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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Disposizioni per provvedere ai maggiori comodi della casa edificata.
Ho già detto come la mia abitazione fosse sotto una tenda innalzata a fianco di un monte, circondata da una doppia forte barriera di stecconi e di gomone; barriera ch’io potei oramai chiamare un muro, per averle posto all’intorno dalla parte esterna un parapetto di zolle, grosso circa due piedi; e qualche tempo dopo, passato credo un anno e mezzo, feci partir da questo muro alcun travicelli che, coperti di rami d’albero e di quanto potei all’uopo mio radunare, divenne una specie di tetto per difendere tutto l’edifizio dalle piogge, qui violentissime, com’ebbi ad accorgermene, in alcune stagioni dell’anno.
Ho parimente notato che trasportai tutte queste mie sostanze, parte entro la palizzata, parte entro la grotta scavata nel monte; ma mi conviene ancora osservare come queste presentassero un sì confuso e disordinato mucchio di cose, che mi portavano via tutto lo spazio, onde non trovava in mezzo ad esse luogo ove voltarmi. Mi posi pertanto all’opera d’ingrandire la mia grotta scavando più in dentro nel monte, il che non mi diede molta fatica, perchè il massiccio di esso, di natura sabbioso, facilmente arrendevasi al mio lavoro; e poichè mi vedeva perfettamente sicuro dalle fiere, dopo avere scavato nel fianco destro della rupe, mi volsi di nuovo a destra col mio scavamento sinchè mi trovassi affatto al di fuori e della grotta e della palizzata, con che mi procurai un’uscita fuor della mia fortezza. Ciò mi diede non solamente una porta di soccorso, per così esprimermi, che mi agevolava l’uscita e l’entrata così nella palizzata come nella grotta, ma un maggiore spazio per allogarvi le cose mie.
Ora i miei pensieri si volsero a fabbricarmi diversi arnesi de’ quali io sentiva grandemente la privazione, e specialmente di una tavola e di una scranna, perchè senza queste due cose io non potea godere dei pochi conforti che aveva in questo mio mondo. Senza una tavola, come scrivere, come mangiare, come fare agiatamente molte cose che mi sarebbe tanto piaciuto di fare? Mi accinsi pertanto all’opera. Nè a questo proposito posso starmi dall’osservare, come essendo la nostra ragione l’origine e la sostanza vera delle scienze matematiche, ciascun uomo può, ove ponderi e misuri ciascuna cosa con la ragione e deduca da questo studio razionali giudizi, può col tempo divenire maestro in ciascun’arte meccanica. Io non avea mai maneggiato uno stromento d’artigiano in mia vita; pure a poco a poco, a furia di fatica, di applicazione e di sforzi fatti sopra me stesso, arrivai finalmente ad accorgermi che non mi mancava cosa la quale io non fossi stato buono di farmi, massimamente se avessi avuto i necessari stromenti. Pure moltissime ne feci anche senza di questi ed alcune con non altri arnesi che un’accetta e una pialla, che forse non furono mai adoperate a simile uso; ciò per altro non senza un’immensa fatica. Per esempio, se mi bisognava un asse, io non aveva a far altro che abbattere un albero, mettermelo transversalmente dinanzi, e spianarlo ad entrambe le superficie con la mia accetta finchè fosse ridotto all’incirca alla sottigliezza d’un asse, poi lo rendeva liscio con la mia pialla. È ben vero che con questo metodo non poteva cavare se non un asse da tutto un albero; ma a ciò, come pure all’enorme dispendio di tempo e di fatica che mi bisognava per fare un asse, io non aveva altro rimedio fuorchè la pazienza; d’altra parte il mio tempo e la mia opera erano sì a buon mercato, che tanto facea per me l’impiegarli in un modo quanto in un altro.
Ciò non ostante la tavola e la scranna che mi fabbricai, come ho detto da prima, furono costrutte coi corti pezzi di asse portati via dal vascello su la mia zattera. Alcune altre assi che mi procurai nel modo dianzi indicato, mi giovarono a fare ampi scaffali della larghezza di un piede e mezzo collocati un sopra l’altro lungo una parete della mia grotta per annicchiarvi tutti i miei arnesi, chiodi e ferramenti, ed in una parola per tenere tutte le cose mie in tal conveniente distanza l’una dall’altra, da non durar fatica a trovarle quando ne aveva bisogno. Conficcai alcuni piuoli nel muro del monte per sospendervi i miei moschetti e tutti quegli arnesi atti ad essere tenuti in tal modo; laonde chi avesse veduta la mia grotta, gli sarebbe sembrata un magazzino generale di tutte le necessarie provvigioni; ed io di fatto avea ciascuna di esse sotto la mano in tal guisa, ch’io poteva altamente compiacermi di vedere tutte le cose mie in tanto buon ordine, e specialmente di vedere dintorno a me tanta abbondanza delle cose più necessarie.
