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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Il padre di Venerdì.
Immantinente tagliai i ceppi di giunco ond’era avvinto, e volli aiutarlo ad alzarsi, ma egli non era buono nè a parlare nè a stare su le sue gambe: sol disperatamente gemeva immaginandosi, a quanto sembrò, che gli venissero tolti i lacci a solo fine di essere trucidato. Fattosi innanzi Venerdì, gl’ingiunsi di parlargli e informarlo della sua liberazione. Nel tempo stesso tratto a mano il fiaschetto di rum gli dissi di farne bere qualche sorso a quell’infelice. Questo ristoro, e molto più la notizia della sua salvezza, tanto lo confortavano che potè mettersi a sedere nella barca. Ma appena Venerdì lo udì parlare, e gli guardò in faccia, fu un singolare spettacolo il vedere come lo baciasse, lo abbracciasse, lo accarezzasse. Esclamava, ridea, mettea grida, gli saltava attorno, ballava, cantava; indi tornava a gridare, si contorcea le mani, si batteva il capo ed il volto; e ricominciava di bel nuovo a saltellare come un vero insensato. Passò qualche tempo prima che io avessi potuto cavar da lui una parola e sapere che cosa egli si avesse; infine quando fu un cotal poco tornato in sè, potè dirmi che quell’uomo era suo padre.
Non è punto facile ad esprimere la gioia ch’io provai veggendo i trasporti di amor filiate di quel povero selvaggio a vedere il suo padre che si felicemente era scampato da morte; e sarebbe eziandio impossibil cosa il descrivere la metà delle stranezze che l’affetto a quel buon giovane inspirava. Per ben venti volte uscì e rientrò nella barca. Or sedeasi accanto a suo padre e sostenendo il vecchio capo sul nudo suo seno, teneaselo per più minuti, simile ad una madre che tiene il suo pargoletto; or prendendone le braccia o le gambe illividite ed intormentite per le giunture le stropicciava, e le riscaldava colle sue mani. Ed io avendo conosciuto la cagione del suo male, diedi al mio servo del rum, per potere con esso soffregare le assiderate membra di suo padre; la qual cosa gli apporto non poco giovamento.
Questo avvenimento pose fine alla nostra caccia; intanto il canotto co’ fuggitivi era ormai quasi fuor della nostra vista; e noi ci tenemmo fortunati di essere stati distolti dai nostri disegni, dappoichè due ore dopo si levò un vento gagliardissimo, che durò tutta notte: il quale spirando da N. O. contrario a loro, non potettero certamente afferar la loro spiaggia.
Per ritornare a Venerdì, egli era così sollecito intorno a suo padre, ch’io in sulle prime non ebbi punto coraggio di allontanarnelo; ma vedendo ch’ei poteva ora lasciarlo un poco, lo chiamai a me, e venne saltando e ridendo, mostrando dipinta nel volto la gioia più viva. Chiestogli se avesse dato pane a suo padre, mi rispose alzando la testa: «No, affatto; io aver tutto mangiato.» Allora gli diedi una focaccia che avea nelle tasche per suo padre, ed un po’ di rum per lui; egli non volle però berlo e dettelo anche al vecchio. Mi trovava in tasca anche dell’uva passa, e gliene diedi un pugno pel povero Indiano. Aveva egli appena offerto questi frutti, la focaccia ed il rum a suo padre, che lo vidi slanciarsi fuor della barca e darsi a correre sì velocemente, che tosto lo perdetti di vista; poichè egli era agilissimo nel corso più di ogni altro uomo ch’io mi avessi mai veduto. Lo chiamai più volte, ma invano; egli non m’intese. Dopo non molto ritornò, ma meno sollecito ch’era stato nel partire, ed avvicinandomisi vidi che il suo passo era più lento, perchè portava seco qualche cosa. Egli era ito sino alla nostra abitazione, e ritornavane portando un gran vaso di acqua e alquante focacce. Quando mi fu vicino mi consegnò frettolosamente queste, e recò l’acqua a suo padre; il quale poichè ne ebbe bevuto un poco, ne fu ristorato più che dal rum, che io gli avea donato; che il povero selvaggio moriva della sete.
