peggiori; in somma con una perfetta imparzialità compilai un conto di dare e avere tra i miei mali ed i beni che a questi mano mano contrapponeva.

Mali. Beni.
Io sono abbandonato sopra un’isola orribile e deserta, senza veruna speranza di liberazione. Ma io vivo; io non mi son annegato, come è avvenuto di tutti i miei compagni.
Io solo forse tra tutti gli uomini sono stato scelto a menare una vita di una miseria senza pari. Ma così solo io sono stato scelto tra tutti quelli del naviglio a scampare dalla morte; e colui che dalla morte mi ha salvato in modo di miracolo mi può liberare dallo stato in cui sono.
Io sono separato da tutta l’umana generazione, io sono un solitario bandito dal consorzio de’ miei simili. Ma io non mi muoio di fame sopra una terra sterile che non mi porge alcun mezzo di vita.
Io non ho vesti affatto da covrirmi. Ma sono in un clima caldo, e ancorchè avessi vesti, non potrei comportarle.
Io sono senza difesa, e senza mezzi di contrastare alla violenza degli uomini o delle bestie. Ma sono in un’isola dove non ho veduto alcuna bestia salvatica che mi possa nuocere, come ne vidi sulla costa d’Africa. Che sarebbe stato di me, se avessi naufragato su quella costa?
Io non ho persona, con cui possa ragionare e consolarmi. Ma Iddio, quasi per miracolo, ha spinto il naviglio assai vicino alla riva, affinchè io avessi potuto ritrarne tante cose necessarie ai miei presenti bisogni, e che insieme mi hanno posto nel caso di assicurarmi il vitto per tutto il resto della mia vita.

Dall’insieme di questo registro abbiamo una irrefragabile testimonianza del non esservi quasi mai una condizione sì miserabile di vita, che non vi sia alcun che o di bene positivo o di male negativo per cui non dobbiamo ringraziare la Providenza.



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