Fu questo il momento in cui mi nacque il pensiere di tenere un registro de’ miei lavori di ciascun giorno; perchè da vero su le prime io era tanto stravolto, nè solo per la fatica, ma pel disordine fattosi nella mia mente, che anche il mio giornale sarebbe stato pieno di memorie confuse; per esempio avrei scritto così: «Ai 30 settembre, dopo avere raggiunta la spiaggia ed essere campato dal pericolo di annegarmi, in vece di ringraziar Dio per la mia liberazione, avendo prima vomitato una grande copia d’acqua salata, di cui m’avea empiuto lo stomaco, e riavutomi alcun poco, corsi su e giù per la spiaggia, contorcendomi le mani e battendomi testa e faccia e sclamando nella mia miseria e gridando forte: Son disperato! son disperato! finchè spossato e debole fui costretto stendermi sul terreno per riposare, ma non ardii prender sonno per la paura di essere divorato.»
Alcuni giorni appresso, e dopo essere stato a bordo del vascello per ritrarne quante cose potei, non avrei avuto testa per fare un giornale meglio che nei primi giorni, perchè non poteva starmi dal salire su la cima di un monticello e di guardar fiso il mare con la speranza di vedere un qualche vascello. La fantasia mi dipingeva una vela ad una distanza immensa, ed io pascendomi di questa speranza mi metteva con gli occhi immobili a rischio quasi di perderli; poi mancatami d’un tratto questa speranza, mi buttava seduto in terra, piangeva come un fanciullo e il mio stato di demenza accresceva la mia desolazione.
Ma giunto a superare fino ad un certo grado questi travagli, assicuratomi un’abitazione, e allogate le mie sostanze, fattomi una tavola e una scranna, arridendomi all’intorno quella poca felicità che era da sperare nel caso mio, principiai a tenere il mio giornale, di cui qui vi presento una copia, benchè vi troverete la ripetizione di alcune particolarità già descritte. Esso non è più lungo del tempo che durai a scriverlo, perchè, mancatomi l’inchiostro, dovei dimetterne il pensiere.
30 settembre 1659. Io povero miserabile Robinson Crusoe naufragato, durante una spaventosa burrasca, dall’impeto delle onde fui gettato a terra in una orribile e sfortunata isola che chiamai l’Isola della disperazione. Gli altri miei compagni del vascello rimasero annegati, io poco meno che morto.
Passai tutto il rimanente della giornata nei disperarmi su le tremende condizioni a cui mi vidi ridotto, perchè io non aveva nè cibo, nè casa, nè panni per cambiarmi, nè luogo ove rifuggirmi. In quella disperazione d’ogni soccorso io non vedeva se non la morte dinanzi a me, o rimanessi divorato dalle fiere o trucidato dai selvaggi, o perissi di fame per mancanza di nutrimento. Al sopraggiugnere della notte dormii sopra un albero per la paura di essere sorpreso da esseri malefici, fossero uomini selvaggi, fossero belve; pure dormii profondamente, benchè piovesse tutta la notte.
1 ottobre. Nella mattina vidi con mio grande stupore che il vascello, sollevatosi con l’alta marea, era stato spinto sopra un banco di sabbia assai più vicino all’isola, la qual vista fummi di conforto per una parte, perchè vedendo il vascello stesso diritto su la sua chiglia nè andato in pezzi, concepii la speranza, se il vento cessava, di andarvi a bordo e di trarne fuori e nutrimenti ed altre cose necessarie a tenermi in vita ancora per qualche tempo; ma d’altra parte la stessa vista mi rinnovellò il cordoglio della perdita de’ miei compagni che, se non avessero abbandonato il vascello, sarebbero riusciti a salvarsi o almeno non sarebbero rimasti annegati, come furono; e scampando gli uomini avremmo forse potuto tutti insieme fabbricare con gli avanzi del legno naufragato una scialuppa, che ne avrebbe condotti in qualche altra parte del mondo. Perdei molto tempo di questo giorno in tali perplessità, ma finalmente, vedendo che il vascello posava quasi affatto su l’asciutta sabbia, me gli avvicinai quanto mi fu possibile; indi superato a nuoto il tratto d’acqua che me ne disgiungeva, vi entrai a bordo. Tutta questa giornata continuò ancora piovendo benchè non facesse vento del tutto.