Quando il vecchio si fu alquanto ristorato, chiamai Venerdì e gli dimandai se fosse rimasta un po’ di acqua; a che avendomi risposto di sì, gli comandai di portarla al povero Spagnuolo, che dovea averne gran bisogno, al pari di suo padre, e recargli anche una delle focacce che mi avea egli stesso portate. Difatti quel malavventurato era in tale stato di debolezza, che erasi gettato sull’erba, all’ombra d’un albero, avendo ancora le membra infiammate e dolenti per la ruvida pastoia da cui erano state legate. Quando vidi che all’avvicinarsi di Venerdì ei si era seduto e che avendo bevuto dell’acqua cominciava a mangiar la focaccia, andai a lui per offrirgli un pugno di uva passa. Egli mi guardò, ed il suo sguardo espresse la più viva riconoscenza che può dipingersi in aspetto umano. Intanto egli era così spossato, che non ostante i coraggiosi suoi sforzi, non reggevasi in piedi, quantunque vi si provasse per due o tre volte; ma ciò gli riusciva veramente impossibile per l’enfiagione delle sue gambe. Io l’esortai a starsene riposato, ed ingiunsi a Venerdì di stropicciarlo col rum, nella stessa guisa che avea fatto a suo padre.
In questo mezzo che Venerdì fu inteso a tale ufficio, non potea tenersi di volgere a quando a quando la testa, e più spesso che potea, verso suo padre, che era sempre nello stesso luogo ove egli lo avea lasciato. E una volta, nol vedendo, si alzò e senza profferire parola corse a lui in gran fretta, tanto che i suoi piedi parea non toccassero terra. Giunto al luogo ove il vecchio era rimasto seduto, e trovatolo che si era unicamente steso con tutto il corpo sulla barca per dar qualche sollievo alle stanche membra, tornò subito presso di noi. Allora dissi allo Spagnuolo di lasciare a Venerdì che lo aiutasse alla meglio per accompagnarlo al canotto, donde lo avrebbe traghettato sino alla mia abitazione ov’io sarei stato il suo infermiere. E tosto Venerdì, da gagliardo giovinotto qual era, se lo prese su le spalle e condottolo alla barca lo posò dilicatamente su la sponda del canotto coi piedi volti verso la parte interna e, portatolo di peso, lo adagiò presso suo padre. Allora uscito di nuovo del canotto staccò questo dalla riva, poi tornatovi entro remò rasente la spiaggia con più prestezza di quanta ne poteva mettere io nel camminare. Così li condusse salvi entrambi nella nostra casetta, ove lasciatili tornò addietro per pigliare l’altro canotto. Passandomi davanti gli chiesi ove corresse. Mi rispose:
— «A far più nostre barche.»
Correa come il vento, chè certo non ho mai veduto uomo o cavallo a galoppare più di lui; e l’altra barchetta fu nella darsena quasi prima ch’io giugnessi alla riva per terra. Traghettatomi alla sponda opposta andò ad aiutare i nostri due ospiti per uscire del canotto; ma nè l’uno nè l’altro erano al caso di camminare, onde il povero Venerdì non sapeva che cappello mettersi.
Pensai tosto al rimedio, e, fatto dir loro da Venerdì che si ponessero seduti su l’erba, ed avessero pazienza finchè tornassimo, lo condussi meco, nè tardai a mettere insieme una specie di carriuola a mano, entro cui li tirammo fino alla cinta esterna del mio castello o fortezza.
Ma quando fummo lì, eravamo a peggior condizione di prima, perchè era impossibile il farli passare di sopra del muro, e io non voleva risolutamente farvi una breccia. Anche qui mi diedi a pensare; e, tra Venerdì e me, in meno di due ore di tempo avevamo piantata una tenda, da vero assai elegante, composta di pezzi di vele e coperta di rami d’alberi. Stava questa nello spianato esterno della nostra fortezza tra essa e il boschetto di giovani piante ch’io m’avea fatto recentemente; qui alla meglio composi due letti delle cose che aveva: cioè di paglia di riso e di due coperte, la prima perchè vi giacessero sopra, la seconda perchè vi stessero sotto in ciascun letto.