Dal 1 al 24 detto. Questi giorni furono interamente impiegati in viaggi dall’isola al vascello per cavarne fuori tutto quel bisognevole che mi riuscì, trasportandolo coll’ingrossar delle maree sopra zattere. Continuò sempre a cadere molt’acqua dal cielo, non senza per altro alcuni intervalli di buon tempo; ma a quanto sembra era quella la stagione delle piogge. In uno de’ suddetti giorni (fu il 20) mi andò sossopra la mia zattera, e con essa tutte le provvigioni ch’io vi trasportava caddero in mare; ma ciò mi avvenne in acqua bassa, e le cose cadute essendo assai grevi, le ricuperai quasi tutte a marea calante.
25. Tutto il giorno e la notte durò la pioggia accompagnata da folate di vento; fattesi queste più violente, andò in pezzi il vascello che non si lasciò più vedere, eccetto alcuni frantumi di esso, e ciò in tempo di bassa marea. Impiegai questa giornata nel coprire, affinchè la pioggia non me le mandasse a male, le mie sostanze.
26. Girai tutto il dì qua e là per la spiaggia in cerca d’un luogo ove mettere la mia dimora, desideroso sempre di guarentirmi dagli assalti d’ogni sorta di nemici viventi. Sceltomi sul far della sera un sito adatto al di sotto di un monte, contrassegnai con un semicircolo lo spazio del futuro mio accampamento, ch’io divisai fortificare all’intorno con uno steccato doppio di pali, afforzato internamente con pezzi di gomona e munito di zolle al di fuori.
Dal 26 al 30 non perdonai a fatica per trasportare tutte le cose mie nella nuova abitazione, e ciò a malgrado quasi sempre di un’orrida pioggia.
31. Alla mattina andato per l’isola col mio moschetto a fine di procacciarmi nutrimento e di scoprire paese, uccisi una capra il cui capretto mi seguitò sino a casa; ma dovetti ammazzare anche questo perchè non voleva mangiare.
1 novembre. Al di sotto del monte piantai la mia tenda, sotto la quale dormii questa notte la prima volta; la tenni larga quanto potei, mercè di stecconi, alle cui estremità raccomandai il mio letto pensile.
2. Ordinai tutte le mie casse e i miei legnami, compresi quelli di cui mi era servito a fabbricarmi le zattere, formandone un semicircolo di fortificazione un po’ più in dentro della prima cinta.
3. Uscito di casa col mio moschetto uccisi due uccelli somiglianti ad anitre salvatiche, veramente eccellenti a mangiarsi. Dopo il mezzogiorno mi accinsi all’opera di fabbricarmi una tavola.
4. In questa mattina ripartii l’ordine delle operazioni della giornata, il tempo cioè di andare a caccia, quello di dormire, quello di ricrearmi. Ogni mattina pertanto, se non piovea, faceva una passeggiata di due o tre ore col mio moschetto; alle undici in circa mi metteva al lavoro della mia tavola; poi mangiava alla meglio ch’io poteva. Dalle dodici alle due mi coricava per dormire, così volendo la stagione grandemente calda. Sul far della sera mi rimetteva di nuovo al lavoro, che in tutto questo giorno e nel seguente consistè nel fabbricarmi la mia tavola, perchè era tuttavia un gran tristo artigiano; benché in appresso il tempo e il bisogno mi abbiano reso naturalmente un compiuto maestro d’arti meccaniche, come credo che nel caso mio sarebbe accaduto a qualunque altro.
5. Andando attorno col mio moschetto, e in compagnia del mio cane, uccisi un gatto salvatico la cui pelle era morbidissima, ma la carne buona a nulla; perchè era mio costume il levare e conservare le pelli di quanti animali ammazzava. Tornando addietro lungo la riva del mare, notai molti uccelli acquatici di cui non seppi conoscere le specie; ben rimasi attonito e poco meno che spaventato al vedere due o tre vitelli marini che, mentre io stava contemplandoli, perchè non sapeva bene se tali fossero, guizzarono nel mare e per questa volta mi si sottrassero.
6. Dopo la mia passeggiata della mattina tornai ancora al lavoro della mia tavola, che terminai finalmente, ma non mi garbava gran che; pure non andò guari che vidi come correggerne i difetti.
Dal 7 al 12. Col primo di questi cominciò a stabilirsi la bella stagione. Venendo fino ad una parte del 12 ed eccettuato l’11 che, secondo i miei conti, era una domenica, impiegai il tempo nel fabbricarmi una scranna, e quanto mi affaccendai per ridurla ad una tollerabile forma, senza che mai ne fossi contento! anzi nel farla e rifarla più d’una volta la misi in pezzi.
Nota. — Assai presto trascurai il registro delle domeniche, perchè omesso una volta di contrassegnarle con la tacca più lunga nel mio stipite, dimenticai in qual giorno cadessero1.
13. Piovve tutto questo giorno, il che mi refrigerò oltre ogni dire e rinfrescò pure la terra; ma l’acqua venne accompagnata da terribili tuoni e lampi che mi fecero un’orrida paura a cagione della mia polvere. Cessato appena il temporale, mi determinai a separare la provvigione nel maggior numero possibile di parti, perchè non rimanesse tutta in pericolo.
Dal 14 al 16. Passai quindi questi tre giorni facendo tante cassette o scatolette quadrate, ciascuna delle quali non portasse se non una libbra o due al più di polvere; indi posto in ciascuna di esse il suo carico le allogai in ripostigli sicuri e lontani quanto mi fu possibile l’uno dall’altro. In uno di questi tre giorni uccisi un grande uccello di una carne buona a mangiarsi; come si chiamasse, non l’ho mai saputo.
17. In questo giorno cominciai a scavare dalla mia tenda entro la rupe per acquistarmi quel maggiore spazio che mi conveniva.
Nota. — Per un tale lavoro mi mancavano alcune sustanzialissime cose, vale a dire, una zappa, una vanga, una carriuola, o almeno un canestro; laonde prima d’accingermi all’opera pensai al modo di supplire alla mancanza degl’indicati stromenti. Quanto alla zappa, mi valsi de’ rampiconi di ferro che trovai sufficienti al mio uopo, benchè di soverchio pesanti; ma l’altro stromento, la vanga, era di si inevitabile necessità, che da vero io non vedeva la possibilità di venire a termine di nulla senza di essa, nè sapeva a quale degli stromenti che io possedeva potessi fame fare le veci.
Dal 18 al 22. Nel giorno appresso cercando per le foreste, trovai un albero di quel legno o simile a quel legno che gli abitanti del Brasile chiamano per la sua durezza legno di ferro. Di questo con grande fatica, e non senza rovinar quasi affatto la mia accetta, tagliai un pezzo, che anche il trasportarmi a casa non mi costò poca difficoltà, tant’era pesante. L’eccessiva durezza di questo legno, e il non avere altra materia di cui valermi, mi fece perdere un gran tempo in tale lavoro, il che apparirà chiaramente ove io dica che a poco a poco lo ridussi effettivamente alla forma di una vanga. Nel manico essa somigliava esattamente le nostre vanghe inglesi, ma la parte piatta non essendo di ferro non poteva durarmi lungamente; nondimeno mi servì abbastanza per gli usi ai quali dovetti adoperarla; certamente non fuvvi vanga, cred’io, foggiata in questa maniera o costata sì lungo tempo per fabbricarla. Non era ancora provveduto abbastanza, perchè mi mancava un canestro e una carriuola. Un canestro non poteva farmelo in nessuna maniera, perchè io non aveva fin allora intorno a me, o almeno non l’aveva trovata, veruna pianta che, pieghevole come vimini, fosse opportuna a tale lavoro; quanto poi alla carriuola capiva che avrei potuto far tutto fuorchè una ruota, genere di manifatture estraneo affatto alle mie cognizioni, ed impresa per conseguenza della quale non sarei venuto a capo giammai; oltrechè, io non aveva alcun modo di procurarmi una caviglia di ferro che passando pel centra o asse della ruota stessa la facesse girare. A questa idea pertanto io rinunziai; e per portar via la terra ch’io scavava nella grotta, mi feci come una specie di quei truogoli entro cui i manovali portano la calcina ai muratori. Tal cosa non mi fu tanto difficile quanto il fabbricarmi una vanga; ciò non ostante e il truogolo e la pala e il tempo speso nello studiare a farmi una carriuola non mi portarono via meno di quattro giorni; così almeno credo, eccettuata sempre la passeggiata della mattina col mio moschetto, che rare volte io tralasciava e che rarissime volte ancora mancava di fruttarmi alcun che da mangiare.
23. L’altro mio lavoro riposò finchè non ebbi terminati gl’indicati stromenti. In questo giorno vi tornai con tutta quella intensione che il tempo e le mie forze mi permisero; onde diciotto interi giorni, cioè fino al 10 del seguente dicembre, furono spesi nel far più larga e profonda la mia grotta, affinchè tutte le cose mie vi si allogassero comodamente.
Nota. — Durante tutto questo tempo io mi adoperai a rendere tale grotta o stanza tanto spaziosa, che mi facesse ufizio di guardaroba o magazzino, di cucina, di tinello e di cantina. Quanto alla camera da letto, non mi dipartii dalla tenda, se non tal volta nelle giornate umide, quando la pioggia cadeva sì fitta ch’io non potea mantenermi asciutto, il che m’indusse in appresso a coprire tutto il mio edifizio posto entro la palizzata con lunghe pertiche, che in forma di travicelli si appoggiavano contro alla montagna e che riparai con pezzi di vele e larghe foglie d’alberi a guisa di un tetto di stoppia.
10 dicembre. Io cominciava a credere ora che la mia grotta o cantina fosse finita, quando in un subito (convien dire ch’io l’avessi tenuta troppo larga) una grande quantità di terra cominciò a dirupare dalla cima e da un lato sì fortemente che n’ebbi grande paura; ne era una paura senza ragione, perchè se vi rimaneva sotto, non aveva bisogno mai più d’un becchino. Per cagione di tale disgrazia ebbi un bel lavorare in appresso, perchè mi conveniva portar fuori la terra caduta e, ciò che importava più, appuntellare la soffitta per assicurarmi che lo stesso inconveniente non tornasse a succedermi.
Dall’11 al 16. A ciò io pensai nel dì appresso, e presi due pali o puntelli, li piantai diritti fino alla cima della grotta ponendo due pezzi di asse incrocicchiati su ciascun d’essi. Ciò fu terminato nel dì appresso; poi piantando altri puntelli con assi nella stessa maniera, entro una settimana circa trovai assicurata la mia soffitta. I puntelli collocati in filari mi servirono di altrettanti spartimenti di quella mia stanza.
Dal 17 al 19. In questi giorni posi scaffali e conficcai chiodi nei puntelli per attaccarvi tutte le cose ch’erano acconce a tal genere di collocamento. Allora cominciai a vedere assestate le cose entro il mio abituro.
20. Trasportato quanto dovea stare nella grotta, mi diedi ad accomodare la parte di essa che doveva servirmi di tinello, collocando alcune assi di cui per dir vero cominciava ad avere penuria, e disponendo sovr’esse le mie vettovaglie. Venni così a formarmi una specie di tavola da cucina.
24. Ha piovuto tutta la notte e tutto il giorno, nè mi son mosso di casa.
25. Ha piovuto tutto il giorno.
26. Non ha piovuto, e la terra più fresca del giorno innanzi ha permesso che si respirasse più agiatamente.
27. Uccisi un capretto, e ne storpiai un altro che presi e condussi meco per un guinzaglio; giunto a casa fasciai e munii di stecche la sua gamba ch’era rotta.
Nota. — Presi tal cura di esso per farlo vivere; di fatto la sua gamba tornò sana e gagliarda come prima, e a forza di essere stato nudrito sì lungo tempo divenne mansueto, andò a pascolarsi su la verdura posta dinanzi alla porta della mia abitazione, nè volle più andarsene via. Fu questa la prima volta che mi nacque il pensiere di addimesticare animali, per ritrarne nudrimento quando la mia polvere e le mie munizioni sarebbero finite del tutto.
Dal 28 al 31. Gran caldo e non un fiato di brezza; onde non mi mossi di casa fuorchè verso sera per andar in cerca di nudrimento. Impiegai questi giorni a mettere sempre in miglior ordine le mie suppellettili.
1 gennaio 1660. Continuò il gran caldo; pure uscii di buon’ora e sul tardi col mio moschetto, riposandomi tutto il resto della giornata. Nella sera internandomi nelle valli che giacciono verso il centro dell’isola trovai che vi era abbondanza di capre, ma timorose quanto mai e difficili a lasciarsi raggiugnere; pure risolvei di provare se il mio cane potesse arrivare a fermarle.
2. Perciò lo condussi meco in questo giorno e lo lanciai contro alle capre; ma aveva sbagliati i miei conti, perchè queste fecero testa al cane, ond’esso, compreso ottimamente in qual pericolo si sarebbe posto, non volle più avvicinarsi a quegli animali.
3. Cominciai il mio vallo o muro di cínta che divisai fosse ben fitto e gagliardo, non mi abbandonando mai la paura d’assalti per parte d’uomini o di bestie.
Nota. — Poichè questo muro di cinta fu già descritto dianzi, ho omesso con proposito determinato la parte del mio giornale che lo riguarda; mi basta l’osservare che non vi bisognò minor tempo di quello frapposto tra il 3 di gennaio e il 14 aprile per eseguirne i lavori, ridurlo a termine e perfezionarlo, ancorchè non avesse un perimetro d’oltre a venticinque braccia; questo descriveva una semicirconferenza che partiva da un punto del monte ad un altro, distanti fra loro dodici braccia. La porta della grotta stava nel centro al di là di tale linea di distanza fra entrambi i punti.
In tutto questo intervallo lavorai indefessamente, benchè per molti giorni e talvolta per più settimane continue le piogge me lo impedissero; ma io non mi credeva mai di essere veramente in sicuro finchè un tal baluardo non fosse compiuto. È appena credibile quanta immensa fatica mi costassero tutte le operazioni necessarie a tal uopo, quella soprattutto di trasportare i pali dai boschi e di conficcarli nel terreno; perchè io gli avea scelti molto più grossi di quanto sarebbe stato necessario.
Poichè questo baluardo fu terminato e l’esterno ebbe una doppia difesa dal terrapieno di zolle innalzato rasente ad esso, mi persuasi che chiunque fosse venuto su la spiaggia, si avrebbe immaginato di vedere tutt’altra cosa fuorchè un’abitazione; e ben fu ch’io avessi disposte le cose in tal guisa, come si potrà osservare da poi in un notabilissimo caso.
Intanto feci ogni giorno, quando la pioggia non me lo impediva, molti giri, andando a caccia per le foreste, nelle quali passeggiate mi occorsero frequenti scoperte or d’una cosa or di un’altra che mi tornarono vantaggiose; particolarmente mi abbattei in una specie di colombi salvatici che facevano i loro nidi, non come i colombi boscaiuoli negli alberi, ma in certo modo come i domestici nelle buche delle rocce; presi alcuni di questi ancor giovinetti, cercai di allevarli e addimesticarli e ci riuscii; ma venuti grandi, mi fuggirono tutti; del che fu probabilmente la prima cagione ch’io non aveva nulla da dar loro a mangiare; ciò non ostante capitai frequentemente ne’ loro nidi, donde trassi i colombi giovani, vivanda veramente squisita.
Mentre andava dando opera ora ad un affare casalingo or ad un altro, m’accorsi come mi mancassero tuttavia molte cose che su le prime pensai sarebbe impossibile per me il farmele da me medesimo; e per alcune ebbi ragione: per esempio io non arrivai mai a fabbricarmi e a cerchiarmi una botte. Aveva bensì dinanzi agli occhi uno o due bariletti come precedentemente osservai; ma non giunsi mai alla capacità di farmene uno sol modello di quelli, ancorchè intorno a ciò impiegassi parecchie settimane; non potei nè connetterne i piani nè unirne le doghe una all’altra con tanta saldezza che giungessero a contenere l’acqua; a quest’opera dunque io rinunciai.
Era per me una grande disgrazia anche di non aver candele. Non appena il giorno imbruniva, il che accadeva generalmente verso le sette ore, mi conveniva andarmene a letto. Mi ricordava allora quel pane di cera onde mi fabbricai candele nella mia spedizione africana; ma adesso quel pane non ci era: l’unico rimedio che ci trovai fu quello, avendo un giorno ammazzato una capra, di serbarne il grasso; pertanto mi feci un piattello di creta che seccai al sole; indi posto entro esso e il grasso ed un lucignolo che mi feci di alcune corde sfilate, me ne formai una lampada che mi dava luce fino ad un certo segno, non mai per altro limpida e ferma siccome quella di una candela.
- ↑ Pare veramente che avendo contrassegnata, come ha detto altrove, la prima, non gli dovesse costare gran fatica il rimettere in ordine il suo registro; ma sol tardi, come lo dice in appresso, cominciò ad essere un buon Cristiano, e quindi a darsi una certa cura di distinguere i giorni festivi.